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    05/10/14
    Le imprese recuperate nel periodo 2010-2013

    Capitolo 1
    PRESENTAZIONE e CRITERI GENERALI

    Il Programma "Facultad Abierta" ha realizzato dal 2002 una serie di rilevamenti nazionali sulle imprese recuperate dai lavoratori (ERT). Questi rilevamenti hanno lo scopo di costruire un'informazione il più possibile completa sull'universo delle imprese recuperate in Argentina, grazie ad un ampio campione di casi in cui sono stati raccolti dati tramite un questionario -che si è andato rielaborando e acquisendo complessità man mano che l'esperienza diretta dei lavoratori cresceva.

    Il fatto che i diversi rilevamenti siano stati realizzati lungo un periodo di tempo compreso tra la metà del 2002 e la fine del 2013 (il quarto, che qui presentiamo) permette anche di organizzare quest'informazione su un piano temporale di oltre un decennio. Un decennio in cui il movimento delle imprese e delle fabbriche recuperate dai lavoratori si è consolidato come una realtà all'interno del mondo del lavoro.

    Andrés Ruggeri
    Informe del IV relevamiento de Empresas Recuperadas en la Argentina. 2014: las empresas recuperadas en el período 2010-2013 . - 1a ed. - Ciudad Autónoma de Buenos Aires: Cooperativa Chilavert Artes Gráficas, 2014.
    E-ISBN 978-987-27253-4-1

    CC BY-NC-SA
    http://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/4.0

    Quest'opera ha una Licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale. Permessi che vadano oltre quanto stabilito con questa licenza si possono trovare in: centrodoc@gmail.com

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    05/10/14
    Le sette tesi sul controllo operaio di Panzieri e Libertini

    Nel febbraio ‘56, “Mondo operaio” pubblica le “Sette tesi sulla questione del controllo operaio” di Raniero Panzieri e Lucio Libertini. Il Partito socialista sta vivendo il passaggio dall’equilibrio instabile tra le correnti interne, stabilito dal congresso di Venezia (1957), alla definitiva affermazione della scelta per il centrosinistra (congresso di Napoli, 1959), il Partito comunista la complessa fase del dopo-Ungheria e i primi passi della via rielaborata all'8° congresso, l’opposizione di partiti storici, il primo tentativo (Azione comunista), presto fallito, di legare scelte e opzioni anche diverse, attorno ad un minimo comun denominatore.

    È la stagione del dissenso, soprattutto intellettuale, nel Pci, dell’uscita di Calvino, Muscetta, Cantimori, della sospensione di Geymonat, dell’esplodere dei casi Reale, Onofri, Corbi e soprattutto Giolitti, della nascita e spesso dell'esaurimento di molte riviste, da "Città aperta" a "Corrispondenza socialista", da "Passato e presente" a "Tempi moderni", da "Ragionamenti" ad "Opinione", che, pur tra limiti ed incertezze, pongono temi e problemi, sovente non toccati dalla sinistra ufficiale e spesso anticipatori di tematiche che saranno proprie degli anni ‘60.

    Panzieri condirige (il direttore "ufficiale" è Nenni) "Mondo operaio" dal 1957 al 1959, in quella che sarà la stagione più fervida della rivista, e prima di lasciare Roma per Torino segnando un distacco non solo dal partito, ma anche dalla sinistra socialista. L’esperienza di Gianni Bosio, ad essa contemporanea, trasforma la terza pagina dell’edizione milanese dell’"Avanti!", aprendola a collaborazioni e contributi anche eterodossi. Su un terreno diverso, per il forte "terzinternazionalismo di sinistra", ma con analisi spesso coincidenti, si situa l’opera di Danilo Montaldi (1). Lucio Libertini è da poco nel Psi, dopo un percorso tormentato, alla ricerca di una via autonoma fra gli “opposti estremismi” stalinisti e socialdemocratici (significativa la sua esperienza nell’Usi, il piccolo movimento fondato da Magnani e Cucchi).

    Secondo Panzieri è possibile arrestare il processo di erosione delle forze popolari soltanto con la più energica ripresa del movimento operaio dal basso e in forma di totale democrazia, soltanto con la più viva tensione per riguadagnare permanentemente i dati della realtà (2). Ai suoi occhi, questa tematica deve diventare centrale nell’azione del Psi, nel senso di una via al socialismo ora, e non come riproposizione di una problematica lontana nel tempo. Non è casuale la sua non assunzione né da parte della maggioranza autonomista, né da parte di Lombardi (che propone una strategia delle riforme come base per ricostruire l’unità della sinistra, anche in alternativa al Pci), né da parte della stessa sinistra del partito che mantiene una logica spesso frontista ed appiattita sul Pci.

    Le "sette tesi" nascono quindi in un momento di fecondo dibattito e costituiscono un riferimento importante anche se minoritario. È loro destino alquanto singolare di essere citate e additate come un piccolo classico della cultura politica del socialismo di sinistra e però, al tempo stesso, di non aver dato luogo ad una continuità ideale e politica di referenti che le assumessero come un punto fermo di valore strategico (3).

    [...]

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    “Per il ‘68”, n. 7, 1995.
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    04/10/14

    La Comune di Parigi fu una rivoluzione proletaria incompiuta che ebbe un grande significato politico come manifestazione di una politica proletaria. Questa politica proletaria si rese manifesta nella sua essenza autogestionaria . La negazione proletaria delle istituzioni borghesi andava di pari passo con lo schema di affermazione proletaria di autogestione sociale. Pertanto, è essenziale per comprendere le azioni effettuate dai proletari di Parigi e dalla reazione borghese, in cui si fronteggiano due modi di effettuare lotta di classe politica. La lotta proletaria ne è uscita sconfitta, ma la percezione del suo significato politico, che dipende anche dal riconoscimento della lotta di classe, non è andata dispersa. Ciò che è in gioco nella rivoluzione proletaria sono due concezioni e pratiche politiche radicalmente diverse e tra loro antagoniste.

    Introduzione

    La Comune di Parigi del 1871 fu uno straordinario evento storico e il suo ricordo offre elementi fondamentali per ripensare la prassi politica contemporanea. Non è senza motivo che è stato e seguita ad essere oggetto di numerosi dibattiti e pubblicazioni. Questo articolo cerca precisamente di recuperare il significato politico della Comune di Parigi, vale a dire, quali lezioni ha lasciato per la pratica politica guidata dall'idea di emancipazione umana, per la radicale trasformazione sociale dei rapporti sociali. Il significato della Comune di Parigi si esprime in ciò che è stata. Ciò che è stata è quel che importa. Marx aveva già sottolineato questo aspetto scrivendo che "la grandezza sociale della Comune è rappresentata dalla sua stessa esistenza attiva" (Karl Marx, La Comune di Parigi ). In questo senso, vi è un'unità tra essere e significato, il significato risiede nell'essenza dell'essere. Cos'è stata la Comune di Parigi? Un evento del passato che annuncia il futuro. Il passato che porta in sé i semi del futuro. L'essere che annuncia quello che sarà. Così, il significato politico della Comune si riferisce allo studio di quel che è stata ed ha espresso.

    Scarica il testo completo (in portoghese) in .PDF.

     

    Nildo Viana è Dottore in Sociologia all'Università di Brasilia e Professore dell'Università federale di Goiás. nildoviana@ymail.com

    Titolo originale: O significado politico da Comuna de Paris / Nildo Viana
    Em Debat, n. 6 (jul-dez, 2011), pagg. 60-82
    ISSNe 1980-3532
    DOI:10.5007/1980-3532.2011n6p60

    CC BY-NC-NC (Questo lavoro ha una licenza derivata Creative Commons: Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 3.0)

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    03/10/14

    Un'altra fabbrica chiusa dai padroni e recuperata dai lavoratori, che non si sono arresi alla perdita del posto di lavoro e vogliono provare ad autogestire, da operai, la produzione.

    Li abbiamo visti per oltre un anno davanti i cancelli di uno stabilimento che per tutti loro era stata una seconda casa. Li abbiamo visti sotto il gazebo a raccogliere firme incuranti della pioggia, del caldo, delle giornate di festa. Hanno lottato per il loro lavoro e non si sono tirati indietro quando c’era da unirsi alla lotta di altri lavoratori messinesi. Una battaglia l’avevano persa, perché alla fine quel posto difeso con le unghie e con i denti non sono riusciti a mantenerlo. Adesso però festeggiano una vittoria molto più grande che ha il sapore del riscatto.  

    Sono gli ex lavoratori prima della Birra Messina, poi della Triscele. Si vogliono lasciare alle spalle queste etichette perchè hanno una nuova identità, sono i fondatori del Birrificio Messina e le uniche etichette a cui vogliono pensare adesso sono quelle che vedremo sulle nuove bottiglie di birra che i messinesi potranno presto portare sulla tavola.

