Fabrica sin patron

All’indomani della crisi in Argentina, molti operai occuparono le fabbriche chiuse e abbandonate dai padroni e le rimisero in produzione; gli ostacoli legali, l’appoggio dei quartieri, la necessità, u

Fabrica sin patron

Aldo Marchetti ha insegnato Sociologia del lavoro nell’Università Statale di Milano e in quella di Brescia. Giornalista pubblicista, è stato direttore di diverse riviste di cultura. Il libro di cui si parla nell’intervista è Fabbriche aperte, L’esperienza delle imprese recuperate dai lavoratori in Argentina, Il Mulino, 2013. 

Nel corso della crisi che ha colpito l’Argentina nei primi anni Duemila alcune fabbriche sono state occupate e recuperate dai lavoratori. Puoi raccontare?

La storia delle imprese recuperate, che è un’esperienza di autogestione operaia, comincia con la crisi economica del 2001, che ha portato al fallimento dello Stato e a una crisi politica durante la quale si sono succeduti tre o quattro governi durati pochi mesi, sino a che, dopo le elezioni del 2003, è stato eletto il governo di Nestor Kirchner, che ha posto le basi per una ripresa economica e che ha portato l’Argentina a svilupparsi a un ritmo del 6-8% all’anno; una ripresa che è durata sostanzialmente fino agli anni recenti, quando anche sull’Argentina comincia a pesare la crisi economica mondiale.

Parliamo di un tracollo -questa è ormai la versione comunemente accettata- dovuto a un utilizzo indiscriminato delle politiche neoliberiste, quindi svendita dell’industria pubblica ai privati, completa apertura del mercato interno a quello internazionale, finanziarizzazione dell’economia, deregolamentazione del mercato del lavoro. Tutto questo, in un contesto di grave crisi economica, ha portato alla chiusura di migliaia e migliaia di fabbriche, alla fuga dei capitali all’estero, fino allo scontro sociale che ha visto in pochi giorni quasi una quarantina di morti nelle strade, e poi manifestazioni e barricate in tutto il paese. Ricordiamo ancora le immagini della gente camminare battendo le pentole vuote e degli assalti al Bancomat e ai supermercati.

Una delle conseguenze di questa crisi è stata l’occupazione, da parte degli operai, di oltre un centinaio di fabbriche che nel frattempo erano state chiuse dagli imprenditori. Molte volte dietro questi fallimenti c’era il fatto che gli imprenditori, nel marasma generale, avevano cercato di vendere i macchinari e gli impianti per realizzare del denaro liquido e scappare all’estero, oppure trasferirsi in altre parti del paese aprendo aziende nuove dopo aver mandato sul lastrico i vecchi operai.

Ecco, in diverse di queste situazioni gli operai hanno occupato la fabbrica e hanno cercato di rimetterla in funzione.

Parliamo di un processo estremamente complicato, che ha visto anche un profondo conflitto con le forze dell’ordine, le istituzioni, la magistratura, il governo. Molte di queste fabbriche occupate infatti sono state prese di mira dalle forze di polizia chiamate a svuotarle dei lavoratori per riportarle nelle mani degli imprenditori. A quel punto interi quartieri sono scesi in lotta per difenderle.

Bisogna infatti considerare che nel frattempo in Argentina erano sorti movimenti sociali di grande portata, come quello dei disoccupati, delle donne, ecc., che in questo clima di crisi profonda hanno costituito un elemento sociale di coesione e solidarietà che ha consentito alle imprese recuperate di restare in piedi. In molti casi il quartiere, i piqueteros o le assemblee popolari dei quartieri hanno proprio fatto barricata davanti alle porte delle fabbriche, le hanno presidiate per difenderle materialmente dall’irruzione delle forze di polizia.

Insomma, attorno a queste imprese recuperate, si è creato un movimento di grande solidarietà.

Bisogna anche tener conto che i lavoratori dei livelli più elevati, manager, impiegati e tecnici avevano già dato le dimissioni perché riuscivano ancora a trovare un’altra occupazione sul mercato. Per gli operai questa possibilità non c’era assolutamente: sarebbero rimasti disoccupati, perdendo così qualsiasi fonte di reddito; i deboli elementi di welfare con il default dello Stato, con il crollo delle finanze pubbliche, non sarebbero stati più garantiti. Quindi l’alternativa era semplicemente quella di rimanere privi di reddito, i lavoratori e le loro famiglie. La scelta di occupare la fabbrica e cercare di riavviare la produzione è stata quindi una scelta obbligata, prima che ideologica. 

