Autogestione conflittuale

Anticipazione dal libro collettaneo “Come si esce dalla crisi: per una nuova finanza pubblica e sociale” Edizioni Alegre

Autogestione conflittuale
Nuova finanza pubblica e sociale: il lavoro, snodo essenziale.

Gigi Malabarba

Premessa  

Affrontare il nodo del lavoro non è impresa semplice. Occorrerebbe innanzi tutto analizzare i profondi mutamenti nella composizione (e scomposizione) di classe avvenuti in oltre 30 anni di dominazione liberista e le sconfitte in successione subite dai lavoratori e dalle lavoratrici. L’epopea di quelle politiche che cambiò il mondo sotto i colpi di bastone di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher fu aperta In Italia simbolicamente, ma neanche troppo, con il braccio di ferro ingaggiato e vinto dalla Fiat nell’autunno del 1980, prima ancora che il presidente americano stroncasse brutalmente la lotta dei controllori di volo (1981) e la Lady di ferro piegasse nel giro di un anno l’eroica resistenza dei minatori britannici (1984-85).

E la ragione risiede nel rapporto di forza ancora troppo favorevole, secondo il capitale, a quella classe operaia uscita vincente dall’autunno caldo del ’69 e che aveva plasmato con la sua influenza sull’insieme della società il decennio successivo. E che quindi andava rimessa in riga a partire dal suo bastione più importante.

Mantengo la convinzione che, nonostante le modifiche nell’organizzazione del lavoro e della produzione passato dal sistema taylorista-fordista a quello toyotista in tutte le sue varianti e sfumature, gli scontri decisivi persi dai lavoratori dell’industria da quell’epoca in poi avrebbero potuto avere esiti diversi e persino opposti se le direzioni del movimento operaio e sindacale non fossero state complici delle politiche liberiste. Ne fanno fede decine di situazioni in cui un deciso contrasto delle politiche aziendali ha consentito di resistere per molti anni, mentre altrove in presenza di forze sindacali asservite si è arrivati  a chiudere le fabbriche senza un’ora di sciopero! Basterebbe tener presente un semplice fatto: il sistema della produzione flessibile, detto just in time, è di gran lunga più fragile e vulnerabile di quello fordista, richiedendo l’integrazione esplicita dei lavoratori e delle loro organizzazioni per il funzionamento del processo produttivo (e quindi assolutamente più facile da inceppare!) Non a caso dagli accordi concertativi del 1993 si può parlare più concretamente di avvenuta corporativizzazione del sistema contrattuale.

Alla lunga però il quadro di relazioni in fabbrica e nell’insieme del mondo del lavoro viene sconvolto e vien meno anche la memoria storica delle lotte, trasmessa in precedenza per decenni alle nuove leve. Il punto di non ritorno è stato superato da tempo e gli arretramenti sono galoppanti su tutti i fronti: salari, occupazione, condizioni di lavoro, diritti.

La ricostruzione di una resistenza e di una nuova progettualità delle lotte del lavoro richiede a mio parere una rinnovata analisi che ragioni sulla messa in connessione di una pluralità di percorsi politico-sociali di un nuovo proletariato, più esteso di quello industriale un tempo trainante, anche se ancora inconsapevole delle proprie potenzialità. Che dovrà trovare le sue strade, le sue connessioni sociali e i suoi tempi per affermarsi.

Nelle pagine che seguono, si vuole offrire alla riflessione un punto di vista sulle questioni del lavoro strettamente legato all’aspetto occupazionale, seguendo il filo conduttore dell’esperienza delle lotte di resistenza nell’industria milanese e della Maflow di Trezzano sul Naviglio in particolare, oggi RiMaflow, fabbrica occupata, recuperata e autogestita.

 

1. La guerra del capitale contro il lavoro.

“Se il paese intercettasse la ripresa, quella stessa accreditata per il 2014 dai maggiori istituti statistici, quanto tempo ci vorrebbe prima di recuperare il terreno perso in questi cinque anni di crisi? Esattamente 13 anni per ritornare al livello del Pil del 2007, 63 anni per quello dell’occupazione, ‘mai’ per recuperare il livello dei salari reali”.