    Sono 16, hanno coraggiosamente scelto di investire il loro Tfr in questa nuova avventura, 1 milione di euro è stato speso per i macchinari e un’altra cospicua parte servirà per i capannoni, credono nella loro professionalità ed esperienza e vogliono restituire a Messina una birra che sia messinese davvero. In questi mesi hanno avuto tante promesse ma hanno cercato di rimboccarsi le maniche, hanno battuto i pugni anche a Palermo per ottenere un aiuto, alla fine la perseveranza ha vinto e la buona notizia è arrivata: la Regione ha assegnato al gruppo Birrificio Messina due capannoni della zona ex Asi di Larderia. Lì nascerà la nuova birra made in Messina.
    Mimmo Sorrenti, da sempre portavoce del gruppo, oggi è felice e quasi incredulo ripensando alle lotte di questi anni. “Ho capito che dovevamo fare qualcosa nell’agosto del 2012, quando nonostante l’impegno dell’allora Prefetto Francesco Alecci l’azienda ha chiuso tutte le possibilità di un qualsiasi rilancio.

    Poi non abbiamo perso la speranza, fino all’ultimo abbiamo provato comunque a salvare quello stabilimento in via Bonino perché non era solo il nostro posto di lavoro ma era un pezzo di storia della città che stava morendo. Non ci siamo riusciti ma quello che stiamo vedendo nascere adesso sotto i nostri occhi è bellissimo e siamo certi ci porterà tante soddisfazioni”.

    E’ felice e fiducioso Mimmo Sorrenti, sembrano passati secoli da quando lo abbiamo visto arrampicato su uno dei muri esterni dello stabilimento con una bottiglietta di benzina in mano, erano settimane di angoscia e disperazione, insieme ai suoi colleghi e compagni di viaggio su quello stesso muretto è rimasto per giorni seduto a penzoloni e incatenato, migliaia sono state le firme raccolte per sostenere la loro causa, tante purtroppo sono state anche le passerelle politiche andate in scena davanti al loro gazebo, tante promesse che alla fine non hanno portato niente. Adesso è iniziato un nuovo capitolo. Oggi un delegato regionale Irsap ha consegnato le chiavi dei capannoni, i lavoratori del Birrificio Messina sono entrati in quello che sarà il nuovo stabilimento, prima però si dovranno effettuare alcuni lavori di sistemazione. Per iniziare gli interventi bisognerà sottoscrivere il contratto, prima ancora però l’Agenzia del Territorio dovrà fare la stima degli immobili. “Spero che la burocrazia non ci faccia perdere altro tempo proprio adesso che si inizia a vedere la luce” dice Mimmo Sorrenti che insieme ai suoi colleghi oggi imprenditori non vede l’ora di cominciare.

    Gli interventi da effettuare riguardano la riconversione dei capannoni per destinarli alla produzione di birra. Si dovranno sistemare i tetti, rifare la pavimentazione e tutti gli impianti. Un capannone sarà destinato al vero e proprio stabilimento di produzione, l’altro sarà invece allestito per lo stoccaggio, l’azienda è pronta a partire, alla base è stato fatto un piano industriale che prevede la produzione di ventimila ettolitri di birra per il primo anno e di venticinquemila nei prossimi 4 anni. “A settembre debutterà la nostra birra, anzi i prodotti saranno due perché due sono le etichette che abbiamo deciso di creare” racconta Sorrenti che è stato l’ideatore del marchio e che adesso insieme al gruppo attende l’ok dalla Camera di Commercio sulla registrazione del brevetto depositato nei giorni scorsi.
    Il nome della nuova birra al momento resta top secret perché dovrà essere una sorpresa. “Per presentarla faremo una grande festa dedicata a tutti i messinesi che ci stanno stando accanto. Non ce lo aspettavamo ma stiamo ricevendo tanto calore dalla gente che ci incoraggia a continuare. Ci fermano per la strada, ci scrivono sui social network, e ci ringraziano per il coraggio che abbiamo avuto e perché stiamo restituendo a Messina una birra che non sia messinese solo di nome. In passato ci siamo sentiti soli in tante occasioni, adesso non è più così e questo ci dà forza”.
    Insomma, la nuova sfida è appena iniziata eppure la storia di questo gruppo di lavoratori oggi imprenditori ha già un suo lieto fine. Sono stati il simbolo di quella Messina che non si vuole arrendere, oggi sono il simbolo di chi ce la fa nonostante tutto. Adesso toccherà proprio ai messinesi dimostrare che stanno da loro parte.

     

    Guarda il video sul Birrificio Messina recuperato dai lavororatori, su corriere.it

    Ripreso da: Il megafono quotidiano e Birrificio Messina.
    Originariamente pubblicato su Tempostretto, quotidiano online di Messina e dintorni, 17 marzo 2014.

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    03/10/14

    Nell'Argentina del post-2001, mentre un intero paese oscillava pericolosamente sull'orlo del baratro a causa di anni di politiche economiche neoliberiste imposte dal menemismo, si sono moltiplicati esempi di fabbriche e imprese recuperate e autogestite dai lavoratori. Casi poi diventati emblematici come quelli della Zanon o della Chilavert rimandano in realtà a un fenomeno ben più ampio, che ha visto diversi stabilimenti e unità produttive portati al fallimento da manager senza scrupoli rinascere, sia pure fra mille difficoltà, salvando posti di lavoro e dimostrando, ad un tempo, che è possibile produrre anche senza padroni. Un processo, reso celebre anche da The Take, il bel documentario diretto nel 2004 da Naomi Klein e Avi Lewis, che nell'Europa della crisi e dell'austerità è fonte di ispirazione per lotte ed esperimenti analoghi moltiplicatisi negli ultimi anni in Francia, Grecia, Turchia e altri paesi. Fra questi, possiamo annoverare oggi anche l'Italia grazie agli esempi della RiMaflow di Milano e delle Officine Zero di Roma.

    Al movimento delle imprese recuperate argentine ha di recente dedicato un volume Andrés Ruggeri, ricercatore presso la Facoltà di Filosofia e Lettere dell'Università di Buenos Aires. Uscito nei giorni scorsi anche nella traduzione italiana edita da Alegre (A. Ruggeri, Le fabbriche recuperate. Dalla Zanon alla RiMaflow, un'esperienza concreta contro la crisi, pp. 192, euro 15,00), il libro ripercorre la storia delle Ert (Empresas Recuperadas por sus Trabajadores) dal 2001 a oggi e affronta temi centrali quali quelli dell'autogestione e del cooperativismo, del rapporto fra autogestione e mercato capitalista e autogestione e movimento operaio, dell'economia delle imprese recuperate e della loro relazione con il sindacato e con la politica. È Ruggeri stesso a spiegarci le caratteristiche del movimento delle Ert, nonché le ragioni per le quali esso ha avuto una così grande visibilità in Argentina.

    Che cos'è un'impresa recuperata dai lavoratori?

    Un'impresa recuperata dai lavoratori è un'impresa a gestione collettiva dei lavoratori. Allo stesso tempo, però, con quest'espressione si è soliti riferirsi a un processo, più che a uno stato di cose, a un processo che è in molti casi tuttora in corso di svolgimento. Un'impresa autogestita dai lavoratori deriva infatti generalmente da un'impresa precedente che era un impresa capitalista della quale quei lavoratori erano dipendenti. Fra l'altro, il gruppo dei lavoratori non necessariamente rimane lo stesso nel corso di questa trasformazione. Molte imprese recuperate sono occupate, ma non tutte lo sono per forza. La maggior parte di esse, inoltre, si trasformano in cooperative dei lavoratori ma, anche qui, non stiamo parlando di una regola che non ammette eccezioni, dal momento che esistono Ert che non si sono costituite in cooperativa.

    Come si è arrivati al movimento delle imprese recuperate dai lavoratori in Argentina e in che modo esso si è sviluppato a partire dai drammatici eventi che il paese ha vissuto alla fine del 2001?

    In realtà, in Argentina esistevano delle imprese recuperate dai lavoratori anche prima della crisi del dicembre 2001. Ce n'erano già alcune che si erano formate, in condizioni difficilissime, negli anni dell'egemonia assoluta del menemismo e del neoliberismo. La crisi del 2001 ha più che altro fatto da moltiplicatore di casi di questo tipo, oltre a dare il là a tutta una serie di manifestazioni di solidarietà attorno alle imprese recuperate che hanno cominciato a far parlare di “movimento” delle imprese recuperate stesse. La grande differenza fra l'Argentina e altri paesi, infatti, non consiste nella presenza o meno di imprese recuperate dai lavoratori ma nel fatto che in Argentina queste sono state all'origine di un vero e proprio movimento. Non saprei dire quanto esso sia stato forte ed efficace, ma di sicuro è stato molto visibile, molto capace di esercitare una pressione anche sul potere politico soprattutto nei primi anni, e cioè nel 2002, 2003 e 2004. Quando poi la situazione economica del paese si è stabilizzata, nel movimento sono comparse delle divisioni, delle fratture, per cui oggi non c'è un solo movimento ma varie organizzazioni che includono imprese recuperate. Di fatto si tratta per lo più di divisioni fra dirigenti politici, che coinvolgono meno la base dei lavoratori, eppure sono presenti. Va anche detto che, nonostante questa frammentazione, il movimento è cresciuto molto e ci sono oggi molte più imprese recuperate e gestite dai lavoratori di un tempo.

    Che ruolo ha svolto nel movimento delle imprese recuperate argentine la solidarietà sociale che si è creata intorno ad esse? Mi riferisco soprattutto al rapporto con la comunità e con il quartiere circostanti, ma anche a quello con altri movimenti sociali e, perché no, con i consumatori, visto che un'impresa vive solo se c'è qualcuno che ne compra i prodotti...