Ma come hanno fatto a rimettere in piedi le fabbriche senza manager, senza quadri, senza tecnici?

Infatti si è subito posto il problema di riempire il vuoto di direzione aziendale. In una prima fase questo vuoto è stato riempito soprattutto dalla solidarietà che si è formata attorno alle fabbriche. In molti casi le università sono entrate in contatto con gli operai e hanno fornito le competenze necessarie, nel senso che studenti e insegnanti sono andati nelle fabbriche e hanno aiutato materialmente a rimettere in moto gli impianti, ad aggiustare le macchine; insegnanti di materie economiche hanno aiutato i lavoratori a garantire un minimo di managerialità, a tenere l’amministrazione. Si sono creati anche dei microcircuiti di acquisto dei beni prodotti da queste imprese. È stato soprattutto grazie a questo movimento sociale che queste imprese sono riuscite a stare a galla.

In un secondo tempo, alcune amministrazioni locali, alcune organizzazioni imprenditoriali o delle cooperative hanno fornito alle imprese strumenti più solidi e continuativi per affrontare tutti i problemi relativi all’amministrazione, alla gestione dell’impresa.

Dicevi che c’era anche un problema legale...

 

C’era un problema enorme con la giustizia, con la legge. L’esperienza delle imprese recuperate, agli occhi del mondo imprenditoriale e di una parte dell’opinione pubblica, rappresentava quasi un attentato al principio di proprietà. Va detto che questa argomentazione era soprattutto l’arma propagandistica da parte degli imprenditori. Quello che non si diceva è che in molti casi erano stati proprio loro ad abbandonare le imprese. E allora succedeva che appena l’impresa veniva rimessa in funzione, gli imprenditori tornavano a mettere gli occhi su quella proprietà che prima avevano abbandonato.
Ovviamente i soggetti coinvolti nell’occupazione delle fabbriche non erano affatto interessati a mettere in discussione il principio della proprietà privata. Loro volevano molto più semplicemente difendere il posto di lavoro. Non era un movimento che in qualche modo voleva instaurare un principio rivoluzionario, che voleva restituire al popolo quella proprietà privata, ritenuta -secondo l’antico slogan- un furto. Niente di tutto questo.
Il problema legale però rimaneva e allora si sono trovati dei trucchi legislativi per consentire, in una situazione di crisi enorme, che queste esperienze continuassero. Uno di questi stratagemmi è stato il ricorso alla legge che permette l’esproprio quando è necessario disporre di terreni che si trovano nel tragitto di opere pubbliche come strade, ferrovie, ecc. È stato quello il dispositivo che ha permesso di espropriare le fabbriche in quanto ritenute di interesse collettivo, di interesse pubblico.
Attraverso questa piccola strettoia legale, i tribunali di diverse città e di diverse province hanno consentito ai lavoratori di riprendere la produzione come affidatari di queste imprese. Così, grazie a leggi ad hoc, diverse amministrazioni locali hanno consegnato le imprese ai lavoratori che nel tempo avrebbero potuto riscattarle, diventandone proprietari. Questo in estrema sintesi, perché i problemi giuridici restano ancora oggi molto complessi.
Nel corso di questa battaglia su più fronti, i lavoratori mobilitati hanno anche dovuto rivedere il proprio bagaglio di conoscenze, competenze e anche convinzioni.

I lavoratori, inoltre, hanno dovuto passare, anche culturalmente, da dipendenti a "padroni”. Com’è andata?

Si tratta di un cambiamento importante: questi lavoratori hanno dovuto trasformarsi, anche dal punto di vista antropologico, da dipendenti a imprenditori di se stessi, o meglio imprenditori collettivi dell’impresa che volevano salvare. Un processo di estremo interesse dal punto di vista sociale e delle trasformazioni individuali che sono avvenute negli operai, e a maggior ragione nelle operaie, che spesso hanno dovuto affrontare pure problemi personali. Questo le lavoratrici lo mettono sempre molto in evidenza: partecipare alle mobilitazioni, ai picchetti, agli scontri con la polizia, ai piccoli accampamenti organizzati fuori dal portone della fabbrica per impedire che le macchine potessero essere portate via, che potevano durare mesi; tutto questo ha costituito, soprattutto per le donne, un’esperienza che ha cambiato la loro identità, la loro cultura, portandole a una partecipazione, a un protagonismo al quale molto spesso non erano abituate. Non erano abituati neanche gli uomini, per la verità, perché in buona parte queste imprese non erano sindacalizzate, quindi non c’era una tradizione di contrattazione, partecipazione, mobilitazione attorno ai valori della rappresentanza del lavoro, del sindacalismo, eccetera. Spesso si è dovuto proprio cominciare da zero.