Se questa è la prospettiva disegnata dall’Ufficio economico della Cgil nel giugno del 2013, dove peraltro anche il ‘piano per il lavoro’ indicato per l’uscita dalla crisi dal maggiore sindacato italiano è tutto interno alle compatibilità del sistema e quindi del tutto inefficace, ci vorrebbero almeno due generazioni per tornare ai livelli di impiego pre-crisi. Ossia – sarà bene ricordarlo – quando il tasso di disoccupazione era vicino al 10 per cento, l’80 per cento delle nuove assunzioni era già con contratti precari, il 20 per cento della popolazione attiva era composto da working poors (lavoratori con salari al di sotto della soglia di povertà); e stante questo scenario tutti saranno con redditi inferiori ad allora. Naturalmente sempre che la ‘ripresa’ ci sia…

Se poi si vuole individuare seriamente la tendenza occupazionale, è il dato relativo ai giovani senza lavoro, generalizzato in particolare in tutto il Sud Europa, su cui porre attenzione: questo si aggira di fatto ormai attorno al 50 per cento, pur trascurando quel che le statistiche nascondono, come gli orari ridotti da part time forzoso o il considerare occupato chi svolge attività solo per qualche ora la settimana o qualche mese l’anno.

Aggiungo poi di passata che il ‘rischio di disordini sociali’ in Europa derivante da questi dati e misurato dall’OIL, l’Organizzazione internazionale del lavoro, ha un tasso di crescita doppio di quello dei paesi del Nord Africa e mediorientali. E che qualcuno si stia preparando all’evenienza nell’ottica della difesa degli interessi della classe dominante non dovrebbe più di tanto stupire…

Le politiche di austerità imposte in tutta Europa, infatti, non producono risultati, perdono consenso sociale e provocano anche indignazione. Tuttavia sono perseguite ossessivamente. I governi inoltre continuano a favorire le imprese che cancellano posti di lavoro in nome di redditività finanziarie a breve termine, che alimentano la concorrenza tra i lavoratori e tra i territori, che degradano le condizioni delle prestazioni e dei salari, deregolamentando le tutele giuridiche del lavoro, smantellando il sistema di welfare, e così via.

E la ragione è che – in un’ottica liberista e di tutela dei margini di profitto  – l’Europa deve azzerare le conquiste operaie di oltre mezzo secolo per competere su scala mondiale, disarticolando quel che resta del movimento operaio per impedirgli di organizzare una resistenza efficace. Distruggere il sistema di solidarietà e produrre isolamento e rassegnazione ha quindi uno scopo: la crisi sistemica del capitale non consente di scendere a compromessi e ciò mette a dura prova tutte le strategie di alternativa economica e sociale.

2. Andare oltre la resistenza

Quello che per oltre un secolo è stato quel complesso di forze sociali, politiche e istituzionali che abbiamo chiamato movimento operaio non ha retto all’offensiva liberista e tra le lavoratrici e i lavoratori lasciati soli è dilagata la concorrenza al ribasso. I tentativi di rifondazione delle organizzazioni della classe, anche per i mutamenti radicali che ne hanno sconvolto la composizione, hanno ottenuto risultati parziali e insufficienti per bloccare l’attacco disgregatore e oggi siamo nel pieno della sconfitta.

Occorre imboccare nuove strade di organizzazione e di lotta, dentro una ricerca di strumenti più adeguati ed efficaci di fronte alla frantumazione del lavoro. Nelle fabbriche minacciate di chiusura, ad esempio, troppo poche esperienze innovative si sono finora prodotte, col risultato – nel migliore dei casi –  di sviluppare lotte per ottenere al più proroghe degli ammortizzatori sociali. In pochissimi casi è stato posto il problema della proprietà e in nessuno è stato possibile realizzare forme di autogestione con un minimo di prospettiva. Tentare di migliorare la resistenza attraverso gli attuali strumenti sindacali non concertativi e con la costituzione di reti intersindacali conflittuali e anche forme di autoconvocazione è fondamentale, ma non basta.

Occorre un progetto di costruzione da zero innanzi tutto di un vero e proprio movimento per il lavoro e il reddito per milioni di giovani, in gran parte diplomati/e e laureati/e, esclusi/e dal lavoro ed estranei/e agli strumenti tradizionali di organizzazione del proletariato: questo è il compito principale. Si tratta di un nodo generazionale, in questo caso in senso strettamente anagrafico.

Questo significa individuare forme di aggregazione e di lotta specifiche, autonome e indipendenti e obiettivi programmatici adeguati alla condizione: si tratta di un nuovo proletariato intellettuale, potenzialmente ribelle a cui dedicare il massimo dell’attenzione. Segni premonitori che ne sottolineano l’esigenza sono assai visibili ormai da parecchi anni in Italia come nel mondo, dalle manifestazioni del cosiddetto movimento dei movimenti alle lotte studentesche dell’Onda, dalle rivoluzioni in Nord Africa ai movimenti degli indignati e di Occupy.