    Questo è un aspetto fondamentale, perché nessuna impresa è stata “recuperata” dai soli lavoratori. Un ruolo importantissimo ai fini del recupero e della messa in produzione è stato sempre svolto dalla solidarietà sociale e dalle mobilitazioni che si sono create attorno all'impresa stessa. Nel 2001 questo era molto evidente: ad interagire con le Ert c'erano le assemblee popolari di quartiere, il movimento dei piqueteros, il movimento studentesco eccetera. C'era un ampio movimento di solidarietà che ha avuto un ruolo imprescindibile nel far vivere alcune esperienze. I casi più famosi sono quelli della Zanon e della Chilavert ma lo stesso è successo in molte altre circostanze. Col passare del tempo, e col mutare della situazione del paese, tutto ciò è un po' cambiato. Oggi c'è più solidarietà, ad esempio, tra imprese recuperate, e più solidarietà verso quest'ultime da parte di altri tipi di movimenti comunitari, in alcuni casi anche da parte del potere politico e da parte dei sindacati, che inizialmente non vedevano di buon occhio il fenomeno.

    Tuttavia, questo è solo un lato della questione. L'altra faccia della medaglia è data da una situazione odierna nella quale i lavoratori di una fabbrica recuperata sono in grado spesso non solo di ricevere solidarietà ma anche di darla. Negli ultimi anni si sono andate formando delle attività di solidarietà che partono dalla fabbrica e che rappresentano in qualche modo un'evoluzione della solidarietà ricevuta precedentemente dalla comunità. È così che, nello spazio fisico dell'impresa, vengono create iniziative, ad esempio centri culturali, scuole popolari eccetera, che non rispondono a un logica di razionalità economica, che non servono cioè a creare reddito per i lavoratori dell'impresa, ma che vengono comunque considerate da quest'ultimi come una parte essenziale dell'impresa recuperata. Per quanto riguarda invece il ruolo dei consumatori, la questione è un po' diversa perché, in generale, le imprese recuperate non producono per la vendita al dettaglio ma per il consumo intermedio, cioè per la distribuzione, anche se esistono esempi isolati in cui si fa vendita al dettaglio e anche in questo caso si è instaurato un rapporto di solidarietà con chi compra per far vivere l'impresa.

    Un altro aspetto importante è quello della forma che assume la proprietà dell'impresa gestita dai lavoratori. Storicamente si danno vari esempi: cooperative (la cui esistenza isolata nel mercato capitalistico pone com'è noto dei problemi), imprese che lottano per essere nazionalizzate mantenendo però il controllo operaio sulla produzione, semplici imprese “di Stato” eccetera...

    In realtà il tema della proprietà non passa per la forma cooperativa. La cooperativa è una forma legale che viene adottata per consentire all'impresa di essere un soggetto che ha un suo status giuridico nei confronti dello Stato. Il problema della proprietà, invece, nasce dal fatto che la maggior parte delle imprese recuperate dai lavoratori erano anteriormente imprese in fallimento ma proprietà di alcuni capitalisti, per cui c'è un procedimento legale in corso per stabilire di chi sia la proprietà che, di fatto, è soggetta a disputa. La cooperativa dei lavoratori spesso non ha ancora ereditato la proprietà, perché in genere questa è oggetto di una battaglia legale e c'è in corso una mobilitazione per l'espropriazione, ovvero una campagna di pressione affinché il Congresso espropri l'impresa per ragioni di utilità pubblica e la dia ai lavoratori stessi. Ma si tratta di un processo che, nella maggior parte dei casi, è lungo ed è tuttora in corso, per cui la proprietà delle imprese recuperate è spesso in una situazione di ambiguità giuridica: i lavoratori spesso hanno il controllo dell'azienda, la usano, ma non ne sono ufficialmente proprietari.

    Il tema della proprietà è separato da quello del rapporto fra cooperativa e mercato. È vero che se la cooperativa detiene la proprietà ha anche accesso a linee di credito che altrimenti non ha; d'altro lato, se la cooperativa non detiene la proprietà, è in uno stato di precarietà giuridica permanente. Ma il problema del rapporto fra cooperativa e mercato è un altro problema.

    Qual è il senso dello slogan “occupare, resistere, produrre”?

    Si tratta di uno slogan che in realtà il movimento delle imprese recuperate ha ripreso dal movimento dei sem terra brasiliani. La sua virtù sta nel fatto che riesce a sintetizzare il momento iniziale del processo di recupero: prima l'occupazione, per evitare che vengano portate via le macchine, per evitare che il luogo di lavoro cessi di fatto di esistere; poi la fase di resistenza, perché molto probabilmente dopo l'occupazione ci sarà un tentativo di sgombero, un tentativo repressivo da parte della polizia; e poi infine, per far vincere veramente la resistenza, si tratta di far funzionare l'impresa, di produrre e di dimostrare che produrre si può anche senza il padrone. Si tratta di tre momenti successivi, che tuttavia si possono dare anche simultaneamente: ci sono diverse imprese recuperate in cui si è occupato lo stabilimento cominciando subito a produrre e allo stesso tempo tentando di resistere. Nella realtà, quindi, i tre momenti possono essere separati o congiunti, dipende dalle circostanze.

    Che rapporto intrattiene il movimento delle imprese recuperate dai lavoratori con il sindacato?

    Il problema del sindacato rispetto al movimento delle Ert consiste nel suo percepirsi tradizionalmente come l'organizzazione che rappresenta i lavoratori contro i padroni, o comunque come un'istituzione che svolge un ruolo di intermediazione. Tuttavia, qui il padrone non c'è... Senza il padrone, il sindacato tradizionale perde interesse a una situazione in cui sembra superfluo. Anche per questo alcuni sindacati, inizialmente, si sono opposti alle imprese recuperate. Ce ne sono poi stati anche altri che hanno invece capito meglio la situazione e hanno cercato di integrare – e allo stesso tempo di contenere – i lavoratori all'interno delle rispettive organizzazioni, riconoscendo contemporaneamente di aver a che fare con cooperative senza padrone. Ad ogni modo, si tratta di una relazione conflittuale, perché le imprese recuperate mettono in discussione molte cose, e una di queste è proprio il sindacato.

    MicroMega online, 30 settembre 2014.
    Intervista ad Andrés Ruggeri.

