La bussola dell'autogestione

La bussola dell'autogestione

La crisi storica del movimento operaio chiede uno sforzo eccezionale di fantasia e sperimentazione per ricominciare. Soprattutto se si propone di ricominciare dalla base, “là dove tutto è cominciato”. Dalla “parola operaia”, dal titolo del bel libro curato da Alain Faure e Jacques Ranciere. O dall'ipotesi dell'autogestione. Nel tritacarne della lotta di classe novecentesca, con i suoi picchi estremi di generosità ma anche con la vittoria delle elites e delle burocrazie che tutto hanno sequestrato, quella rivendicazione è stata ricoperta di errori strategici se non di insulti, da un movimento comunista internazionale dominato dallo stalinismo. Ma anche dalle tendenze socialdemocratiche che hanno inteso l’autogestione come qualcosa di troppo o troppo poco conflittuale. Noi pensiamo, invece, che questa ambizione offra un terreno prezioso per impostare un nuovo inizio. In una crisi sistemica delle sinistre, in Italia e in Europa, la pallina di una ripartenza va collocata in un numero un po' bizzarro, a cavallo tra il rosso e il nero, in un crinale poco esplorato, ma ricchissimo e denso di potenzialità, dell'elaborazione marxista.
Per questo, il libro di Andrés Ruggeri che avete tra le mani è importante. Per aiutare i percorsi concreti di riappropriazione sociale e di autogestione, innanzi tutto. Ma anche per offrire con più completezza e chiarezza un terreno di discussione alle varie sinistre tramortite e a coloro che una sinistra di classe, anticapitalista, davvero nuova, inedita costruiranno domani.
L'idea dell'autogestione operaia è infatti alla base delle complesse fortune delle “fabbriche recuperate” di cui parla Andrés Ruggeri. L'iniziativa ha preso le mosse dall'Argentina stritolata dalla grande crisi del 2001 e dal “default” che ne seguì. Di fronte allo sfacelo sociale provocato dai “migliori allievi del Fondo monetario internazionale”, come furono definiti il presidente argentino Menem e i suoi seguaci, ai lavoratori e alle lavoratrici in lotta non rimase che imboccare la strada dell'azzardo. The take, la presa, l'occupazione: così Naomi Klein definì quel tentativo in un film che restituiva tutta la crudezza dell'orrore economico provocato dalla crisi. Ma anche la forza della speranza che può sorgere dall'azione collettiva. E così, dopo il mito della Zanon, la prima fabbrica recuperata in grado di rimettersi pienamente in produzione e di stare, addirittura, sul mercato, le imprese recuperate in Argentina sono arrivate a circa 300 ricollocando al lavoro oltre quindicimila lavoratori e lavoratrici. Poco, se paragonato all'ampiezza di un'economia nazionale. Molto, se la prospettiva è quella di invertire la tendenza all’espulsione di massa dal mercato del lavoro e aprire nel contempo una strada di cambiamento. Ma nel momento in cui l’edizione italiana di questo libro vede la luce il quadro internazionale si fa ancora più interessante. Iniziative di lotta vittoriosa si sono realizzate in Grecia, con la Vio.me di Salonicco, in Francia con la Fra.lib di Marsiglia, che ha imposto alla multinazionale Unilever di pagare i costi della ripresa autogestita, sede del Primo incontro europeo delle imprese recuperate nel gennaio 2014. E poi in Turchia, con la Kazova di Istanbul e ancora in Spagna con altre esperienze di autogestione. Mentre è in preparazione per il mese di luglio 2015 il primo incontro internazionale delle fabbriche recuperate in Venezuela presso la Venezolana de Telecomunicaciones, Vtelca, di Punto Fijo nel Paraguanà. Si tessono reti internazionali e si costruiscono canali di comunicazione come il prezioso sito workerscontrol.net. In Italia da un paio di anni esistono due esperienze pilota che hanno generato un'attenzione smisurata proprio per la loro allusione a una ipotesi diversa di uscita dalla crisi, la Ri-Maflow di Trezzano sul Naviglio presso Milano e Officine Zero di Roma. Il movimento è agli albori, non ha finora attecchito in ampi settori del vecchio movimento operaio né ha suscitato l'interesse da parte delle grandi sigle sindacali o dei partiti residui della sinistra. Non a caso. Ma un movimento si sta mettendo in cammino, una linea di azione è stata abbozzata. Le fabbriche recuperate hanno indicato la rotta dell'autogestione come ipotesi politica e strategica.