 Ma ragionando sulle altre situazioni del mondo del lavoro, esiste una via solidale per uscire dalla crisi? Accanto a tutte le modalità di resistenza e – dove se ne danno le condizioni – di possibile controffensiva (come le accennate occupazioni fino alla rimessa in funzione della produzione in forma autogestita, ed altre simili in vista di una situazione economico-sociale “all’Argentina” in arrivo…), a mio avviso vale la pena di sperimentare, in un contesto di disgregazione e di coscienza di classe assai limitato, altre modalità di socializzazione e di mutuo soccorso tra lavoratori e lavoratrici.

La chiusura delle fabbriche e la contestuale riduzione dei posti di lavoro in tutti i settori pubblici e privati, che si accompagna non a una riduzione ma ad un allungamento degli orari di lavoro e all’intensificazione dello sfruttamento, impongono la necessità di organizzare la lotta per il lavoro e il reddito attraverso istanze che si contrappongano all’ordine capitalistico attuale, pur partendo magari da organismi storicamente in sé tutt’altro che incompatibili.

Il movimento delle società operaie di mutuo soccorso e cooperativo, ad esempio, a seconda delle fasi storiche ha rappresentato sia uno strumento funzionale all’organizzazione del movimento operaio, sia ha alimentato illusorie trasformazioni riformiste della società, sia – in tempi più recenti – è diventato strumento di autosfruttamento, di partecipazione alla distruzione del welfare e di divisione dei lavoratori.

3. L’esperienza della RiMaflow: è possibile produrre senza padrone? 

Dopo tre anni di resistenza anche la Maflow di Trezzano sul Naviglio è stata definitivamente chiusa, non essendosi date le condizioni soggettive e anche oggettive per un’occupazione della fabbrica durante la vertenza, che consentisse la sua rimessa in funzione in forma autogestita (sostanziale inesistenza di capitale fisso di un minimo di valore, ecc.).

Abbiamo pensato che il periodo di cassa integrazione/mobilità possa essere utilizzato – insieme alle mobilitazioni sindacali più tradizionali (presidi, scioperi,…) – per tentare di riaggregare una parte dei lavoratori e delle lavoratrici, oggi dispersi in attività di ricerca di lavoretti integrativi degli ammortizzatori, ma con quasi nulle possibilità di ricollocazione (e quando questo avviene è a condizioni fortemente peggiorative).

Dal 1° marzo 2013 ci siamo costituiti in cooperativa autogestita, RiMaflow, per organizzare la produzione e abbiamo costituito nel contempo l’associazione Occupy Maflow come strumento di gestione politica di tutto il sito – legittimamente, anche se illegalmente, occupato – con il concorso di Rivolta il debito*.

L’idea di costituzione di una cooperativa tra lavoratori e lavoratrici nasce dall’esigenza di solidarietà e di azione collettiva di fronte all’incertezza più assoluta. Si tratta di mettere insieme le competenze esistenti e di associarne delle altre per definire un progetto che abbia la possibilità di ottenere commesse pubbliche o private.

L’idea si articola su più piani: a) solidarietà, uguaglianza e autorganizzazione tra tutti gli associati; b) conflittualità nei confronti di controparti pubbliche e private; c) inserimento e promozione di lotte generali per il lavoro, il reddito, i diritti.

Può essere verificata la possibilità, in determinate circostanze, di effettuare lavori e servizi di pubblica utilità (ad esempio produzioni ecologiche) in relazione con i beneficiari, per rivendicarne il pagamento da parte delle amministrazioni. Si tratterebbe in questo caso del recupero di iniziative che negli anni ’50 del Novecento hanno portato all’occupazione delle terre e agli scioperi alla rovescia.

Le difficoltà e le contraddizioni sono moltissime. Meglio tentare di agire mentre ancora si beneficia degli ammortizzatori (anche attraverso interruzioni parziali degli stessi, allungandone la durata).

D’altra parte alla lunga non si può neppure resistere senza tentare di rompere in qualche punto con la condizione di accumulo di sconfitte, anche dopo aver prodotto anni di lotte parziali. Il punto non è scoprire le cooperative come alternativa alla produzione capitalistica, ma come utilizzare gli strumenti esistenti per resistere e rilanciare il conflitto di classe da parte di chi non si può permettere di non dare risposte concrete e praticabili nell’immediato. O anche la politica di classe si misura con questo o non solo non si rafforzerà, ma sarà percepita come inutile dagli stessi militanti delle organizzazioni classiste.