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    03/10/14

    La crisi storica del movimento operaio chiede uno sforzo eccezionale di fantasia e sperimentazione per ricominciare. Soprattutto se si propone di ricominciare dalla base, “là dove tutto è cominciato”. Dalla “parola operaia”, dal titolo del bel libro curato da Alain Faure e Jacques Ranciere. O dall'ipotesi dell'autogestione. Nel tritacarne della lotta di classe novecentesca, con i suoi picchi estremi di generosità ma anche con la vittoria delle elites e delle burocrazie che tutto hanno sequestrato, quella rivendicazione è stata ricoperta di errori strategici se non di insulti, da un movimento comunista internazionale dominato dallo stalinismo. Ma anche dalle tendenze socialdemocratiche che hanno inteso l’autogestione come qualcosa di troppo o troppo poco conflittuale. Noi pensiamo, invece, che questa ambizione offra un terreno prezioso per impostare un nuovo inizio. In una crisi sistemica delle sinistre, in Italia e in Europa, la pallina di una ripartenza va collocata in un numero un po' bizzarro, a cavallo tra il rosso e il nero, in un crinale poco esplorato, ma ricchissimo e denso di potenzialità, dell'elaborazione marxista.
    Per questo, il libro di Andrés Ruggeri che avete tra le mani è importante. Per aiutare i percorsi concreti di riappropriazione sociale e di autogestione, innanzi tutto. Ma anche per offrire con più completezza e chiarezza un terreno di discussione alle varie sinistre tramortite e a coloro che una sinistra di classe, anticapitalista, davvero nuova, inedita costruiranno domani.
    L'idea dell'autogestione operaia è infatti alla base delle complesse fortune delle “fabbriche recuperate” di cui parla Andrés Ruggeri. L'iniziativa ha preso le mosse dall'Argentina stritolata dalla grande crisi del 2001 e dal “default” che ne seguì. Di fronte allo sfacelo sociale provocato dai “migliori allievi del Fondo monetario internazionale”, come furono definiti il presidente argentino Menem e i suoi seguaci, ai lavoratori e alle lavoratrici in lotta non rimase che imboccare la strada dell'azzardo. The take, la presa, l'occupazione: così Naomi Klein definì quel tentativo in un film che restituiva tutta la crudezza dell'orrore economico provocato dalla crisi. Ma anche la forza della speranza che può sorgere dall'azione collettiva. E così, dopo il mito della Zanon, la prima fabbrica recuperata in grado di rimettersi pienamente in produzione e di stare, addirittura, sul mercato, le imprese recuperate in Argentina sono arrivate a circa 300 ricollocando al lavoro oltre quindicimila lavoratori e lavoratrici. Poco, se paragonato all'ampiezza di un'economia nazionale. Molto, se la prospettiva è quella di invertire la tendenza all’espulsione di massa dal mercato del lavoro e aprire nel contempo una strada di cambiamento. Ma nel momento in cui l’edizione italiana di questo libro vede la luce il quadro internazionale si fa ancora più interessante. Iniziative di lotta vittoriosa si sono realizzate in Grecia, con la Vio.me di Salonicco, in Francia con la Fra.lib di Marsiglia, che ha imposto alla multinazionale Unilever di pagare i costi della ripresa autogestita, sede del Primo incontro europeo delle imprese recuperate nel gennaio 2014. E poi in Turchia, con la Kazova di Istanbul e ancora in Spagna con altre esperienze di autogestione. Mentre è in preparazione per il mese di luglio 2015 il primo incontro internazionale delle fabbriche recuperate in Venezuela presso la Venezolana de Telecomunicaciones, Vtelca, di Punto Fijo nel Paraguanà. Si tessono reti internazionali e si costruiscono canali di comunicazione come il prezioso sito workerscontrol.net. In Italia da un paio di anni esistono due esperienze pilota che hanno generato un'attenzione smisurata proprio per la loro allusione a una ipotesi diversa di uscita dalla crisi, la Ri-Maflow di Trezzano sul Naviglio presso Milano e Officine Zero di Roma. Il movimento è agli albori, non ha finora attecchito in ampi settori del vecchio movimento operaio né ha suscitato l'interesse da parte delle grandi sigle sindacali o dei partiti residui della sinistra. Non a caso. Ma un movimento si sta mettendo in cammino, una linea di azione è stata abbozzata. Le fabbriche recuperate hanno indicato la rotta dell'autogestione come ipotesi politica e strategica.
    Per andare dove, facendo cosa? La studiosa e militante francese Catherine Samary avverte che quando si parla di autogestione è sempre bene “chiarire di cosa si parla se si vogliono evitare falsi dibattiti e approfondire la riflessione”. C'è infatti l'autogestione come diritto individuale, come possibilità per i lavoratori, ma anche gli individui, di gestire la propria vita, le proprie esigenze sociali, in prima persona sia pure in un percorso legato a una progettualità politica. L'autogestione che mira a mettere al centro la piena partecipazione dei lavoratori all'economia con l'obiettivo di soddisfare i propri bisogni e non di realizzare necessariamente un profitto privato. Ma c'è un altro aspetto importante, la visione di società, l'autogestione come architrave di una prospettiva di trasformazione. Ad esempio la concezione anarchica dell'autogestione o quella più direttamente marxista. La prima si snoda impresa per impresa, la seconda rimanda alla concezione di “pianificazione” magari, come nel “caso jugoslavo” combinando piano, autogestione e mercato. L'autogestione, dunque, come progetto politico.
    Naturalmente l’autogestione della produzione e più in generale dell’attività produttiva, in particolare dall’avvento delle fabricas recuperadas argentine al centro dell’analisi di Andrés Ruggeri, è intesa come massimo sviluppo del controllo operaio. E quindi la riappropriazione dei mezzi di produzione è frutto della lotta, mentre la gestione – indipendentemente che si utilizzi lo strumento formale della cooperativa o altre modalità societarie – deve essere necessariamente democratica (potere decisionale all’assemblea e revocabilità dei mandati). Queste caratteristiche sono quelle che distinguono l’autogestione operaia da una normale cooperativa.
    Ma per tornare ai filoni classici a cui facevamo riferimento, a noi interessano entrambi gli ambiti, perché nella concretezza di un'autogestione “qui e ora” si possono rintracciare i prodromi di un accumulo di coscienza politica in grado di rigenerare un progetto. Soprattutto, non ci interessa un modello storico di riferimento perché sostanzialmente non esiste. Il valore aggiunto di un processo di ripartenza è esattamente quello di recuperare il meglio dell'esperienza storica. Senza andare alla cieca.
    Restiamo fedeli all'assunto della Prima Internazionale secondo cui "l'emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi". E non del partito, dello Stato, degli apparati o di quant'altro si è sovrapposto alla libera iniziativa e alla partecipazione diretta dei vecchi e nuovi proletari. La strada della ricostruzione di un progetto di alternativa di società, fondato sull'attualità dell'analisi marxista ma anche su tutti gli altri stimoli e riflessioni del pensiero alternativo – in particolare quelli femminista ed ecologista – passa da questo snodo essenziale. Per lo meno, a noi interessa intraprenderlo da qui. Il comunismo realmente esistito è fallito, la socialdemocrazia non ha nulla da dire specialmente oggi che si è trasformata nell’alfiere delle politiche liberiste. Alternative solide in giro non esistono. La strada della liberazione dallo sfruttamento, dalla crisi, dalla povertà non può quindi che essere quella del "governo politico dei produttori" senza più alcun "asservimento sociale". Per questo, però, è giusto e utile fare dei test dal vivo di nuovi orizzonti per capire se, come e quanto sia possibile divenire i soggetti della propria storia.
    L'ambizione di un processo di autogestione, quindi, non si restringe all'obiettivo di occupare e recuperare una singola fabbrica o una singola attività economica. Questo è solo il punto di partenza. E il monitoraggio costante delle esperienze in corso che presentiamo con questo libro è fondamentale per capire la realizzabilità di queste iniziative e le concrete dinamiche che si aprono in questi contesti. In ogni caso non è certamente l'obiettivo di realizzare isole liberate nel mare di un'economia distruttrice. È un programma politico, un progetto di società, una costruzione da realizzare con la lotta e con l'esperienza esemplare. Non abbiamo la pretesa di modificare il corso del capitalismo con le singole esperienze quanto realizzare un ponte tra l'esperienza diretta e una visione generale per contribuire, in modo parziale, a ricostruire un soggetto della trasformazione i cui contorni oggi per lo più sfuggono.
    Esisteva, nel corso del Novecento, quel grande soggetto dell'emancipazione umana che è stato il Movimento operaio inteso non come "movimento di operai" ma come movimento generale in cui il termine "operaio", per il ruolo assunto dal movimento comunista, rappresentava interessi generali. Oggi gli operai esistono ancora, anzi nel mondo sono in crescita, e lottano, spesso duramente. Ma il "movimento" generale in cui la loro lotta era inscritta, il programma minimo, medio o massimo non esistono più oppure sono impalpabili. Non esistono più i partiti che hanno lottato nel corso del Novecento e anche i grandi sindacati sono diventati altro: strumenti di cogestione dell'economia capitalistica e non condensati, sia pure riformisti, di una coscienza di classe. In questo senso, quindi, le attuali condizioni della lotta di classe ricalcano più gli schemi di fine Ottocento, quelli degli albori del vecchio movimento operaio, che le tappe, nitide, drammatiche ed esaurite, del Novecento.

    La centralità della Comune

    Da dove ricominciare, quindi? Il nostro approccio muove dalla centralità, analitica e metodologica, non certamente come modello da imitare, della Comune di Parigi. Da lì occorre ripartire. Attorno a questa centralità vanno valorizzate le riflessioni compiutamente marxiste come quelle di ispirazione libertaria. Non c'è nulla da mitizzare né da demonizzare ma solo la consapevolezza che un nuovo inizio ha bisogno di realizzare esperienze in grado di offrire una base solida di riflessione. Esperienze esemplari che possano alludere al progetto di società ma, soprattutto, che producano indicazioni di lavoro politico e teorico.
    Sotto la cappa di piombo dello stalinismo e della socialdemocrazia, che a lungo andare ne hanno decretato la fine, il movimento operaio ha compiuto slanci rivoluzionari di portata epocale sul piano dell'autogestione operaia e del controllo dei lavoratori sulla produzione e, sia pure parzialmente, sulla società. Con in testa l'“autogoverno dei produttori” di cui parla Marx nel testo chiave, La guerra civile in Francia: “In un abbozzo sommario di organizzazione nazionale, che la Comune non ebbe il tempo di sviluppare, è stabilito con chiarezza che la Comune doveva essere la forma politica anche del più piccolo villaggio di campagna […] Le comuni rurali di ogni distretto dovevano amministrare i loro affari comuni mediante un'assemblea di delegati con sede nel capoluogo e queste assemblee distrettuali dovevano a loro volta inviare i propri deputati alla delegazione nazionale a Parigi; ogni deputato doveva essere revocabile in ogni momento e legato a un mandat imperatif dei propri elettori”. Le linee guida di un'ossatura statuale autogestita e basata sulla partecipazione effettiva alla vita pubblica, sono descritte in poche righe. A queste “istruzioni” si è attenuto Lenin nel redarre Stato e rivoluzione in cui la Comune assume un posto centrale nel definire ruolo e compiti dei Soviet. La storia e lo stalinismo distruggeranno quell'intuizione insieme ad errori importanti dei dirigenti bolscevichi, compreso Trotsky, sul piano della democrazia nel partito e del ruolo di quest'ultimo in relazione allo Stato. Ma quell'intuizione non muore: riemerge di nuovo, solo un anno dopo, nel biennio rosso italiano, in quel movimento dei Consigli, del 1919-20 in cui si afferma l'originalità di Gramsci, così come nei Consigli operai della Rivoluzione tedesca tradita e soffocata dalla socialdemocrazia. Si riaffaccia, pur dilaniata dalle vicende della guerra, nella Spagna antifranchista del '36 con numerose esperienze di autogestione, e riappare praticamente in ogni successivo sollevamento di massa con vero protagonismo dal basso nelle più diverse latitudini. Anima infatti il dibattito dei Consigli operai del secondo biennio rosso italiano, quello del 1968-69, così come i cordones industriales del Cile nel 1971-73. L'esperienza concreta si struttura fino alla dimensione della lotta, costituendo organismi popolari e/o operai incaricati di condurla. Quasi mai, tranne nell'Ottobre, si struttura in una forma adeguata che dia vita a un “dualismo di potere” che vada oltre i luoghi di lavoro, in grado cioè di contendere la direzione politica e quindi di pensare la rivoluzione. Il tema resta tutto da indagare. Perché, storicamente, quella vicenda si è conclusa con una disfatta, quella del comunismo realizzato, e oggi, nella ripartenza, si pone l'obbligo di rinominare le esperienze, di sondarle alla luce delle possibilità future e non mettendole davanti allo specchio della storia.