Per andare dove, facendo cosa? La studiosa e militante francese Catherine Samary avverte che quando si parla di autogestione è sempre bene “chiarire di cosa si parla se si vogliono evitare falsi dibattiti e approfondire la riflessione”. C'è infatti l'autogestione come diritto individuale, come possibilità per i lavoratori, ma anche gli individui, di gestire la propria vita, le proprie esigenze sociali, in prima persona sia pure in un percorso legato a una progettualità politica. L'autogestione che mira a mettere al centro la piena partecipazione dei lavoratori all'economia con l'obiettivo di soddisfare i propri bisogni e non di realizzare necessariamente un profitto privato. Ma c'è un altro aspetto importante, la visione di società, l'autogestione come architrave di una prospettiva di trasformazione. Ad esempio la concezione anarchica dell'autogestione o quella più direttamente marxista. La prima si snoda impresa per impresa, la seconda rimanda alla concezione di “pianificazione” magari, come nel “caso jugoslavo” combinando piano, autogestione e mercato. L'autogestione, dunque, come progetto politico.
Naturalmente l’autogestione della produzione e più in generale dell’attività produttiva, in particolare dall’avvento delle fabricas recuperadas argentine al centro dell’analisi di Andrés Ruggeri, è intesa come massimo sviluppo del controllo operaio. E quindi la riappropriazione dei mezzi di produzione è frutto della lotta, mentre la gestione – indipendentemente che si utilizzi lo strumento formale della cooperativa o altre modalità societarie – deve essere necessariamente democratica (potere decisionale all’assemblea e revocabilità dei mandati). Queste caratteristiche sono quelle che distinguono l’autogestione operaia da una normale cooperativa.
Ma per tornare ai filoni classici a cui facevamo riferimento, a noi interessano entrambi gli ambiti, perché nella concretezza di un'autogestione “qui e ora” si possono rintracciare i prodromi di un accumulo di coscienza politica in grado di rigenerare un progetto. Soprattutto, non ci interessa un modello storico di riferimento perché sostanzialmente non esiste. Il valore aggiunto di un processo di ripartenza è esattamente quello di recuperare il meglio dell'esperienza storica. Senza andare alla cieca.
Restiamo fedeli all'assunto della Prima Internazionale secondo cui "l'emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi". E non del partito, dello Stato, degli apparati o di quant'altro si è sovrapposto alla libera iniziativa e alla partecipazione diretta dei vecchi e nuovi proletari. La strada della ricostruzione di un progetto di alternativa di società, fondato sull'attualità dell'analisi marxista ma anche su tutti gli altri stimoli e riflessioni del pensiero alternativo – in particolare quelli femminista ed ecologista – passa da questo snodo essenziale. Per lo meno, a noi interessa intraprenderlo da qui. Il comunismo realmente esistito è fallito, la socialdemocrazia non ha nulla da dire specialmente oggi che si è trasformata nell’alfiere delle politiche liberiste. Alternative solide in giro non esistono. La strada della liberazione dallo sfruttamento, dalla crisi, dalla povertà non può quindi che essere quella del "governo politico dei produttori" senza più alcun "asservimento sociale". Per questo, però, è giusto e utile fare dei test dal vivo di nuovi orizzonti per capire se, come e quanto sia possibile divenire i soggetti della propria storia.
L'ambizione di un processo di autogestione, quindi, non si restringe all'obiettivo di occupare e recuperare una singola fabbrica o una singola attività economica. Questo è solo il punto di partenza. E il monitoraggio costante delle esperienze in corso che presentiamo con questo libro è fondamentale per capire la realizzabilità di queste iniziative e le concrete dinamiche che si aprono in questi contesti. In ogni caso non è certamente l'obiettivo di realizzare isole liberate nel mare di un'economia distruttrice. È un programma politico, un progetto di società, una costruzione da realizzare con la lotta e con l'esperienza esemplare. Non abbiamo la pretesa di modificare il corso del capitalismo con le singole esperienze quanto realizzare un ponte tra l'esperienza diretta e una visione generale per contribuire, in modo parziale, a ricostruire un soggetto della trasformazione i cui contorni oggi per lo più sfuggono.
Esisteva, nel corso del Novecento, quel grande soggetto dell'emancipazione umana che è stato il Movimento operaio inteso non come "movimento di operai" ma come movimento generale in cui il termine "operaio", per il ruolo assunto dal movimento comunista, rappresentava interessi generali. Oggi gli operai esistono ancora, anzi nel mondo sono in crescita, e lottano, spesso duramente. Ma il "movimento" generale in cui la loro lotta era inscritta, il programma minimo, medio o massimo non esistono più oppure sono impalpabili. Non esistono più i partiti che hanno lottato nel corso del Novecento e anche i grandi sindacati sono diventati altro: strumenti di cogestione dell'economia capitalistica e non condensati, sia pure riformisti, di una coscienza di classe. In questo senso, quindi, le attuali condizioni della lotta di classe ricalcano più gli schemi di fine Ottocento, quelli degli albori del vecchio movimento operaio, che le tappe, nitide, drammatiche ed esaurite, del Novecento.