In sostanza: quando il capitale decreta che un’azienda non è più utile (all’accrescimento del suo profitto), questa azienda può essere recuperata con altre finalità, a cominciare da quella di consentire un reddito dignitoso a chi la rimette in funzione?

4. I dibattiti storici sull’Autogestione operaia

Un’attualizzazione della  riflessione critica marxista tradizionale sul mondo cooperativo è necessaria. Alcuni concetti di fondo mantengono un fondamento indubbio, altri devono essere riconsiderati alla luce delle novità della situazione.

Nell’economia capitalistica è lo scambio a dominare sulla produzione e il sistema cooperativistico che si costituisce al suo interno non fa che accrescere lo sfruttamento, o per meglio dire l’autosfruttamento dei lavoratori, a causa dei meccanismi di concorrenza (Rosa Luxemburg, ‘Riforma sociale o Rivoluzione?’, 1899).

La polemica contro le illusioni del teorico della socialdemocrazia tedesca, Eduard Bernstein, che pensava ad un’estensione progressiva del sistema cooperativistico capace di sostituire gradualmente il sistema capitalistico, è continuata nel secolo scorso sia in occasione delle crisi rivoluzionarie (Lenin: validità delle forme di lavoro cooperativo autogestito solo successivamente al rovesciamento del capitalismo), sia rispetto alle teorizzazioni di Rodolfo Morandi sui consigli di gestione nell’immediato secondo dopoguerra, sia in occasione dei dibattiti post-68 quando già il movimento cooperativo in Europa aveva radicalmente mutato funzione, diventando spesso un puntello del sistema di sfruttamento (Ernest Mandel: impossibile democrazia economica senza rovesciamento dello stato borghese, mentre l’autogestione può acquisire importanza solo in fase di crisi rivoluzionaria; centralità del controllo operaio).*

Analogamente la critica marxista è stata rivolta nei confronti delle tesi di origine anarchica, che pretenderebbero di realizzare aree di lavoro liberate senza l’abbattimento del sistema capitalistico, anche se esperienze di autogestione conflittuale di matrice libertaria hanno suscitato – a ragione – considerazione e interesse certamente almeno come specifiche forma di lotta (ad esempio le esperienze di autogestione durante la guerra civile spagnola degli anni ’30).

Le esperienze di statalizzazione delle società post-rivoluzionarie del ‘900, dopo la sterilizzazione dei soviet, rivelano in ogni caso i punti deboli sulla questione di tutti i processi di transizione nei paesi del cosiddetto socialismo reale. Se il modello burocratico autoritario instaurato in Urss e nei paesi satelliti è fallito rovinosamente, anche le varianti come quella avviata in Jugoslavia proprio a partire dall’autogestione delle fabbriche ma cancellando la pianificazione economica sono state destinate anch’esse all’insuccesso (restano non a caso interessanti le proposte del gruppo dissidente Praxis sulla ‘pianificazione autogestionaria’).

Più recentemente nelle riflessioni di area marxista, in presenza di una disgregazione del mondo del lavoro a causa della crisi e dell’offensiva neoliberista, è stata rivalutata l’ipotesi di autogestione operaia anche al di fuori dei periodi di rottura rivoluzionaria, proprio perché questa si propone innanzi tutto di frenare la dispersione dei lavoratori e la disoccupazione di massa.

Le fabricas recuperadas argentine, in particolare dalla crisi del 2001 in avanti, e numerose esperienze in Brasile, Venezuela, Nicaragua e in altri paesi latinoamericani sembrerebbero anche dimostrare le potenzialità dell’autogestione in determinate circostanze in direzione di un’alternativa anticapitalistica di sistema.

Da un certo angolo di visuale, le relazioni autogestionarie si collocano a un livello più avanzato rispetto a quelle costruite in Urss con la statizzazione burocratica, alludendo più facilmente all’idea dei lavoratori-produttori liberamente associati di Marx e alle prime esperienze concrete realizzate durante la Comune di Parigi nel 1871.

 * “La lotta per il controllo operaio ha precisamente la funzione di portare le masse – attraverso la loro diretta esperienza e partendo dalle loro preoccupazioni immediate – ad apprendere la necessità di cacciare il capitalismo dalla fabbrica e la classe capitalistica dal potere. Sostituendo a questa logica ‘pedagogica’ quella per l’autogestione, si impedisce alle grandi masse di fare questa esperienza, le si incoraggia in pratica a limitarsi alle rivendicazioni immediate, col rischio di provocare alcune esperienze isolate di autogestione di fabbriche d’avanguardia, condannate però ad una rapida degenerazione, permanendo il contesto capitalistico”. ‘Controllo operaio, consigli operai, autogestione’ 1970).