    Un dibattito attuale

    Recuperare una fabbrica per costruire un assetto di società futura, con i suoi organismi istituzionali, le sue priorità, le scelte economiche di fondo, è una strada lunga da compiere. Non esistono scorciatoie propagandistiche ma solo la lenta impazienza di un lavoro molecolare che possa, però, farsi esperienza esemplare e in questo modo illuminare il cammino. Recuperare una fabbrica può essere così un'intuizione concreta che rischiara un progetto, producendo ossigeno per una battaglia politica nel vivo del movimento reale. Una fabbrica autogestita si può mettere in rete-coordinamento-assemblea con il territorio circostante, con altre fabbriche recuperate, con esperienze diverse di mutuo soccorso per arare il terreno della solidarietà di classe e gettare i semi di una sfida politica all'esistente.
    Ripartire non significa però azzerare. L'esperienza passata è utile per capire, per non ripetere errori, per cogliere i nodi irrisolti. Il “caso jugoslavo” continua ad essere di grande interesse per il tentativo di rompere con la pianificazione burocratica dall’alto secondo il modello dell’Urss. Anche se l’autogestione è destinata all’insuccesso proprio per l’abolizione della pianificazione, mentre ipotesi più significative quali quella avanzata dal gruppo dissidente Praxis – la pianificazione autogestionaria – non hanno potuto neppure essere messe alla prova. Oggi quell’esperienza e quel dibattito rischiano di apparire lunari e segnati ormai da una storia drammatica, che ha condotto la Jugoslavia al naufragio disastroso in una guerra sanguinosa a causa del ruolo nefasto del partito-Stato e del ricorso al nazionalismo da parte delle burocrazie in crisi.
    Più attuale e più rilevante ai fini delle stesse esperienze di autogestione è il laboratorio latinoamericano, sempre più mosso e contraddittorio ma non per questo privo di interesse per temi quali la relazione tra movimenti, partiti e istituzioni o il rapporto tra lo Stato e il mercato. Nasce lì, non a caso, l'ipotesi suggestiva del “cambiare il mondo senza prendere il potere”. L'idea dell'anti-potere o del “potere dell'azione” che anima la riflessione di John Holloway, a sua volta mutuata dalla lotta zapatista, ad esempio, ha un rapporto e un'influenza diretta con l'esperienza delle fabbriche autogestite. L'ipotesi che si possa scatenare la potenzialità insita in una serie di esperienze autogestite, come tanti territori liberati, può rappresentare uno sbocco concreto a un processo di autorganizzazione produttiva a livello operaio o contadino (per l'America latina). Una posizione che non va demonizzata anche se il bilancio storico che se ne può trarre induce a ritenere che il tema dell'efficacia dell'azione politica tramite avanzamenti consistenti anche nella zona, ambigua e scivolosa, del potere, resti decisivo. In un suo recente saggio, Franck Gaudichaud, che si interroga utilmente su questi aspetti, ricorda anche le teorie sulla “dispersione del potere” di Raoul Zibechi secondo cui, analizzando l'esperienza della “comune di Oaxaca”, la sfida “sarebbe quella di fuggire lo Stato, di uscirne” piuttosto che occuparlo. “La dispersione di potere si realizza in due modi: da un lato con la disarticolazione della centralizzazione statuale e dall'altra creando una moltitudine di forme organizzative da parte dei movimenti”. Una serie di “micro-poteri” come antidoto alla perdizione del potere.
    A fronte di queste teorie, ricorda Gaudichaud, ci sono gli autori marxisti ortodossi che per reazione insistono sulla necessità di “prendere il potere” per "resistere all'imperialismo". E quindi rivendicano la rivoluzione cubana o il processo venezuelano contro la fragilità costitutiva dell'anti-potere. In nome di una, comprensibile, esigenza di efficacia dell'azione politica e di una sua durevolezza, i fautori del “potere”, però, spesso non fanno i conti con le esperienze storiche di burocratizzazione e di utilizzo contro gli stessi lavoratori di Stati che si volevano liberati e socialisti. “Come prendere il potere senza farsi prendere dal potere?” chiede giustamente Gaudichaud. Come costruire forme di potere popolare su cui si innesti una reale democrazia di base, un controllo effettivo dal basso, una partecipazione concreta e non solo declamata? Il problema, ad esempio, è posto quotidianamente ai “consigli comunali” venezuelani che devono fare i conti con uno Stato chavista in cui il partito al potere, il Psuv, aumenta ogni giorno le proprie prerogative e il proprio raggio d'azione e i propri privilegi. Lo stesso avviene con le cooperative e con le imprese recuperate: quali sono gli strumenti per un loro coordinamento al di là dei meccanismi di mercato che tendono a disarticolarle se non a metterle in concorrenza tra loro? Qual è il terreno di una efficacia democratica coordinata istituzionalmente? La gestione statale, il ruolo del partito, uno spazio istituzionalmente garantito a strutture di movimento? E quali? E in che modo affrontare la questione delle elezioni e delle istituzioni rappresentative? Come ricorda l'economista argentino Claudio Katz il dibattito sul futuro del socialismo non risiede tanto sulla realizzazione di un altro mondo possibile ma sul suo inizio, sulle condizioni realizzate oggi in vista dell'inveramento futuro. La complessità dei temi qui posti, pone l'esigenza di fare più domande che dare risposte. A condizione che le domande siano quelle giuste e siano poste nel modo giusto. Valutando i diversi fattori sul campo, ad esempio, si può certamente muovere in una direzione in cui l'autorganizzazione e l'autogestione popolare siano la stella polare di un sistema istituzionale in cui il potere sia effettivamente il “poter fare” di tutti e tutte, con eguali condizioni di partecipazione e con efficacia dell'azione politica. Il problema della “presa del potere” a livello statuale, del resto, ha il dovere di porsi in relazione alle nuove geografie dell'economia globale, a confini nazionali traslati dal potere delle multinazionali e da una conformazione macro-regionale dell'organizzazione sociale. Ha ancora senso la “presa del potere” in un solo paese d'Europa? La domanda non è peregrina se si pensa a cosa potrebbe accadere in Grecia di fronte a un governo delle sinistre guidato da Alexis Tsipras. L'autogestione operaia e popolare può, deve avere il potere di cambiare il mondo a partire dalle priorità, superando la centralità dell'economia e introducendo la priorità ecologica. Riflessioni ben presenti, ad esempio, nel Movimento dei Sem Terra brasiliano che, da anni, ha teso un elastico tra l'occupazione delle terre per produrre immediatamente forme di autogestione contadina e una visione di società alternativa basata sull'emancipazione degli uomini e delle donne. Come sottolinea Daniel Bensaïd nel corso di un suo dibattito con John Holloway: “Servirà molto osare al di là delle ideologie, immergersi nell'esperienza storica per riannodare i fili di un dibattito strategico sepolto sotto il peso delle sconfitte accumulate. Alle soglie di un mondo in parte inedito, dove il nuovo cavalca sul vecchio, meglio riconoscere ciò che si ignora e rendersi disponibili alle esperienze a venire che teorizzare l'impotenza minimizzando gli ostacoli da superare” (Contretemps, 2003).