Questa esperienza di trasformazione della propria identità come lavoratori è stata talmente forte che la si è voluta continuare anche in una condizione strutturale che ormai era completamente diversa da quella originaria. In fondo parliamo di imprese recuperate nel 2001-2002 e che però, nel periodo della ripresa economica del paese, non sono affatto scomparse, anzi hanno continuato a crescere, svilupparsi e soprattutto hanno continuato ad aumentare di numero. Con l’avvio della normalizzazione economica e politica del paese, quest’esperienza non ha affatto perso di significato, non è rientrata, i lavoratori non hanno cercato nuovi imprenditori che acquistassero gli impianti, le fabbriche, non hanno cercato di tornare sotto il regime del lavoro subordinato. Qui sta secondo me il valore e il significato anche storico di quest’esperienza. Nella storia del movimento operaio ci sono state spesso occupazioni di fabbrica, anche con la ripresa della produzione, ma sono state sempre esperienze limitate nel tempo e nel numero, nell’entità; e comunque relative soltanto ai momenti di maggiore crisi politica, economica e sociale, come le rivoluzioni, la fine delle guerre, gravi crisi economiche.

Ma in tutti questi casi, le esperienze di autogestione sono state regolarmente ricondotte alla normalità nel momento in cui la crisi veniva risolta. Abbiamo esperienze di autogestione nella Russia rivoluzionaria dopo il 1917, nei moti rivoluzionari in Germania dopo la Prima guerra mondiale; nel momento in cui arriva al potere il Fronte popolare in Francia nel ’36; durante la guerra civile spagnola, sempre nel 1936, in Catalogna; prima ancora nella Comune di Parigi. C’è anche l’esperienza dei consigli di gestione in Italia dopo la fine della guerra. Ma, ripeto, sono tutte esperienze che finiscono nel momento in cui cessa la crisi.

In questo caso parliamo invece di un processo autogestionario che dura ormai da 12-13 anni e che quindi ci consente anche di studiare i meccanismi di autogestione come non era mai avvenuto in precedenza.

Una volta diventati imprenditori, i lavoratori si trovano a dover decidere di retribuzioni, orari e ritmi di lavoro, disciplina...

È estremamente interessante vedere come queste imprese vengono gestite, come si organizza il lavoro nella quotidianità. I lavoratori delle fabbriche recuperate ci tengono moltissimo a dire che sono imprese autogestite. In questo c’è una differenza notevole rispetto alle cooperative. Lo dico perché formalmente queste fabbriche sono considerate cooperative. Lo statuto di cooperativa serve come copertura istituzionale, per avere i finanziamenti e i sussidi dello Stato; serve anche come strumento di contrattazione con le amministrazioni, i partiti, i tribunali. In realtà, però, all’interno vige un doppio regime. Nel senso che queste imprese conservano come criterio base per il loro funzionamento lo statuto autogestionario. Qual è la differenza tra autogestione e cooperativa? Ciò che distingue le due esperienze è la democrazia partecipata che è tipica del clima autogestionario, a differenza della democrazia delegata che è invece più tipica della cooperativa. Molto concretamente: nella fabbrica recuperata argentina l’organizzazione del lavoro, le strategie imprenditoriali, le scelte operative sono frutto della partecipazione alle decisioni. E la partecipazione avviene attraverso lo strumento dell’assemblea. Nelle fabbriche recuperate c’è un clima di "assemblea permanente”; mediamente c’è un’assemblea di reparto ogni settimana, un’assemblea al mese sui problemi più grandi e via di seguito.

Nel caso delle cooperative tradizionali c’è un’unica assemblea annuale durante la quale vengono rinnovate le cariche, si discute il bilancio preventivo e il bilancio consuntivo; le decisioni poi le prende il Cda. Insomma, qui è tutta un’altra cosa.