 

 

5. L’importanza del ‘fattore economico’ a partire da un’esperienza concreta

Il fattore economico, ossia la necessità di produzione di un reddito, è indispensabile  per riaggregare particolarità di classe disperse a causa delle politiche liberiste e dall’aggravarsi della crisi. Oggi non c’è alcuna possibilità di riunire su una battaglia per il lavoro e il reddito i disoccupati, i lavoratori espulsi dalle aziende, i precari, gli studenti se non c’è almeno un tentativo di ottenere un reddito. Neppure la militanza è nella condizione di continuare le battaglie esclusivamente politiche (anche a partire da obiettivi molto positivi, quali un reddito incondizionato per tutti/e i senza lavoro, la riduzione generalizzata dell’orario a parità di salario, l’esproprio delle imprese che licenziano,…) proposte da partiti, sindacati, associazioni varie se tutti sono costretti a impiegare il loro tempo per garantirsi una sopravvivenza: bisogna provare a intervenire su quel versante.

Le iniziative autogestite sono molteplici, quelle già in corso, e altre sicuramente potranno svilupparsi in settori diversissimi. Bisogna considerare/convogliare le sperimentazioni più interessanti e suscettibili di inserirsi in una dinamica anticapitalistica dentro il percorso di un movimento politico-sociale per il lavoro e il reddito.

Il ragionamento empirico che ha portato alla costituzione della realtà autogestita della RiMaflow partiva dal presupposto che, in assenza di ipotesi di resistenza collettiva una volta conclusa la vertenza sindacale, la maggiore concorrenza al ribasso si era già instaurata immediatamente, dato che si fondava sulla disponibilità del singolo lavoratore atomizzato, indifeso e ricattato ad accettare qualsiasi condizione pur di lavorare. Come già era noto avvenire quasi sempre per il lavoro migrante.

Quindi siamo partiti da uno stato di necessità: uscire da quella condizione in cui si era cacciati costruendo un primo livello di mutuo soccorso e di solidarietà. E poiché era la fabbrica il luogo che consentiva di avere un lavoro e un reddito si sono studiate le possibilità di riappropriazione della fabbrica e di riavvio della produzione, quindi – per riprendere uno slogan efficace del Movimento dei Sem Terra brasiliano, non a caso fatto proprio dal movimento autogestionario argentino – “occupare – resistere – produrre”.

A inizio anno abbiamo cominciato l’assedio della ex Maflow e l’abbiamo poi occupata, abbiamo resistito e, pur in presenza di uno svuotamento di quasi tutti i macchinari, abbiamo iniziato qualche forma di produzione, riconvertendo l’attività da automotive in direzione del riuso e del riciclo di rifiuti elettrici ed elettronici (Raee) e della distribuzione (e domani lavorazione) dei prodotti del Parco agricolo Sud Milano, nella logica del consumo critico e della filiera corta a chilometro zero. Ossia in direzione ecologista, trasformando un luogo tradizionalmente inquinante come la fabbrica, anche una fabbrica dismessa, in un luogo recuperato e aperto alle necessità del territorio: che è e sarà la risorsa fondamentale per procurarsi il lavoro e il reddito nel giro dei due anni di vigenza degli ammortizzatori sociali.

L’altro effetto della crisi da considerare è che la pressione della proprietà degli immobili per tornarne in possesso – che ovviamente esiste e con cui dobbiamo fare i conti – può essere oggi meno aggressiva che in passato, in una zona industriale periferica non certo in un centro storico, anche per la difficoltà di un suo riutilizzo redditizio, nel nostro caso da parte di un immobiliarista in leasing con Unicredit.

 

 

6. Come affrontare i limiti e i rischi del percorso: l’Autogestione conflittuale

Avviare un percorso che allude a un modello di alternativa di società in un contesto di sconfitta del vecchio movimento operaio può sembrare paradossale, ma fino a un certo punto. In Argentina, di fronte alla chiusura di una fabbrica si è affermata l’idea che questa possa essere recuperata. La durata nel tempo del fenomeno dimostra che questa pratica è diventata parte delle vertenze collettive e contribuisce a modificare i rapporti di forza a favore dei lavoratori e delle lavoratrici. Senza poi escludere l’importanza pedagogica per chi lavora, che si sottrae al comando padronale, prende nelle sue mani il controllo del processo produttivo, partecipa in prima persona alle decisioni e impara a ‘fare politica’. O, meglio, ricostruisce la buona politica tout court.