    L'esperienza esemplare

    Eppure, prima del dibattito strategico e prima della riflessione teorica, l'autogestione nelle fabbriche recuperate deve compiere il suo corso, darsi un'agibilità effettiva, produrre fatti e senso. Cosa fare subito dopo l'atto originario dell'occupazione, dopo la decisione di recuperare? La decisione, sia chiaro, è fondamentale perché costituisce una chiara manifestazione di volontà politica che può essere intrapresa anche senza aver sviluppato tutto il dibattito a venire (altrimenti ci si condannerebbe a quell'impotenza da cui ci avverte Bensaïd). Rappresenta un atto importante soprattutto al tempo della crisi. E qui il lavoro di Ruggeri risulta ancora una volta un’indispensabile chiave di lettura e di proposta anche per realtà esterne al teatro latinoamericano.
    È infatti proprio il fattore economico, ossia la necessità di reagire alla disoccupazione e alla mancanza di reddito, che costituisce, più di ieri, una spinta potente all'azione. E va valorizzato per questo, senza timore di derive “economiciste” di secondo livello. L'aggravarsi della crisi, i colpi inferti dalle politiche liberiste, riducono gli spazi di azione delle classi deboli, anche sul piano della militanza, e pongono il terreno della condizione materiale dei soggetti in lotta. Spesso non c’è alcuna possibilità di aggregare su una battaglia per il lavoro e il reddito i disoccupati, i lavoratori espulsi dalle aziende, i precari, gli studenti se non c’è almeno un tentativo di ottenere un reddito. Neppure la militanza è nella condizione di continuare le battaglie esclusivamente politiche (anche a partire da obiettivi molto positivi, quali un reddito incondizionato per tutti/e i senza lavoro, la riduzione generalizzata dell’orario a parità di salario, l’esproprio delle imprese che licenziano, ecc.) proposte da partiti, sindacati, associazioni varie se tutti sono costretti a impiegare il loro tempo per garantirsi una sopravvivenza.
    Allo stesso tempo, la ricostruzione di una soggettività alternativa richiede la creazione di punti di appoggio materiali che possano sostenere una lotta di lungo periodo. Come in guerra esistono retrovie messe in sicurezza per poter condurre una battaglia dagli esiti ignoti, anche nella lotta di classe sono necessarie istituzioni di movimento che garantiscano gli eventuali approvvigionamenti. L'accumulazione originaria del movimento operaio è stata garantita dalle reti di Mutuo soccorso ante-welfare (quindi con forme di solidarietà primordiale, come le casse di resistenza o sanitarie), dalle Case del popolo, da progetti di mutua assicurazione, da sindacati al servizio di una forza lavoro dispersa e disperata. Il cammino del nuovo proletariato di inizio secolo ripropone i compiti, purtroppo, che si ponevano alla fine dell'Ottocento. Dotarsi di punti di appoggio, di condizioni di autosufficienza economica e logistica (come le stesse sedi per le riunioni, forme di auto-produzione di reddito, mutua assistenza) significa porre le basi per una resistenza di medio periodo e per ricominciare.

    La nascita della RiMaflow

    Il ragionamento empirico che ha portato alla costituzione della realtà autogestita della RiMaflow partiva dal presupposto che, in assenza di ipotesi di resistenza collettiva una volta conclusa la vertenza sindacale, la maggiore concorrenza al ribasso si fosse già instaurata immediatamente, dato che si fondava sulla disponibilità del singolo lavoratore atomizzato, indifeso e ricattato ad accettare qualsiasi condizione pur di lavorare.
    Quindi si è partiti da uno stato di necessità: uscire da quella condizione costruendo un primo livello di mutuo soccorso e di solidarietà. E poiché era la fabbrica il luogo che consentiva di avere un lavoro e un reddito si sono studiate le possibilità di riappropriazione della fabbrica e di riavvio della produzione, quindi – per riprendere uno slogan efficace del Movimento dei Sem Terra brasiliano, non a caso fatto proprio dal movimento autogestionario argentino – “occupare, resistere, produrre”.
    E così a fine 2012 è cominciato l’assedio della ex Maflow poi occupata. I lavoratori hanno resistito e pur in presenza di uno svuotamento di quasi tutti i macchinari, hanno iniziato alcune forme di produzione, riconvertendo l’attività da automotive nel riuso e nel riciclo di prodotti elettrici ed elettronici (Raee) e nella distribuzione (e domani lavorazione) dei prodotti del Parco agricolo Sud Milano, nella logica del consumo critico e della filiera corta a chilometro zero. Ossia in direzione ecologista, trasformando un luogo tradizionalmente inquinante come la fabbrica, anche una fabbrica dismessa, in un luogo recuperato e aperto alle necessità del territorio: che è e sarà la risorsa fondamentale per procurarsi il lavoro e il reddito nel giro dei due anni di vigenza degli ammortizzatori sociali.
    L'esperienza Ri-Maflow si è dichiarata fin dall'inizio debitrice della pratica e dell'elaborazione compiute dal movimento brasiliano dei Sem Terra. Con lo slogan "Occupare, resistere e produrre", il Mst organizza da trent’anni i contadini privi di terra per occupare le zone improduttive. Riescono a raggruppare da 300 a 3.000 famiglie, persone che vivono nei quartieri poveri delle grandi città ma che provengono dalla campagna. Uscire dalla povertà e tornare a lavorare in campagna è ciò che spinge queste famiglie a raggrupparsi intorno al Mst e a iniziare il processo di occupazione e resistenza. Ottenuta la legalizzazione dell’occupazione, la terra diventa di proprietà dello Stato che la concede in usufrutto alle famiglie occupanti. Da quando è cominciato, il Movimento non ha mai smesso di occupare terreni, di organizzare la produzione e la distribuzione in forme cooperative, di costruire scuole e di formare nuovi militanti. Ora sono circa due milioni le persone che vivono e lavorano in terre occupate e/o legalizzate. Le associazioni contadine e le cooperative di produzione sono centinaia. Nell’aprile 2010 sono state contate circa duemila scuole presenti nei loro accampamenti, e nella loro Scuola Forestale Nazionale Florestán Fernández hanno studiato 16.000 giovani per formarsi sul piano tecnico e politico. Adesso sono circa 60.000 le famiglie accampate in attesa di legalizzazione delle terre occupate. Quali sono i mezzi per ottenere tanto con così poco? Sono tre i motivi del successo del Mst: lotta costante, organizzazione come costruzione di nuovi valori, educazione come garanzia di continuità. La lotta continua parte dall’idea che la conquista della terra per un gruppo di famiglie non è sufficiente, deve continuare con la Riforma Agraria. Ciò implica un grande cambiamento strutturale del modello economico e politico del paese. Con il recente congresso del febbraio 2014, a fronte della paralisi dei governi e dei loro annunciati percorsi di riforma, il Mst ha lanciato una nuova Riforma Agraria Popolare, costruita dal basso in un’alleanza con i movimenti sociali urbani, puntando sulla qualità dei prodotti e sull’ambiente e contro l’agrobusiness: un nuovo rapporto città-campagna al centro anche dell’attuale dibattito nei movimenti sociali italiani che si occupano di alimentazione, di cui anche l’esperienza di Fuorimercato nata a RiMaflow fa parte.
    La corsa del pistone tra il punto inferiore dell'esperienza quotidiana e quello superiore dell'obiettivo strategico torna quindi in primo piano anche nel caso dei Sem terra che restano un'esperienza, fra quelle fin qui analizzate, tra le più interessanti sul piano dei movimenti sociali che si fanno politici mescolando i due livelli. Ritorna così un nodo analitico cruciale di questo passaggio storico. Il "sociale" e il "politico" si intrecciano in forme inedite rispetto al Novecento nella sedimentazione di coscienza di un nuovo soggetto. Per quanto necessario in prospettiva, sia pure in forme tutte da indagare, il partito non è più quel soggetto soverchiante gli attori sociali che è stato storicamente. Non si pone su un podio a dettare i compiti storici e nemmeno è il punto di coagulo di sussulti succedanei del movimento di classe. Più che un nuovo partito, quello che potrà sorgere da un fenomeno di ricomposizione sociale sarà con ogni probabilità una soggettività di tipo nuovo, più complessa, capace di mescolare diversi piani dell'agire politico e sociale. Inutile prefigurare l'ignoto. Più utile definire la sequenza dei reperti empirici della ricostruzione oltre a delineare l'ambito teorico di un nuovo progetto. In quei reperti, dunque, ci sono pratiche sociali in grado di sedimentare coscienza e potenza. Tra queste l'occupazione e la riappropriazione, propedeutiche all'autogestione.