Va da sé che una partecipazione così intensa, con una frequente consultazione tra i lavoratori, presenta dei problemi, in primo luogo perché porta via molto tempo. In molti casi infatti si discute se non sia preferibile delegare al Cda determinate decisioni così non si perdono troppe ore. Tutto questo è ancora oggi oggetto di dibattito. È comunque significativo che a distanza ormai di 10-12 anni continui a prevalere questa formula.

Un altro elemento di forte discussione è quello relativo all’egualitarismo, alla distribuzione uguale dei profitti d’impresa. Circa metà delle imprese recuperate optano per il principio egualitario, cioè a ciascun lavoratore viene data la stessa retribuzione, tuttavia, nel tempo questo principio viene in parte mediato tenendo conto, ad esempio, dell’orario diverso, del maggior carico di lavoro. Se guardiamo a questo fenomeno dal punto di vista diacronico notiamo una progressiva differenziazione delle retribuzioni a seconda di diverse variabili; una di queste è il fatto che un operaio abbia partecipato alla lotta iniziale e quindi sia un socio fondatore dell’impresa. Comunque le retribuzioni delle imprese recuperate mediamente sono più basse rispetto a quelle delle imprese private. Non si fa l’occupazione per arricchirsi: questo gli operai lo sanno bene, anche perché nella fase di lotta le paghe erano ben più basse, se non nulle.

La domanda che facevo sempre ai lavoratori era: "Ma se venisse un imprenditore privato disponibile ad acquistare la fabbrica, garantendovi sostanzialmente gli stessi diritti e una retribuzione a livello, voi cosa fareste?”. Ecco, nella maggior parte c’è proprio un riflesso d’orgoglio: "No, noi preferiamo restare così come siamo”. Anche questo dà la misura dell’importanza di un’esperienza che si fonda anche sulla solidarietà. Questo è un aspetto che non va dimenticato. La sociologia del lavoro oggi ci dice che la solidarietà operaia ormai si è estinta, che il grande serbatoio della solidarietà operaia si è prosciugato. Beh, a ben vedere, quella argentina è un’esperienza intanto di grande solidarietà operaia, ma anche di grande solidarietà sociale intorno alla fabbrica.

Poi c’è la questione della disciplina, altrettanto interessante. Quando le imprese sono state occupate, tutti i precedenti regolamenti interni, formali o meno, sono decaduti. I lavoratori si sono così trovati nella situazione di doversi regolare da soli anche dal punto di vista del mantenimento di un minimo di disciplina interna.

Si è discusso moltissimo, specie all’inizio, se redigere un nuovo regolamento o rimanere senza. L’esperienza della "liberazione” dai regolamenti precedenti è stata vissuta con grande intensità, non è stata di poco conto. In una di queste imprese, una delle prime cose che i lavoratori hanno fatto è stato di fracassare l’orologio di fabbrica, il timbracartellini. Teniamo presente che in molte di queste imprese vigeva un clima di forte autoritarismo, quindi la liberazione dalla disciplina di fabbrica è stata un’esperienza molto forte. È emblematico che alcune fabbriche abbiano istituito delle sale "de mate e de discusiones” dove appunto si discute e si beve il mate, la bevanda nazionale; in generale le fabbriche hanno smesso di essere luoghi chiusi, privati, per cui, ad esempio, si può camminare liberamente tra i diversi reparti, si può accedere agli uffici e agli archivi in un clima di grande informalità, anche verso gli eventuali visitatori. Ecco perché redigere un altro regolamento interno o meno non era una questione di poco rilievo. Scrivere un nuovo regolamento significava quasi tradire l’esperienza di liberazione vissuta, ma non scriverlo poteva dare spazio, nel lungo periodo, a comportamenti non consoni...

All’inizio, infatti, l’esperienza totalizzante dell’occupazione, della liberazione è stata così forte che si è creata un’armonia quasi spontanea tra i lavoratori, c’era la consapevolezza che tutto dipendeva da te e quindi non potevi sgarrare.

C’era una forte coesione e solidarietà e questo spirito bastava. Negli anni i lavoratori fondatori hanno iniziato ad andare in pensione e sono stati assunti nuovi giovani. Così una delle lamentele più frequenti è diventata quella che i giovani, non avendo vissuto la fase di fondazione, non capiscono, non sono come i vecchi, eccetera.