Ma, imparando dalle lezioni della storia e coscienti che è chi controlla i meccanismi del mercato che detta legge e che sono questi meccanismi che vanno contrastati e sostituiti con altri, nell’interesse – potremmo dire oggi – del 99 per cento e non dell’1 per cento della società, decisivo è mantenere la barra della direzione di marcia.

E’ essenziale che le forme di autogestione cooperativa siano strettamente collocate nel quadro di una dinamica conflittuale, in sintonia con l’insieme delle lotte sociali, a partire dalle lotte del lavoro unitamente ai militanti sindacali combattivi: non si può isolare questa lotta, non possiamo smettere di pensare di essere parte di un fronte più complessivo di classe. Come potremmo strappare da soli una legge che consenta sul serio di espropriare le aree occupate per un loro utilizzo sociale? In una parola, come possiamo costruire i rapporti di forza sociali e politici per contrastare la dittatura del capitale e strappare qualche risultato?

Solo in questa forma le cooperative autogestite e le sfere economiche fondate sulla solidarietà possono giocare un ruolo di coesione dei lavoratori e di prefigurazione della fine dello sfruttamento del lavoro da parte del capitale, evidenziando le contraddizioni del sistema, soprattutto in un periodo di profonda crisi strutturale come l’attuale. Si tratta cioè di dar vita a forme di contropotere e di controsocietà.

La conferma della crisi dei progetti storici della sinistra è dimostrata, esemplare ancora una volta il caso argentino, dalla totale assenza dei partiti, dei sindacati (almeno dei loro gruppi dirigenti) e dell’intellighentzia del paese all’origine del movimento delle fabbriche recuperate. Anzi, in alcuni casi qualche forza politica della sinistra radicale ha avversato il progetto perché in contrasto con i propri schemi. Prima, quindi, si è data la lotta operaia e solo poi si sono affacciate altre forze, anche assolutamente indispensabili come quelle legate all’università.

La barra della direzione politica deve allora essere autoprodotta dalle lavoratrici e dai lavoratori stessi, senza delega ad apparati esterni. La funzione della Lega delle Cooperative, erede principale del Mutuo soccorso dell’800, evidenzia fin troppo bene perché questa dimensione non può esserle affidata e perché questa direzione deve essere ricostruita in proprio! In una fabbrica metalmeccanica recuperata di Buenos Aires, l’Impa, è stata persino aperta un’università popolare per l’educazione non capitalista di una nuova generazione…

 

7. I rapporti con le istituzioni: siamo in credito  

Se partiti e sindacati si rivelano inadeguati, le istituzioni, fautrici o succubi del modello neoliberale che impone le misure di austerità responsabili del massacro sociale, non operano certamente a nostro favore per propria volontà. Chi spera in questo senso di poter avere un aiuto per avviare un percorso di autogestione semplicemente sbaglia: si potrebbe già fare un elenco dei delusi. L’azione va rovesciata: prima si costruisce l’iniziativa, si occupa, e poi si entra in relazione con istituzioni che hanno fallito più o meno coscientemente sul piano delle politiche per il lavoro e della tutela del reddito e verso le quali ci si deve rapportare come chi ‘è in credito’, esattamente come nei confronti del padrone che ti ha cacciato e di cui vuoi riappropriarti dei mezzi di produzione come ‘risarcimento sociale’. 

Anche per avviare un’attività economica, se il principio fosse quello di un’astratta legalità per ottenere le autorizzazioni quell’attività non partirebbe mai. Vanno esercitate delle forzature e trovate delle strade che consentano di aggirare gli ostacoli, tenendo fermi dei parametri che devono esserci da guida a prescindere dalla legge che non possiamo applicare. La sicurezza e la salute sul luogo di lavoro, ad esempio, va tutelata anche oltre quel che prevede la legge 626, perché siamo più interessati di una qualunque direzione aziendale a difendere un nostro diritto, anche se non disponiamo di autorizzazioni formali.

In Argentina sono state le lotte con scontri anche duri con l’apparato repressivo tutto a difesa della ‘proprietà’ a ottenere le prime sentenze positive sull’assegnazione delle fabbriche ai lavoratori e alle lavoratrici. Solo in un secondo tempo le istituzioni locali e il governo nazionale hanno cominciato a considerare le fabbriche recuperate persino come un’opportunità di esternalizzazione delle loro politiche per l’impiego. Prima sono state ottenute leggi sull’esproprio a livello provinciale e poi anche nazionale con conferimento delle imprese ai lavoratori sotto forma di comodato d’uso (in molti casi il non pagamento degli indennizzi da parte dell’amministrazione pubblica ha provocato però la riespropriazione dei lavoratori); in seguito c’è stato l’intervento sul diritto fallimentare per consentire una sorta di diritto di prelazione per i collettivi di lavoratori licenziati.