La centralità della Comune

Da dove ricominciare, quindi? Il nostro approccio muove dalla centralità, analitica e metodologica, non certamente come modello da imitare, della Comune di Parigi. Da lì occorre ripartire. Attorno a questa centralità vanno valorizzate le riflessioni compiutamente marxiste come quelle di ispirazione libertaria. Non c'è nulla da mitizzare né da demonizzare ma solo la consapevolezza che un nuovo inizio ha bisogno di realizzare esperienze in grado di offrire una base solida di riflessione. Esperienze esemplari che possano alludere al progetto di società ma, soprattutto, che producano indicazioni di lavoro politico e teorico.
Sotto la cappa di piombo dello stalinismo e della socialdemocrazia, che a lungo andare ne hanno decretato la fine, il movimento operaio ha compiuto slanci rivoluzionari di portata epocale sul piano dell'autogestione operaia e del controllo dei lavoratori sulla produzione e, sia pure parzialmente, sulla società. Con in testa l'“autogoverno dei produttori” di cui parla Marx nel testo chiave, La guerra civile in Francia: “In un abbozzo sommario di organizzazione nazionale, che la Comune non ebbe il tempo di sviluppare, è stabilito con chiarezza che la Comune doveva essere la forma politica anche del più piccolo villaggio di campagna […] Le comuni rurali di ogni distretto dovevano amministrare i loro affari comuni mediante un'assemblea di delegati con sede nel capoluogo e queste assemblee distrettuali dovevano a loro volta inviare i propri deputati alla delegazione nazionale a Parigi; ogni deputato doveva essere revocabile in ogni momento e legato a un mandat imperatif dei propri elettori”. Le linee guida di un'ossatura statuale autogestita e basata sulla partecipazione effettiva alla vita pubblica, sono descritte in poche righe. A queste “istruzioni” si è attenuto Lenin nel redarre Stato e rivoluzione in cui la Comune assume un posto centrale nel definire ruolo e compiti dei Soviet. La storia e lo stalinismo distruggeranno quell'intuizione insieme ad errori importanti dei dirigenti bolscevichi, compreso Trotsky, sul piano della democrazia nel partito e del ruolo di quest'ultimo in relazione allo Stato. Ma quell'intuizione non muore: riemerge di nuovo, solo un anno dopo, nel biennio rosso italiano, in quel movimento dei Consigli, del 1919-20 in cui si afferma l'originalità di Gramsci, così come nei Consigli operai della Rivoluzione tedesca tradita e soffocata dalla socialdemocrazia. Si riaffaccia, pur dilaniata dalle vicende della guerra, nella Spagna antifranchista del '36 con numerose esperienze di autogestione, e riappare praticamente in ogni successivo sollevamento di massa con vero protagonismo dal basso nelle più diverse latitudini. Anima infatti il dibattito dei Consigli operai del secondo biennio rosso italiano, quello del 1968-69, così come i cordones industriales del Cile nel 1971-73. L'esperienza concreta si struttura fino alla dimensione della lotta, costituendo organismi popolari e/o operai incaricati di condurla. Quasi mai, tranne nell'Ottobre, si struttura in una forma adeguata che dia vita a un “dualismo di potere” che vada oltre i luoghi di lavoro, in grado cioè di contendere la direzione politica e quindi di pensare la rivoluzione. Il tema resta tutto da indagare. Perché, storicamente, quella vicenda si è conclusa con una disfatta, quella del comunismo realizzato, e oggi, nella ripartenza, si pone l'obbligo di rinominare le esperienze, di sondarle alla luce delle possibilità future e non mettendole davanti allo specchio della storia.

Un dibattito attuale

Recuperare una fabbrica per costruire un assetto di società futura, con i suoi organismi istituzionali, le sue priorità, le scelte economiche di fondo, è una strada lunga da compiere. Non esistono scorciatoie propagandistiche ma solo la lenta impazienza di un lavoro molecolare che possa, però, farsi esperienza esemplare e in questo modo illuminare il cammino. Recuperare una fabbrica può essere così un'intuizione concreta che rischiara un progetto, producendo ossigeno per una battaglia politica nel vivo del movimento reale. Una fabbrica autogestita si può mettere in rete-coordinamento-assemblea con il territorio circostante, con altre fabbriche recuperate, con esperienze diverse di mutuo soccorso per arare il terreno della solidarietà di classe e gettare i semi di una sfida politica all'esistente.