Si ripropone così il problema del regolamento di fabbrica. Nelle fabbriche più grandi, come la Fasinpat (Fábrica Sin Patrón), che fa piastrelle, è stato introdotto un regolamento di fabbrica che grosso modo contiene le stesse norme che conteneva il vecchio: non si può bere nei luoghi di lavoro, non si possono assumere droghe, bisogna essere puntuali... Generalmente comunque questi nuovi regolamenti di fabbrica hanno caratteristiche diverse da quelli antichi nel senso che prevedono sanzioni di carattere restitutivo più che punitivo. Per esempio, se una persona arriva in ritardo, non gli viene trattenuta la retribuzione, ma viene previsto che lavori un’ora in più in un giorno successivo e magari in un altro reparto, così che capisca che il lavoro è un bene collettivo, cioè non riguarda solo lui e il suo reparto, ma l’intera azienda.

In casi più gravi, come l’ubriachezza molesta, si sottopone la faccenda all’assemblea di tutti i lavoratori. Anche qui si tende a non procedere con l’estrema sanzione, cioè il licenziamento (ben sapendo cosa significa perdere il posto di lavoro), ma si opta per una forma di accompagnamento, anche di tipo psicologico, medico o sociale, se ritenuto necessario.

In altre fabbriche si è deciso di non fare più alcun regolamento, ma di autoregolarsi negli eventuali problemi che sorgono nello svolgimento quotidiano dell’attività.

Aver abbattuto il cosiddetto "costo manageriale” è una scelta che si conferma valida anche nel lungo periodo?

Nelle imprese recuperate, intanto, non c’è profitto per l’imprenditore, quindi quella parte di denaro viene utilizzata per altre funzioni: nuovi materiali, nuove macchine, eccetera. Dopodiché il management, i tecnici non hanno un differenziale salariale come accade altrove, quindi anche il denaro che nell’impresa privata serve al mantenimento del management torna all’impresa e viene utilizzato. Gli operai dell’impresa recuperata fanno questo ragionamento e vedono quindi una maggiore efficienza da questo punto di vista. Sul lungo periodo, tuttavia, c’è il rischio che un eccessivo appiattimento delle retribuzioni e un mancato riconoscimento delle funzioni più alte, porti intanto a una minore tensione da parte dei lavoratori per far andar meglio le cose e poi impedisca all’impresa di assumere dall’esterno lavoratori con competenze elevate, di amministrazione. In qualche caso quindi questa scelta, sui tempi lunghi, può finire col danneggiare l’impresa. I lavoratori sono consapevoli dei pro e dei contro delle diverse soluzioni. Su tali questioni il dibattito rimane aperto.

Non hai parlato del sindacato. Che ruolo ha avuto in tutto questo?

Il sindacato è stato completamente spiazzato. All’inizio perché si trattava di un’esperienza estranea alla tradizione contrattuale. In Argentina c’era e c’è un sindacato con una grande tradizione di lotta, con intrecci istituzionali molto stretti con i partiti politici, soprattutto quello giustizialista. C’è un’unica centrale sindacale tradizionale di stampo peronista. Quindi anche se la crisi era profondissima, il sindacato non ha capito la valenza di questa esperienza delle fabbriche recuperate; pensava fosse una vicenda che si sarebbe dissolta da sola una volta superata la crisi economica.

In parecchi casi il sindacato ha addirittura osteggiato l’occupazione delle imprese e pure il successivo recupero. In altri casi ha semplicemente ignorato queste esperienze. In altri ancora (rari) le ha sostenute. Solo nel corso degli anni il sindacato, visto che queste esperienze continuavano, ha dovuto rivedere le proprie posizioni e ha cominciato a guardare alle fabbriche recuperate in modo diverso. Nel frattempo, in Argentina è nato un nuovo sindacato, più movimentista, più legato alla base operaia, la Cta, (Central de Trabajadores de la Argentina) che ha invece assunto l’esperienza delle fabbriche recuperate come qualcosa che stava dentro la storia del movimento operaio; oggi è una delle organizzazioni che rappresentano l’esperienza delle imprese recuperate e costituisce un vero movimento sociale.

Sono nate anche reti di auto-aiuto tra le fabbriche recuperate.