Come si può vedere, molte sono le contraddizioni e i risultati anche parziali non sono mai acquisiti definitivamente in una società capitalistica; l’unica cosa certa è che sono frutto di lotte e non delle idee illuminate di qualcuno.

L’utilizzo quindi delle forme giuridiche disponibili di tipo associativo e cooperativistico deve essere visto in modo dinamico in una pressione permanente sul livello istituzionale per consentire innanzi tutto l’agibilità del luogo recuperato, dove il rapporto con il territorio e la sua popolazione acquisisce un’importanza fondamentale.

 

8. Ipotesi a confronto: una strada per evitare le contrapposizioni

Il messaggio deve essere chiaro, come già all’epoca del movimento dei disoccupati francesi degli anni ‘90 che avevano coniato un felice slogan: ‘Il lavoro è un diritto, un reddito ci è dovuto!”. ‘La fabbrica è nostra, riprendiamocela’, possiamo dire oggi; ‘Se il padrone se ne vuole andare, che se ne vada, ma lasci qui stabilimento e macchinari come risarcimento sociale’. Il recupero dell’impresa da parte dei lavoratori può essere una soluzione efficace e durevole per combattere la disoccupazione di massa e produrre un reddito, questo è il punto.

Ora, le vertenze sindacali che si pongono l’obiettivo di salvaguardare i posti di lavoro con presidi e occupazioni anche in attesa che si presenti un nuovo acquirente continuano ad avere un senso, puntando alla riassunzione di tutti i licenziati e alla tutela delle condizioni contrattuali e di lavoro. Ma se queste condizioni fossero improbabili o non si dessero, è importante intervenire prima dell’esaurimento degli ammortizzatori. Un’ipotesi è quella dell’esperienza della RiMaflow, attraverso l’occupazione della fabbrica e la costituzione di una cooperativa autogestita. Un’altra, più classica, è quella della nazionalizzazione – sarebbe meglio dire pubblicizzazione o socializzazione, per evitare di riproporre modelli in cui una direzione aziendale nominata dal potere politico riproduca le regole del capitale – ossia dell’intervento sul nodo della proprietà.

In entrambi i casi si tratta di sottrarre la proprietà dei mezzi di produzione al capitale e di assicurare la messa in opera di altri rapporti sociali all’interno dell’impresa. Anzi, la prima forma non esclude la seconda ed è propedeutica all’intervento sulla forma di gestione dell’impresa pubblicizzata da conferire direttamente a chi ci lavora, oltreché ai cittadini e ai poteri pubblici interessati, in forme non dissimili da quanto proposto per i beni comuni dal Forum italiano per l’acqua e dai movimenti che condividono una nuova impostazione di proprietà pubblica (una forma aggiornata dello storico ‘controllo operaio’).

E’ assai probabile che in aziende di grandi dimensioni o che riguardino interi  rami produttivi come nel settore dell’energia o dei trasporti l’azione più ipotizzabile sia quella dell’esproprio attraverso un intervento pubblico, il cui grado di radicalità dipenderà dal contesto di lotta creato (la non indennizzazione della vecchia proprietà è certamente l’obiettivo pieno, più facilmente ipotizzabile nel quadro di ruberie del padrone, disastri ambientali o danni sociali rilevanti). Mentre più difficile, ma solo la sperimentazione concreta può dire l’ultima parola al riguardo, appare l’esproprio di un’azienda con produzione di scarsa rilevanza sociale.

Occupy Maflow e RiMaflow hanno assunto in Italia una funzione di apripista attraverso l’esperienza dell’autogestione. Non sono un modello. L’obiettivo politico coincide in questo caso con l’obiettivo economico: se l’esperienza riesce sarà di incentivo per altre che partiranno con migliori condizioni e consapevolezza e produrranno anche con ogni probabilità anche migliori risultati.

A Trezzano ci stiamo muovendo su due direttrici principali.

La prima è il lavoro per la riproduzione di esperienze analoghe che, partendo dalla strumentazione sindacale conflittuale nelle fasi di gestione delle vertenze occupazionali, punti a riprendersi i mezzi di produzione; un coordinamento tra le esperienze concrete di fabbriche recuperate sarà poi lo strumento per dar vita a un movimento per il lavoro e per il reddito che si inserisca con una sua specificità nelle lotte più generali dei lavoratori e delle lavoratrici e dei/delle giovani.