Ripartire non significa però azzerare. L'esperienza passata è utile per capire, per non ripetere errori, per cogliere i nodi irrisolti. Il “caso jugoslavo” continua ad essere di grande interesse per il tentativo di rompere con la pianificazione burocratica dall’alto secondo il modello dell’Urss. Anche se l’autogestione è destinata all’insuccesso proprio per l’abolizione della pianificazione, mentre ipotesi più significative quali quella avanzata dal gruppo dissidente Praxis – la pianificazione autogestionaria – non hanno potuto neppure essere messe alla prova. Oggi quell’esperienza e quel dibattito rischiano di apparire lunari e segnati ormai da una storia drammatica, che ha condotto la Jugoslavia al naufragio disastroso in una guerra sanguinosa a causa del ruolo nefasto del partito-Stato e del ricorso al nazionalismo da parte delle burocrazie in crisi.
Più attuale e più rilevante ai fini delle stesse esperienze di autogestione è il laboratorio latinoamericano, sempre più mosso e contraddittorio ma non per questo privo di interesse per temi quali la relazione tra movimenti, partiti e istituzioni o il rapporto tra lo Stato e il mercato. Nasce lì, non a caso, l'ipotesi suggestiva del “cambiare il mondo senza prendere il potere”. L'idea dell'anti-potere o del “potere dell'azione” che anima la riflessione di John Holloway, a sua volta mutuata dalla lotta zapatista, ad esempio, ha un rapporto e un'influenza diretta con l'esperienza delle fabbriche autogestite. L'ipotesi che si possa scatenare la potenzialità insita in una serie di esperienze autogestite, come tanti territori liberati, può rappresentare uno sbocco concreto a un processo di autorganizzazione produttiva a livello operaio o contadino (per l'America latina). Una posizione che non va demonizzata anche se il bilancio storico che se ne può trarre induce a ritenere che il tema dell'efficacia dell'azione politica tramite avanzamenti consistenti anche nella zona, ambigua e scivolosa, del potere, resti decisivo. In un suo recente saggio, Franck Gaudichaud, che si interroga utilmente su questi aspetti, ricorda anche le teorie sulla “dispersione del potere” di Raoul Zibechi secondo cui, analizzando l'esperienza della “comune di Oaxaca”, la sfida “sarebbe quella di fuggire lo Stato, di uscirne” piuttosto che occuparlo. “La dispersione di potere si realizza in due modi: da un lato con la disarticolazione della centralizzazione statuale e dall'altra creando una moltitudine di forme organizzative da parte dei movimenti”. Una serie di “micro-poteri” come antidoto alla perdizione del potere.
A fronte di queste teorie, ricorda Gaudichaud, ci sono gli autori marxisti ortodossi che per reazione insistono sulla necessità di “prendere il potere” per "resistere all'imperialismo". E quindi rivendicano la rivoluzione cubana o il processo venezuelano contro la fragilità costitutiva dell'anti-potere. In nome di una, comprensibile, esigenza di efficacia dell'azione politica e di una sua durevolezza, i fautori del “potere”, però, spesso non fanno i conti con le esperienze storiche di burocratizzazione e di utilizzo contro gli stessi lavoratori di Stati che si volevano liberati e socialisti. “Come prendere il potere senza farsi prendere dal potere?” chiede giustamente Gaudichaud. Come costruire forme di potere popolare su cui si innesti una reale democrazia di base, un controllo effettivo dal basso, una partecipazione concreta e non solo declamata? Il problema, ad esempio, è posto quotidianamente ai “consigli comunali” venezuelani che devono fare i conti con uno Stato chavista in cui il partito al potere, il Psuv, aumenta ogni giorno le proprie prerogative e il proprio raggio d'azione e i propri privilegi. Lo stesso avviene con le cooperative e con le imprese recuperate: quali sono gli strumenti per un loro coordinamento al di là dei meccanismi di mercato che tendono a disarticolarle se non a metterle in concorrenza tra loro? Qual è il terreno di una efficacia democratica coordinata istituzionalmente? La gestione statale, il ruolo del partito, uno spazio istituzionalmente garantito a strutture di movimento? E quali? E in che modo affrontare la questione delle elezioni e delle istituzioni rappresentative? Come ricorda l'economista argentino Claudio Katz il dibattito sul futuro del socialismo non risiede tanto sulla realizzazione di un altro mondo possibile ma sul suo inizio, sulle condizioni realizzate oggi in vista dell'inveramento futuro. La complessità dei temi qui posti, pone l'esigenza di fare più domande che dare risposte. A condizione che le domande siano quelle giuste e siano poste nel modo giusto. Valutando i diversi fattori sul campo, ad esempio, si può certamente muovere in una direzione in cui l'autorganizzazione e l'autogestione popolare siano la stella polare di un sistema istituzionale in cui il potere sia effettivamente il “poter fare” di tutti e tutte, con eguali condizioni di partecipazione e con efficacia dell'azione politica. Il problema della “presa del potere” a livello statuale, del resto, ha il dovere di porsi in relazione alle nuove geografie dell'economia globale, a confini nazionali traslati dal potere delle multinazionali e da una conformazione macro-regionale dell'organizzazione sociale. Ha ancora senso la “presa del potere” in un solo paese d'Europa? La domanda non è peregrina se si pensa a cosa potrebbe accadere in Grecia di fronte a un governo delle sinistre guidato da Alexis Tsipras. L'autogestione operaia e popolare può, deve avere il potere di cambiare il mondo a partire dalle priorità, superando la centralità dell'economia e introducendo la priorità ecologica. Riflessioni ben presenti, ad esempio, nel Movimento dei Sem Terra brasiliano che, da anni, ha teso un elastico tra l'occupazione delle terre per produrre immediatamente forme di autogestione contadina e una visione di società alternativa basata sull'emancipazione degli uomini e delle donne. Come sottolinea Daniel Bensaïd nel corso di un suo dibattito con John Holloway: “Servirà molto osare al di là delle ideologie, immergersi nell'esperienza storica per riannodare i fili di un dibattito strategico sepolto sotto il peso delle sconfitte accumulate. Alle soglie di un mondo in parte inedito, dove il nuovo cavalca sul vecchio, meglio riconoscere ciò che si ignora e rendersi disponibili alle esperienze a venire che teorizzare l'impotenza minimizzando gli ostacoli da superare” (Contretemps, 2003).