    Un decalogo per resistere

    A questo fine è importante scandire gli elementi metodologici che rendono coerente lo sforzo empirico.
    1) Lo statuto, i diritti di autogestione – scrive ad esempio Catherine Samary – si concretizzano evidentemente sul luogo di lavoro a prescindere dalla natura di questo. Ma non dovrebbero limitarsi a questo livello: il diritto di decidere delle priorità, dei criteri di distribuzione, dei mezzi affidati all'autogestione, devono essere discussi e applicati indipendentemente dal posto di lavoro occupato e sotto la doppia angolazione lavoratori/utenti. Perché i lavoratori degli ospedali devono essere i soli a decidere dei finanziamenti, della gestione e delle priorità della salute? Perché i lavoratori di una miniera devono perdere i loro diritti con la chiusura di un sito per ragioni ecologiche?
    2) Per realizzarsi e trovare la propria efficacia, il sistema autogestionario deve rimettere in discussione un eventuale sistema di pianificazione centralista e burocratico. Ma, allo stesso tempo, occorre superare la concezione dell'impresa sul mercato che mette in concorrenza tra loro i lavoratori impedendo di sviluppare i diritti autogestionari sul piano politico “orizzontale”. Alcune forme di “pianificazione autogestionaria” possono combinarsi ed essere approntate anche propedeuticamente all'autogestione vera e propria.
    3) La lotta contro i processi di burocratizzazione e di riproduzione delle ineguaglianze (di genere, sociali, culturali, ecc.) deve essere esplicita e concretizzata da misure di sorveglianza, diritti di autogestione, mezzi concreti (mediatici e finanziari), ripartizione dei compiti più ingrati, rotazione delle responsabilità.
    4) L'autogestione è politica, nel senso che non basta formare una cooperativa, occupare un luogo dismesso, far ripartire una produzione. Occorre un progetto di fondo, anche intermedio, anche transitorio che permetta all'esperienza di durare nel tempo e traguardare le singole difficoltà. Il progetto si sostanzia nelle forme stesse dell'autogestione, nella sua democraticità, nella capacità di evitare gerarchie, ruotare le funzioni, sperimentare il potere dell'assemblea, la rotazione degli eletti.
    5) Propedeutica all'autogestione c'è la riappropriazione, concetto decisivo al tempo della lotta tra l'1% che ha tutto e il 99% che non ha nulla. Riappropriarsi è un diritto, una necessità storica, un passaggio formativo di nuova consapevolezza storica. È un atto politico rivendicabile, non solo a livello di fabbrica ma anche di spazi di socialità e di luoghi da recuperare alla produzione di reddito. È una forma di resistenza alla crisi, quindi un obiettivo transitorio che innesca un conflitto, una lotta, le conferisce il telaio dell'autorganizzazione e le propone la necessità di redigere un progetto politico che pone fin da questo momento il tema della proprietà.
    6) Senza un sostegno attivo ai processi di riappropriazione e recupero non c'è futuro. Una singola occupazione, una fabbrica recuperata, uno spazio di mutuo soccorso devono assolutamente collegarsi al mondo intorno a loro, costruire in nuce l'unità lavoratori/utenti, affermare la superiorità di processi democratici inclusivi e diretti, costruire senso collettivo attorno alle esperienze. Questo non è solo decisivo ai fini della resistenza, supportata dalla solidarietà concreta, ma è uno dei gangli del processo di formazione di una coscienza di classe all'altezza della fase. E costituisce un primo antidoto contro lo stritolamento dei meccanismi di mercato che è in agguato dal primo giorno dell'occupazione. La costituzione di Camere dell'autogestione va in questa direzione.
    7) Il sostegno, la solidarietà, le condizioni di base per resistere non si danno soltanto a livello di mutuo soccorso ma richiedono anche istituzioni, governi "permeabili" alla lotta e agli interessi di classe. Un processo di formazione di una nuova soggettività, ad esempio, non può essere indifferente all'ipotesi di un governo delle sinistre in Grecia prodotto da una lotta popolare o all'evoluzione dei governi di alternativa in America latina. La soggettività che a noi interessa non è un partito che si immette nel percorso elettorale. Ma il processo di affermazione di governi di alternativa in cui far avanzare il processo costituente di movimenti di autogestione e di trasformazione anticapitalistica è importante. Sapendo che nulla si conquista e si mantiene senza lotta, un passaggio della stessa può essere anche la possibilità di utilizzare gli spazi offerti da esperienze di governi di rottura, anche in forme spurie, in grado di favorire la dinamica dell'autorganizzazione e permettere il consolidamento di poteri popolari di tipo nuovo. In questo senso si definisce, oggi, il rapporto con la politica tradizionale.
    8) Il punto decisivo resta la potenzialità anticapitalista. È essenziale che le forme di autogestione cooperativa siano strettamente collocate nel quadro di una dinamica conflittuale, in sintonia con l’insieme delle lotte sociali, a partire dalle lotte del lavoro unitamente ai militanti sindacali combattivi: non si può isolare questa lotta, non possiamo smettere di pensare di essere parte di un fronte più complessivo di classe. Come potremmo strappare da soli una legge che consenta sul serio di espropriare le aree occupate per un loro utilizzo sociale? In una parola, come possiamo costruire i rapporti di forza sociali e politici per contrastare la dittatura del capitale e strappare qualche risultato? Solo in questa forma le cooperative autogestite e le sfere economiche fondate sulla solidarietà possono giocare un ruolo di coesione dei lavoratori e di prefigurazione della fine dello sfruttamento del lavoro da parte del Capitale, evidenziando le contraddizioni del sistema, soprattutto in un periodo di profonda crisi strutturale come l’attuale. Si tratta cioè di dar vita a forme di contropotere e di controsocietà.
    9) Non solo fabbriche. Se la bussola del cammino è l'autogestione, la difesa materiale degli interessi di classe, la ricostruzione di un programma di emancipazione sociale, il progetto politico non si limita solo al recupero delle fabbriche. Schematizzando, è importante recuperare qualsiasi attività economica e sociale. Qualsiasi elemento in grado di inserirsi in una Rete di Mutuo soccorso, non solo come rete di protezione materiale dalla crisi né come progetto para-sindacale. Ma come strumento politico che ambisce a riprogettare un percorso di liberazione. La rete di mutuo soccorso è fatta di fabbriche recuperate, di agricoltura biologica fuori mercato, di un nuovo rapporto tra la città e la campagna, di commercio alternativo e a sfruttamento zero, di autoproduzione culturale, di un groviglio di esperienza anche diverse tra loro ma comunemente orientate a un progetto politico.
    10) L'autogestione ha bisogno di un lavoro costante, non appaltato all'esterno né rimosso, di riflessione e approfondimento. Il libro di Ruggeri realizza questo scopo attraverso un lavoro decennale di ricerca sul campo che verifica i dibattiti teorici sull’autogestione con la loro esperienza concreta nelle fabbriche recuperate, scoprendo contraddizioni, problemi, caratteristiche e potenzialità non pensate o difficili da affrontare. Il suo utilizzo, che ci auguriamo possa estendersi alle varie forme di autogestione e di economia recuperata, serve a consolidare le esperienze esistenti, a fondarne di nuove, a tessere la rete estendendola e costruendo nuovi nodi, nuove alleanze. E a imparare dai successi e dagli errori delle esperienze esistenti, per elaborare ancora, con altrettanta profondità.

    L'autogestione, dunque, è tale se rimette radicalmente in discussione i diritti di proprietà del Capitale e lo statuto del lavoro salariato. In altre parole, se si propone di rovesciare il capitalismo. Molte esperienze cooperative (imprese, banche, commercio equo, ecc.) sono state soffocate e se si guarda a quello che è diventato il movimento cooperativo italiano c'è solo da piangere. In Italia siamo all'anno zero per cui anche un passaggio finalizzato all'intervento dello Stato per giungere a forme di “nazionalizzazione sotto controllo dei lavoratori”, appare lunare. Eppure, bisogna cominciare. L'esperienza esemplare della RiMaflow ha questo merito storico: aver cominciato, aver indicato una possibilità di recupero, fondando, non a caso, una rete politico-sociale come Communia Network (insieme ad altri collettivi ma fornendo, sulla base dell'esperienza, un progetto politico) e continuando a tessere una tela di rapporti internazionali e di sostegno a produzioni culturali come questo libro. La resistenza della Zanon ha svolto questo compito molto prima e su scala internazionale: anch'essa o sarà emblematica oppure è destinata a sparire simbolicamente, cioè politicamente.
    Non dobbiamo né possiamo nasconderci le difficoltà o le parzialità. Il processo ha limiti evidenti. Ma la direzione di marcia è illuminata dal convincimento che sia possibile accumulare forze proponendo soluzioni concrete, estendendo l'ambito del controllo pubblico e sociale sulla produzione con l'obiettivo di costruire un'altra società, libera, democratica e autogestionaria. Questo obiettivo non è possibile in una "sola impresa", così come non era possibile in un "solo Stato". Ma è possibile.

    Prefazione all'edizione italiana del libro di Andrés Ruggeri "Le fabbriche recuperate. Dalla Zanon alla RiMaflow. Un'esperienza concreta contro la crisi", Edizioni Alegre, pagg. 190, settembre 2014


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  • Italian
    03/10/14
    Autogestione e potere/i

     

    Questo contributo sulle questioni dell'autogestione come modo di resistenza e progetto di società vuole partire da una tensione che attraversa molti dibattiti passati/presenti: quella che sembra opporre diritti individuali e approcci complessivi - quindi questioni di potere. Partirò da una concezione dell'autogestione come principio o come diritto di base accordato a tutti i cittadini, uomini e donne, nella loro diversità: il diritto di partecipare autonomamente ai processi di produzione e di distribuzione delle ricchezze (beni e servizi) con i mezzi per controllarli pienamente, cercando nelle varie parti affrontate di superare i falsi dilemmi. Proporrò prima alcuni principi generali, poi un modo per integrare il "passato/presente", e infine metterò l'accento sulla centralità di una riformulazione strategica delle lotte autogestionarie a partire dai "Beni Comuni".