La seconda, per quanto argomentato in precedenza, è quella della rifondazione della buona politica, sperimentando l’elaborazione e la verifica di un orientamento programmatico per un cambiamento radicale della realtà dentro il conflitto sociale, tentando di superare la cesura tra lotta sociale e lotta politica, con un ritorno alle sperimentazioni che hanno caratterizzato la storia del primo movimento operaio.

 

9.  L’esigenza di una nuova finanza pubblica  

Le aziende recuperate e autogestite non si configurano come un ‘terzo settore’ distinto dai comparti produttivi tradizionali, ma, a mio avviso, come un percorso di altra economia, sociale e solidale, che prefigura un’alternativa al sistema capitalistico. Senza alcuna illusione, come detto in precedenza, di poter ritagliare spazi di autogestione in costanza del dominio del capitale. Anzi, ci sarà anche da aspettarsi il tentativo da parte dei governi di utilizzare le produzioni autogestite, se queste dovessero attecchire, per spingere i lavoratori in direzione dell’autosfruttamento e della cogestione subalterna delle imprese, come propugnato dalle centrali sindacali più moderate. 

Noi abbiamo un’altra esigenza, utile anche per resistere a pressioni di varia natura che si eserciteranno: rendere visibili e necessarie le sinergie tra i diversi soggetti sociali che intervengono su progetti di economia alternativa, anche indipendentemente dalle differenti impostazioni socio-economiche di ognuno. E’ la crisi sistemica in cui viviamo che rende necessario evidenziare percorsi che contrastino il refrain che non c’è alcuna alternativa alla globalizzazione capitalistica e alle politiche di austerità in sua difesa e nulla si può fare in sua sostituzione.

Le fabbriche recuperate possono essere una risposta pragmatica alla distruzione di forze produttive, mantenendo in primo luogo la produzione nei territori. A questo punto emerge il tema del credito, cioè del sostegno finanziario all’autogestione operaia, esattamente come per ogni altra esigenza sociale e produttiva nell’interesse del 99 per cento e non del potere economico e finanziario. Si creano così le condizioni anche per dare gambe sociali più solide allo sviluppo di un vero movimento per una ‘nuova finanza pubblica e sociale’, essenziale per smascherare gli imbrogli sul debito e consentire l’irrompere della società nel sancta santorum del capitale.

Anche qui un esempio concreto. L’area ex Maflow è di circa 30mila mq, di cui 14mila di capannoni con tetti in amianto: una vera bomba ecologica se lasciata all’abbandono sia per i lavoratori delle fabbriche attive circostanti, sia per i cittadini residenti nelle vicinanze. Ma anche per garantire un futuro alla ripresa produttiva che abbiamo avviato occorre un intervento di bonifica, che noi vorremmo realizzare insieme all’installazione di un impianto fotovoltaico per la produzione di energia pulita su circa la metà delle superfici coperte. Ciò andrebbe anche a vantaggio pubblico sicuro per il territorio, dato l’eccedente energetico prodotto. Noi non abbiamo certo le risorse necessarie per l’investimento, anche se a  lungo termine il saldo sarebbe senz’altro positivo.

Un prestito a tasso agevolato da parte della Cassa depositi e prestiti (Cdp) ci consentirebbe come RiMaflow di disporre di un contributo decisivo per riportare centinaia di lavoratori all’interno del sito produttivo, data la validità del piano industriale sul riuso e il riciclo del materiale elettrico ed elettronico che abbiamo presentato e delle attività della ‘cittadella dell’altra economia’ che sta crescendo attorno al core-business del Raee.

La Cdp, privatizzata e oggetto dell’assalto dei governi ad esempio per tutte le operazioni di salvataggio della grande finanza, non funziona più in senso sociale, nonostante sia nata proprio sul risparmio postale di milioni di cittadini: presentare un’istanza di finanziamento agevolato per RiMaflow (e ricevendone presumibilmente un rifiuto) sarebbe un modo efficace per dimostrare perché debba essere ripubblicizzata!

Oppure, partendo dal presupposto che solo la lotta organizzata per la riappropriazione delle fabbriche creerà le condizioni per ottenere gli espropri, non certo andando da qualche parlamentare a chiedere di presentare una qualche proposta di legge, il Forum per una nuova finanza pubblica e sociale può essere la sede dove tutte le istanze associative che vi convergono fanno propria un’impostazione di autogestione conflittuale funzionale a un progetto di alternativa economica, stante la distanza del mondo politico e sindacale da percorsi fuori dalle logiche del mercato.