L'esperienza esemplare

Eppure, prima del dibattito strategico e prima della riflessione teorica, l'autogestione nelle fabbriche recuperate deve compiere il suo corso, darsi un'agibilità effettiva, produrre fatti e senso. Cosa fare subito dopo l'atto originario dell'occupazione, dopo la decisione di recuperare? La decisione, sia chiaro, è fondamentale perché costituisce una chiara manifestazione di volontà politica che può essere intrapresa anche senza aver sviluppato tutto il dibattito a venire (altrimenti ci si condannerebbe a quell'impotenza da cui ci avverte Bensaïd). Rappresenta un atto importante soprattutto al tempo della crisi. E qui il lavoro di Ruggeri risulta ancora una volta un’indispensabile chiave di lettura e di proposta anche per realtà esterne al teatro latinoamericano.
È infatti proprio il fattore economico, ossia la necessità di reagire alla disoccupazione e alla mancanza di reddito, che costituisce, più di ieri, una spinta potente all'azione. E va valorizzato per questo, senza timore di derive “economiciste” di secondo livello. L'aggravarsi della crisi, i colpi inferti dalle politiche liberiste, riducono gli spazi di azione delle classi deboli, anche sul piano della militanza, e pongono il terreno della condizione materiale dei soggetti in lotta. Spesso non c’è alcuna possibilità di aggregare su una battaglia per il lavoro e il reddito i disoccupati, i lavoratori espulsi dalle aziende, i precari, gli studenti se non c’è almeno un tentativo di ottenere un reddito. Neppure la militanza è nella condizione di continuare le battaglie esclusivamente politiche (anche a partire da obiettivi molto positivi, quali un reddito incondizionato per tutti/e i senza lavoro, la riduzione generalizzata dell’orario a parità di salario, l’esproprio delle imprese che licenziano, ecc.) proposte da partiti, sindacati, associazioni varie se tutti sono costretti a impiegare il loro tempo per garantirsi una sopravvivenza.
Allo stesso tempo, la ricostruzione di una soggettività alternativa richiede la creazione di punti di appoggio materiali che possano sostenere una lotta di lungo periodo. Come in guerra esistono retrovie messe in sicurezza per poter condurre una battaglia dagli esiti ignoti, anche nella lotta di classe sono necessarie istituzioni di movimento che garantiscano gli eventuali approvvigionamenti. L'accumulazione originaria del movimento operaio è stata garantita dalle reti di Mutuo soccorso ante-welfare (quindi con forme di solidarietà primordiale, come le casse di resistenza o sanitarie), dalle Case del popolo, da progetti di mutua assicurazione, da sindacati al servizio di una forza lavoro dispersa e disperata. Il cammino del nuovo proletariato di inizio secolo ripropone i compiti, purtroppo, che si ponevano alla fine dell'Ottocento. Dotarsi di punti di appoggio, di condizioni di autosufficienza economica e logistica (come le stesse sedi per le riunioni, forme di auto-produzione di reddito, mutua assistenza) significa porre le basi per una resistenza di medio periodo e per ricominciare.

La nascita della RiMaflow

Il ragionamento empirico che ha portato alla costituzione della realtà autogestita della RiMaflow partiva dal presupposto che, in assenza di ipotesi di resistenza collettiva una volta conclusa la vertenza sindacale, la maggiore concorrenza al ribasso si fosse già instaurata immediatamente, dato che si fondava sulla disponibilità del singolo lavoratore atomizzato, indifeso e ricattato ad accettare qualsiasi condizione pur di lavorare.
