Lavoro e autogestione: la via argentina

Lavoro e autogestione: la via argentina

La notte del 19 dicembre 2001 prima a Buenos Aires e poi in tutte le maggiori città e piccoli paesi dell’Argentina, la gente esausta, senza un’organizzazione né un leader, scese in strada a protestare con lo slogan ¡Que se vayan todos! (che se ne vadano tutti). Todos, perché nessuno fino ad allora era riuscito a dare risposte alla nazione ricca di risorse naturali ma sull’orlo del baratro. I politici sopratutto, arroccati al potere con un Carlos Menem che da dieci anni alla Casa Rosada, insieme al suo ministro dell’economia Domingo Cavallo, erano riusciti a svendere il paese, pezzo per pezzo, inaugurando l’illusorio piano di convertibilità monetaria un peso/un dollaro, ma anche a proteggere gli interessi economici dell’elite. Ferrovie, società petrolifere, poste, trasporto aereo, energia elettrica, telecomunicazioni, i settori strategici di uno Stato furono i primi ad essere svenduti a prezzi di saldo, in un contesto di corruzione dilagante.

Le nuove riforme che diedero spazio alla flessibilità lavorativa e la liberalizzazione di mercati di beni e denaro fanno il resto, portando il paese sul lastrico, con tassi di disoccupazione che superano il 20% della popolazione. Nel frattempo le banche prestavano i soldi dei propri risparmiatori per finanziare affari rischiosissimi, per questo decisero che ogni correntista non poteva prelevare più di 250 pesos alla settimana. E’ il corralito, la goccia che fa traboccare il vaso. Gli argentini assaltano i bancomat, i supermercati e si scontrano con la polizia in una guerriglia urbana che fa più di 30 morti. Ma durante i periodi più duri della crisi del 2001, gli argentini non si arrendono e scoprono nuove vie per andare avanti. Dall’esperimento delle fabbriche recuperate, alle assemblee di quartiere, ritrovano spazi di solidarietà anche ricorrendo al baratto e aiutando quelli più in difficoltà. “Un vento capace di spettinare la storia”, come lo definì il poeta e scrittore uruguayano Mario Benedetti. Il fenomeno argentino delle imprese recuperate dai propri lavoratori per molti sembra essere solo un ricordo del 2001. Allora erano in tanti a sostenere che l’esperimento sarebbe durato poco. E si sbagliavano. A oltre 10 anni dalla grande crisi del paese sudamericano che spinse molti lavoratori a prendere in mano la gestione delle fabbriche che i loro padroni avevano abbandonato sommersi da debiti, l’autogestione in Argentina si rivela un fenomeno stabile, anzi in aumento. In realtà, queste esperienze – alcune delle quali iniziate già prima della crisi – non solo sono sopravvissute ma si sono estese ed evolute a forme di autogestione partecipata, e sempre più spesso varcano i confini del lavoro in fabbrica.

Gli ultimi dati disponibili sono del 2010, uno studio condotto dal programma Facoltà Aperta di Lettere e Filosofia e Scienze Sociali dell’Università di Buenos Aires (UBA). L’obiettivo di questo lavoro è stato quello di fornire una panoramica sulla situazione delle imprese recuperate (Empresas Recuperadas por sus Trabajadores – ERT), cercando di chiarire la portata del fenomeno, delinearne il numero, le dimensioni e le caratteristiche. L’indagine ha contato 205 ERT che impiegano 9.362 lavoratori. Il tasso di sopravvivenza è molto elevato: quasi il 90% o più, se si includono quelle che hanno trovato altre forme di sopravvivenza rispetto all’autogestione. Secondo Andrés Ruggeri, direttore del programma dell’UBA, le aziende recuperate non solo non sono scomparse ma sono diventate una opzione che i lavoratori riconoscono come valida nonostante le difficoltà, piuttosto che rassegnarsi alla chiusura dell’azienda.

Nonostante le numerose differenze, che rendono queste esperienze molto eterogenee, è indubbio che tutte le storie siano legate da un filo comune sempre attuale: l’importanza del lavoro e della dignità delle persone. Se uno dei risultati più drammatici della crisi fu la chiusura o la svendita di numerose imprese che non riuscivano a reggere la concorrenza internazionale la risposta della società civile fu l’autogestione: gli operai presero in mano la gestione delle fabbriche che i loro padroni, sommersi dai debiti, avevano abbandonato.

E a più di 10 anni l’autogestione in Argentina si rivela un fenomeno stabile, anzi in aumento.

Se non ci si può fidare più dei padroni, dei politici, delle istituzioni, del sindacato, tanto vale auto organizzarsi: “non avevamo niente da perdere” è la risposta più frequente tra gli operai delle recuperadas. “Un padrone senza lavoratori non può mandare avanti un’azienda, un gruppo di lavoratori senza un padrone si” affermano con orgoglio . Rimettere l’essere umano al centro sembra essere stata l’unica ricetta capace di dare delle risposte, un’umanità premiata dal successo di tantissime esperienze, e che non hanno dato solo una risposta immediata alla crisi, ma che ancora oggi sono realtà funzionanti, anche se tra le difficoltà di dover operare in una economia di mercato.

Un risultato che si deve non soltanto al coraggio dei lavoratori anche alla enorme rete sociale creata e alla grande solidarietà della società civile che ha legittimato le lotte, senza questo sostegno probabilmente le cose sarebbero andate diversamente. Nei primi tempi il fenomeno ha destato anche la curiosità internazionale, per lo più sopita nel corso degli anni, forse per paura che l’autogestione venga presa d’esempio da altri paesi, con il grande rischio di mettere in discussione tutto il sistema che più che mai sta mostrando debolezza e fragilità. Esempi forse sottovalutati, o peggio neppure presi in considerazione dal cosiddetto mondo occidentale, ancora illuso che le stesse persone e istituzioni che hanno provocato le crisi siano anche in grado di risolverle. Le storie dei lavoratori argentini che hanno deciso si prendere in mano il loro destino, possono essere invece utili per offrire alcuni spunti di riflessione anche alla luce della nostra crisi, con punti di vista e soluzioni alternative che hanno contribuito a un cambiamento di prospettive nell’intera società del paese.