Si sono create rete di cointeressenza, di scambio tra imprese appartenenti allo stesso settore. Il caso tipico è quello della Red Grafica, che raccoglie una quindicina di imprese recuperate del settore grafico-editoriale. Queste imprese, invece di farsi concorrenza secondo i criteri ortodossi dell’economia di mercato, cooperano tra di loro, si passano commesse, competenze, talvolta anche lavoratori. Se, per esempio, una commessa deborda alle possibilità di una singola impresa, questa chiama altri lavoratori o coinvolge le altre imprese recuperate; a volte si finanziano tra di loro. C’è proprio una rete di scambio; scambio che può avvenire anche sotto forma di baratto. Per esempio, la Fasinpat ha dato all’Hotel Bauen, che si trova nel centro di Buenos Aires (anch’esso in autogestione, occupato e recuperato dai lavoratori) le piastrelle necessarie per rifare la cucina e altri ambienti. In cambio l’albergo Bauen, quando un operaio della Fasinpat, che ha sede in Patagonia, va a Buenos Aires lo ospita gratuitamente. C’è un clima di solidarietà e di scambio decisamente estraneo all’esperienza delle imprese private che operano in regime di mercato. 

Queste imprese devono molto al territorio, al quartiere e una volta ripreso a produrre hanno messo in atto forme di restituzione...

Il legame che si è venuto a creare tra queste imprese e il territorio è molto interessante.

Le imprese recuperate hanno proprio aperto le porte all’ambiente circostante, al quartiere. Al loro interno si svolgono attività che normalmente non si vedono in un’impresa privata: ci sono biblioteche, classi scolastiche, cicli di proiezioni cinematografiche, corsi di danza, di lingue, di informatica e via di seguito. Tutto dentro lo stabilimento. Si è rotto questo principio dell’impresa come spazio privato, impermeabile all’ambiente circostante. Se un turista tedesco che sa di queste imprese recuperate, si presenta davanti a uno di questi portoni e suona il campanello, lo fanno entrare e gli fanno fare il giro della fabbrica. È accaduto anche a me diverse volte.

In una piccola tipografia che si chiama Chilavert, al cui interno c’è anche una scuola professionale, l’Università di Buenos Aires ha aperto un centro di documentazione sul fenomeno delle imprese recuperate. Siccome ci sono docenti che studiano in modo costante questo fenomeno, l’Università ha pensato bene di aprire un centro di documentazione, ma non l’ha messo in una sede universitaria, bensì in questo piccolo stabilimento tipografico. Così anche gli studenti o gli studiosi che indagano su questo fenomeno vanno in questa fabbrica e lì trovano una stanzetta dove uno studente retribuito dall’Università tre giorni a settimana tiene aperto il centro di documentazione.

Ma poi ci sono concerti, conferenze... Quasi la metà di queste imprese recuperate svolgono attività dedicate al territorio. È proprio una forma di restituzione al quartiere della solidarietà ricevuta nella fase della lotta. È anche uno strumento per pesare di più politicamente. 

Quante sono oggi le fabbriche recuperate?

Nel 2002 le fabbriche occupate erano circa 120-130; nel 2011-2012, dopo dieci anni, erano 205-210. È difficile conoscere il numero esatto, non c’è una statistica ufficiale. Alcuni giorni fa ho sentito il professor Andres Reggiani e mi ha detto che sono ulteriormente cresciute arrivando a trecento. È una forma che ormai è stata incamerata dal mondo del lavoro argentino, che consente di affrontare la crisi di un’impresa non semplicemente lasciando che le cose vadano come devono andare, ma assumendosi la responsabilità. Esperienze analoghe si sono riprodotte anche in altri paesi dell’America Latina. Imprese recuperate sono presenti in Brasile, Uruguay, Paraguay; in Venezuela hanno assunto una dimensione particolare perché il governo Chavez ha promosso direttamente questa esperienza. Qualcosa di simile si inizia a vedere anche da noi. La Rimaflow, di Trezzano sul Naviglio, è un po’ il punto di riferimento: un’impresa svuotata completamente delle macchine che adesso cerca di riprendere le sue attività. Ma ce ne sono altre. Anche se non c’è nessuno che le sta studiando in modo sistematico, hanno ormai una loro presenza e varrebbe la pena occuparsene. Purtroppo il sindacato in questi casi resta spiazzato: non essendoci più il padrone, non sa bene cosa fare. Le cooperative, da parte loro, vedono di cattivo occhio queste forme di autogestione e così, per ora, questi piccoli esperimenti restano in balia di se stessi. Peccato.