Quindi si è partiti da uno stato di necessità: uscire da quella condizione costruendo un primo livello di mutuo soccorso e di solidarietà. E poiché era la fabbrica il luogo che consentiva di avere un lavoro e un reddito si sono studiate le possibilità di riappropriazione della fabbrica e di riavvio della produzione, quindi – per riprendere uno slogan efficace del Movimento dei Sem Terra brasiliano, non a caso fatto proprio dal movimento autogestionario argentino – “occupare, resistere, produrre”.
E così a fine 2012 è cominciato l’assedio della ex Maflow poi occupata. I lavoratori hanno resistito e pur in presenza di uno svuotamento di quasi tutti i macchinari, hanno iniziato alcune forme di produzione, riconvertendo l’attività da automotive nel riuso e nel riciclo di prodotti elettrici ed elettronici (Raee) e nella distribuzione (e domani lavorazione) dei prodotti del Parco agricolo Sud Milano, nella logica del consumo critico e della filiera corta a chilometro zero. Ossia in direzione ecologista, trasformando un luogo tradizionalmente inquinante come la fabbrica, anche una fabbrica dismessa, in un luogo recuperato e aperto alle necessità del territorio: che è e sarà la risorsa fondamentale per procurarsi il lavoro e il reddito nel giro dei due anni di vigenza degli ammortizzatori sociali.
L'esperienza Ri-Maflow si è dichiarata fin dall'inizio debitrice della pratica e dell'elaborazione compiute dal movimento brasiliano dei Sem Terra. Con lo slogan "Occupare, resistere e produrre", il Mst organizza da trent’anni i contadini privi di terra per occupare le zone improduttive. Riescono a raggruppare da 300 a 3.000 famiglie, persone che vivono nei quartieri poveri delle grandi città ma che provengono dalla campagna. Uscire dalla povertà e tornare a lavorare in campagna è ciò che spinge queste famiglie a raggrupparsi intorno al Mst e a iniziare il processo di occupazione e resistenza. Ottenuta la legalizzazione dell’occupazione, la terra diventa di proprietà dello Stato che la concede in usufrutto alle famiglie occupanti. Da quando è cominciato, il Movimento non ha mai smesso di occupare terreni, di organizzare la produzione e la distribuzione in forme cooperative, di costruire scuole e di formare nuovi militanti. Ora sono circa due milioni le persone che vivono e lavorano in terre occupate e/o legalizzate. Le associazioni contadine e le cooperative di produzione sono centinaia. Nell’aprile 2010 sono state contate circa duemila scuole presenti nei loro accampamenti, e nella loro Scuola Forestale Nazionale Florestán Fernández hanno studiato 16.000 giovani per formarsi sul piano tecnico e politico. Adesso sono circa 60.000 le famiglie accampate in attesa di legalizzazione delle terre occupate. Quali sono i mezzi per ottenere tanto con così poco? Sono tre i motivi del successo del Mst: lotta costante, organizzazione come costruzione di nuovi valori, educazione come garanzia di continuità. La lotta continua parte dall’idea che la conquista della terra per un gruppo di famiglie non è sufficiente, deve continuare con la Riforma Agraria. Ciò implica un grande cambiamento strutturale del modello economico e politico del paese. Con il recente congresso del febbraio 2014, a fronte della paralisi dei governi e dei loro annunciati percorsi di riforma, il Mst ha lanciato una nuova Riforma Agraria Popolare, costruita dal basso in un’alleanza con i movimenti sociali urbani, puntando sulla qualità dei prodotti e sull’ambiente e contro l’agrobusiness: un nuovo rapporto città-campagna al centro anche dell’attuale dibattito nei movimenti sociali italiani che si occupano di alimentazione, di cui anche l’esperienza di Fuorimercato nata a RiMaflow fa parte.
La corsa del pistone tra il punto inferiore dell'esperienza quotidiana e quello superiore dell'obiettivo strategico torna quindi in primo piano anche nel caso dei Sem terra che restano un'esperienza, fra quelle fin qui analizzate, tra le più interessanti sul piano dei movimenti sociali che si fanno politici mescolando i due livelli. Ritorna così un nodo analitico cruciale di questo passaggio storico. Il "sociale" e il "politico" si intrecciano in forme inedite rispetto al Novecento nella sedimentazione di coscienza di un nuovo soggetto. Per quanto necessario in prospettiva, sia pure in forme tutte da indagare, il partito non è più quel soggetto soverchiante gli attori sociali che è stato storicamente. Non si pone su un podio a dettare i compiti storici e nemmeno è il punto di coagulo di sussulti succedanei del movimento di classe. Più che un nuovo partito, quello che potrà sorgere da un fenomeno di ricomposizione sociale sarà con ogni probabilità una soggettività di tipo nuovo, più complessa, capace di mescolare diversi piani dell'agire politico e sociale. Inutile prefigurare l'ignoto. Più utile definire la sequenza dei reperti empirici della ricostruzione oltre a delineare l'ambito teorico di un nuovo progetto. In quei reperti, dunque, ci sono pratiche sociali in grado di sedimentare coscienza e potenza. Tra queste l'occupazione e la riappropriazione, propedeutiche all'autogestione.

Un decalogo per resistere

A questo fine è importante scandire gli elementi metodologici che rendono coerente lo sforzo empirico.
1) Lo statuto, i diritti di autogestione – scrive ad esempio Catherine Samary – si concretizzano evidentemente sul luogo di lavoro a prescindere dalla natura di questo. Ma non dovrebbero limitarsi a questo livello: il diritto di decidere delle priorità, dei criteri di distribuzione, dei mezzi affidati all'autogestione, devono essere discussi e applicati indipendentemente dal posto di lavoro occupato e sotto la doppia angolazione lavoratori/utenti. Perché i lavoratori degli ospedali devono essere i soli a decidere dei finanziamenti, della gestione e delle priorità della salute? Perché i lavoratori di una miniera devono perdere i loro diritti con la chiusura di un sito per ragioni ecologiche?
2) Per realizzarsi e trovare la propria efficacia, il sistema autogestionario deve rimettere in discussione un eventuale sistema di pianificazione centralista e burocratico. Ma, allo stesso tempo, occorre superare la concezione dell'impresa sul mercato che mette in concorrenza tra loro i lavoratori impedendo di sviluppare i diritti autogestionari sul piano politico “orizzontale”. Alcune forme di “pianificazione autogestionaria” possono combinarsi ed essere approntate anche propedeuticamente all'autogestione vera e propria.
3) La lotta contro i processi di burocratizzazione e di riproduzione delle ineguaglianze (di genere, sociali, culturali, ecc.) deve essere esplicita e concretizzata da misure di sorveglianza, diritti di autogestione, mezzi concreti (mediatici e finanziari), ripartizione dei compiti più ingrati, rotazione delle responsabilità.
4) L'autogestione è politica, nel senso che non basta formare una cooperativa, occupare un luogo dismesso, far ripartire una produzione. Occorre un progetto di fondo, anche intermedio, anche transitorio che permetta all'esperienza di durare nel tempo e traguardare le singole difficoltà. Il progetto si sostanzia nelle forme stesse dell'autogestione, nella sua democraticità, nella capacità di evitare gerarchie, ruotare le funzioni, sperimentare il potere dell'assemblea, la rotazione degli eletti.
5) Propedeutica all'autogestione c'è la riappropriazione, concetto decisivo al tempo della lotta tra l'1% che ha tutto e il 99% che non ha nulla. Riappropriarsi è un diritto, una necessità storica, un passaggio formativo di nuova consapevolezza storica. È un atto politico rivendicabile, non solo a livello di fabbrica ma anche di spazi di socialità e di luoghi da recuperare alla produzione di reddito. È una forma di resistenza alla crisi, quindi un obiettivo transitorio che innesca un conflitto, una lotta, le conferisce il telaio dell'autorganizzazione e le propone la necessità di redigere un progetto politico che pone fin da questo momento il tema della proprietà.
6) Senza un sostegno attivo ai processi di riappropriazione e recupero non c'è futuro. Una singola occupazione, una fabbrica recuperata, uno spazio di mutuo soccorso devono assolutamente collegarsi al mondo intorno a loro, costruire in nuce l'unità lavoratori/utenti, affermare la superiorità di processi democratici inclusivi e diretti, costruire senso collettivo attorno alle esperienze. Questo non è solo decisivo ai fini della resistenza, supportata dalla solidarietà concreta, ma è uno dei gangli del processo di formazione di una coscienza di classe all'altezza della fase. E costituisce un primo antidoto contro lo stritolamento dei meccanismi di mercato che è in agguato dal primo giorno dell'occupazione. La costituzione di Camere dell'autogestione va in questa direzione.
7) Il sostegno, la solidarietà, le condizioni di base per resistere non si danno soltanto a livello di mutuo soccorso ma richiedono anche istituzioni, governi "permeabili" alla lotta e agli interessi di classe. Un processo di formazione di una nuova soggettività, ad esempio, non può essere indifferente all'ipotesi di un governo delle sinistre in Grecia prodotto da una lotta popolare o all'evoluzione dei governi di alternativa in America latina. La soggettività che a noi interessa non è un partito che si immette nel percorso elettorale. Ma il processo di affermazione di governi di alternativa in cui far avanzare il processo costituente di movimenti di autogestione e di trasformazione anticapitalistica è importante. Sapendo che nulla si conquista e si mantiene senza lotta, un passaggio della stessa può essere anche la possibilità di utilizzare gli spazi offerti da esperienze di governi di rottura, anche in forme spurie, in grado di favorire la dinamica dell'autorganizzazione e permettere il consolidamento di poteri popolari di tipo nuovo. In questo senso si definisce, oggi, il rapporto con la politica tradizionale.
8) Il punto decisivo resta la potenzialità anticapitalista. È essenziale che le forme di autogestione cooperativa siano strettamente collocate nel quadro di una dinamica conflittuale, in sintonia con l’insieme delle lotte sociali, a partire dalle lotte del lavoro unitamente ai militanti sindacali combattivi: non si può isolare questa lotta, non possiamo smettere di pensare di essere parte di un fronte più complessivo di classe. Come potremmo strappare da soli una legge che consenta sul serio di espropriare le aree occupate per un loro utilizzo sociale? In una parola, come possiamo costruire i rapporti di forza sociali e politici per contrastare la dittatura del capitale e strappare qualche risultato? Solo in questa forma le cooperative autogestite e le sfere economiche fondate sulla solidarietà possono giocare un ruolo di coesione dei lavoratori e di prefigurazione della fine dello sfruttamento del lavoro da parte del Capitale, evidenziando le contraddizioni del sistema, soprattutto in un periodo di profonda crisi strutturale come l’attuale. Si tratta cioè di dar vita a forme di contropotere e di controsocietà.
9) Non solo fabbriche. Se la bussola del cammino è l'autogestione, la difesa materiale degli interessi di classe, la ricostruzione di un programma di emancipazione sociale, il progetto politico non si limita solo al recupero delle fabbriche. Schematizzando, è importante recuperare qualsiasi attività economica e sociale. Qualsiasi elemento in grado di inserirsi in una Rete di Mutuo soccorso, non solo come rete di protezione materiale dalla crisi né come progetto para-sindacale. Ma come strumento politico che ambisce a riprogettare un percorso di liberazione. La rete di mutuo soccorso è fatta di fabbriche recuperate, di agricoltura biologica fuori mercato, di un nuovo rapporto tra la città e la campagna, di commercio alternativo e a sfruttamento zero, di autoproduzione culturale, di un groviglio di esperienza anche diverse tra loro ma comunemente orientate a un progetto politico.
10) L'autogestione ha bisogno di un lavoro costante, non appaltato all'esterno né rimosso, di riflessione e approfondimento. Il libro di Ruggeri realizza questo scopo attraverso un lavoro decennale di ricerca sul campo che verifica i dibattiti teorici sull’autogestione con la loro esperienza concreta nelle fabbriche recuperate, scoprendo contraddizioni, problemi, caratteristiche e potenzialità non pensate o difficili da affrontare. Il suo utilizzo, che ci auguriamo possa estendersi alle varie forme di autogestione e di economia recuperata, serve a consolidare le esperienze esistenti, a fondarne di nuove, a tessere la rete estendendola e costruendo nuovi nodi, nuove alleanze. E a imparare dai successi e dagli errori delle esperienze esistenti, per elaborare ancora, con altrettanta profondità.

L'autogestione, dunque, è tale se rimette radicalmente in discussione i diritti di proprietà del Capitale e lo statuto del lavoro salariato. In altre parole, se si propone di rovesciare il capitalismo. Molte esperienze cooperative (imprese, banche, commercio equo, ecc.) sono state soffocate e se si guarda a quello che è diventato il movimento cooperativo italiano c'è solo da piangere. In Italia siamo all'anno zero per cui anche un passaggio finalizzato all'intervento dello Stato per giungere a forme di “nazionalizzazione sotto controllo dei lavoratori”, appare lunare. Eppure, bisogna cominciare. L'esperienza esemplare della RiMaflow ha questo merito storico: aver cominciato, aver indicato una possibilità di recupero, fondando, non a caso, una rete politico-sociale come Communia Network (insieme ad altri collettivi ma fornendo, sulla base dell'esperienza, un progetto politico) e continuando a tessere una tela di rapporti internazionali e di sostegno a produzioni culturali come questo libro. La resistenza della Zanon ha svolto questo compito molto prima e su scala internazionale: anch'essa o sarà emblematica oppure è destinata a sparire simbolicamente, cioè politicamente.
Non dobbiamo né possiamo nasconderci le difficoltà o le parzialità. Il processo ha limiti evidenti. Ma la direzione di marcia è illuminata dal convincimento che sia possibile accumulare forze proponendo soluzioni concrete, estendendo l'ambito del controllo pubblico e sociale sulla produzione con l'obiettivo di costruire un'altra società, libera, democratica e autogestionaria. Questo obiettivo non è possibile in una "sola impresa", così come non era possibile in un "solo Stato". Ma è possibile.