    I. Osservazioni generali e principi di base

    1. Potere individuale e collettivo

    a. Si tratta di un "potere" di decisione a monte e a valle del processo produttivo, che riguarda da un lato il che cosa produrre e come - secondo quali priorità, quali rapporti umani, quali condizioni sociali e ecologiche di produzione; ma anche il come questa produzione viene "appropriata" ossia le condizioni della sua distribuzione.
    L'evocazione qui degli aspetti a monte e a valle del processo produttivo indica che c'è una verifica dei risultati e che ci possono essere delle rettifiche necessarie, delle insoddisfazioni, tanto nelle condizioni di produzione quanto rispetto alla soddisfazione dei bisogni nel senso più ampio e inclusivo. Si tratta dunque di aprire il dibattito sul "come" rispondere a disequilibri e insoddisfazioni di tutti i tipi (materiali o più qualitativi) senza modelli dogmatici sui mezzi. Gli obiettivi emancipatori, autogestionari devono essere espliciti. Però è fondamentale riconoscere subito come "normali" gli scarti, le tensioni e i conflitti, cercando i mezzi per esprimerli e assorbirli, senza farsi illusioni sulla possibilità immediata di realizzare una società senza conflitti.

    b. Il "potere" autogestionario - concepito come diritto di controllo e decisione su tutto ciò che riguarda l'individuo, di ogni tipo - è "autonomo": è innanzitutto individuale. L'emancipazione non ha senso senza le libertà e i mezzi individuali in grado di pesare su tutte le scelte combinate che concernono l'individuo in questione. Ma ogni individuo ha lati diversi: oltre al suo genere, la sua età, la sua cultura, la sua nazione di origine; è anche implicato/a nella società in attività di studio, di produzione, di consumo, di partecipazione democratica a vari livelli ecc.
    Questa implicazione nella società non è "atomizzata" e puramente egoista - contrariamente a ciò che rappresenta l'homo-economicus individuale del modello neo-classico, anche se è giusto riflettere concretamente sugli "interessi" individuali che forgiano i comportamenti. Ma è altrettanto importante non idealizzarli (nella loro generosità) quanto il non sottovalutare le trasformazioni profonde dei comportamenti associati ad una "prassi" sociale, che riguardano sia il tipo di solidarietà che si prova verso le diverse communità di appartenenza, sia l'allargamento degli orizzonti di pensiero e di aspirazione associato all'esperienza, ai dibattiti pluralisti, all'incontro delle/gli "altre/i" - alle lotte autonome.

    c. La trasformazione (imprevedibile, complessa ma auspicabile) dei comportamenti in un senso altruista solleva la questione degli "stimoli" (materiali e immateriali) adeguati a un progetto di società socialista, che rispetti pienamente sia l'autonomia individuale che la soddisfazione solidale dei bisogni. Ho sottolineato precedentemente la necessità di pensare una tale società come non esente dai conflitti; ciò significa che la risoluzione fondamentale di questi conflitti, coerente con le finalità emancipatrici di tale società, deve articolare "fini e mezzi" in modo che i fini stessi diventino mezzi. In altre parole, i meccanismi di espressione e di superamento (provvisorio) dei conflitti devono essere basati sui diritti autogestionari e sulle libertà: la libertà di esprimere individualmente e collettivamente i bisogni non soddisfatti, le critiche sui rapporti di dominazione sottostimati o imprevisti; questa libertà è un "mezzo" che influisce sulla percezione degli obiettivi, modifica la coscienza individuale e collettiva e deve sfociare su procedure democratiche di gestione dei problemi incontrati. I conflitti espressi e i dibattiti danno evidentemente un peso essenziale (fino al diritto di veto) alle categorie sociali insoddisfatte o che si sentono oppresse - ma tocca all'insieme della società interessata trovare, a tastoni,(procedendo per rettifiche continue) le risposte.
    Il potere autogestionario è dunque insieme individuale e collettivo - l'emancipazione di ciascuna/o sarà la condizione dell'emancipazione di tutte/i, potremmo dire per prolungare il Manifesto Comunista.

    2. Niente "gerarchie" e rapporti di dominazione - ma responsabilità condivise

    a) Dal momento che ci si allontana dalla dimensione individuale (e da quella locale) si corre il rischio di cadere in una gerarchia nel senso di un rapporto di dominazione, di sfruttamento o anche nel burocratismo. Ci sono allora nei diversi campi coloro che decidono e coloro che eseguono, ma anche coloro che sono confinati nei compiti più ingrati etc. Questi rapporti, sotto le loro diverse forme - sfruttamento di classe, rapporti di oppressione nazionale, di genere, o altri rapporti di dominazione burocratica - devono ovviamente essere combattuti in modo esplicito in quanto contrastanti con le finalità e i diritti autogestionari. L'analisi concreta della comparsa e del mantenimento di tali rapporti rinvia al punto precedente: la società non sarà mai perfetta e senza conflitti. L'unico modo per garantire un senso (direzione e finalità) emancipatore all'organizzazione sociale è appunto da un lato garantire il diritto all'organizzazione e all'espressione pluralista dei conflitti d'una parte; ma anche esplicitare - in modo "costituzionale" - queste finalità questi diritti, per mettere al centro delle riflessioni i mezzi per "sorvegliare"e combattere ogni recrudescenza o ricomparsa di rapporti di dominazione.
    Però ogni divisione del lavoro se viene cristallizzata nel tempo, ogni specializzazione eccessiva, ogni disuguaglianza culturale durevole, può apparentarsi a una gerarchia; può persino essere valorizzata sul piano materiale o relazionale in vari modi. La rotazione e la condivisione dei compiti (compresi quelli domestici), la revocabilità degli eletti, la formazione permanente per ridurre le distinzioni tra lavoro manuale e intellettuale - la riduzione massiccia dell'orario di lavoro, che dovrebbe liberare anche tempo per la partecipazione alle attività di gestione democratica, nonché un controllo collettivo dei criteri di remunerazione che valorizzi/compensi preferibilmente i compiti ingrati: sono queste alcune misure che possono essere consapevolmente adottate per ottemperare ai fini emancipatori e quindi democratici evocati.
    Le differenze di reddito e i loro criteri devono far parte dell'analisi pubblica e delle scelte concordate. Nelle imprese di beni e di servizi l'organizzazione del lavoro deve riflettere questi obiettivi - con l'elezione dei responsabili sulla base delle competenze acquisite e anche delle relazioni di fiducia, e con lo strumento della revocabilità e del controllo: i mandati decisi in assemblea devono essere oggetto di bilanci e rettifiche.

    b) Bisogna però distinguere "gerarchia" e "responsabilità" nel quadro di una riflessione sull'organizzazione del lavoro e degli incentivi. Non tutte/i hanno voglia di essere "responsabili" diretti. C’è chi può aver voglia di concentrare la propria energia creatrice in attività ludiche e "fuori lavoro" - e contentarsi di un controllo da parte dei responsabili sotto forme e periodicità da decidere collettivamente in funzione dei campi da gestire. L'assunzione di responsabilità è, in sé, una fonte di difficoltà, certo, ma anche di valorizzazione e di interesse personale per un lavoro creativo. La remunerazione "a seconda del lavoro" non implica necessariamente di pagar meno un "lavoro semplice" senza grande qualifica rispetto a quello di una persona qualificata che assicura un'attività responsabile di direzione di una impresa o un servizio. Si possono anzi giustificare compensi per lavori ingrati che non si riescono a far sparire immediatamente.
    Anche qui l'analisi concreta e collettiva - in evoluzione - è necessaria: se da una parte la formazione permanente, lo studio, sono assunti finanziariamente dalla collettività, e dall'altra non manca il personale qualificato, le differenze di remunerazione dovrebbero essere ridotte. Lo stimolo alla responsabilità può essere la responsabilità in sé, con il prestigio sociale e conviviale che comporta. Gli incentivi materiali dovrebbero essere associati agli sforzi collettivi, collegati alla condivisione delle conoscenze e delle competenze, all'aiuto mutuo solidale e alla cooperazione - e non alla competizione individuale - : i guadagni di produttività così acquisiti dovrebbero essere associati ad una migliore soddisfazione dei bisogni e organizzazione del lavoro: la riduzione dell'orario e la riorganizzazione del lavoro (e del tempo libero) può essere pienamente integrata nella riflessione sulle forme di incentivazione che hanno tali finalità (1).

    c) "Osservatori" sulle disuguaglianze, di genere, di razza e altre, possono essere istituiti a diversi livelli e messi al servizio di associazioni e istituzioni democratiche. Devono consentire non un "appiattimento" delle differenze tra individui o una uniformazione dogmatica e normativa delle scelte ma anzi una grande diversità e flessibilità. Lo scopo degli osservatori sulle disuguaglianze e dei dibattiti pubblici è di impedire che le differenze si traformino in disuguaglianze e in rapporti di oppressione - in genere supportate da disequilibri materiali nell'accesso ai diritti riconosciuti). Inchieste realizzate periodicamente, analisi pluridimensionali (quantitative e qualitative) delle disuguaglianze, supportate da indicatori e sondaggi, devono essere pubbliche. Anche gli osservatori devono essere accessibili e contestabili da tutte le associazioni o istituzioni per esaminare un problema specifico.

    3. Democrazia diretta e/o rappresentativa - istituzioni democratiche socializzate

    Non bisogna escludere nessuna forma di rappresentanza ma correlare ognuna di esse a un obiettivo, criteri espliciti e bilanci periodici. La critica concreta al parlamentarismo nelle società capitalistiche non può essere separata dall'analisi dei rapporti di classe e delle disuguaglianze così come dall'analisi dei rapporti di produzione/distribuzione che condizionano e limitano la democrazia politica rappresentativa. Una democrazia autogestionaria socialista non si ferma mai alle porte delle imprese e si occupa di tutti gli aspetti di base della vita sociale. Le forme di controllo diretto o quelle sociali specifiche (camere ad hoc dotate di diritti specifici di veto per esempio) possono essere articolate in forme "parlamentari" di rappresentanza dei cittadini in generale.
    "La politica" deve assumere un senso più ampio - associato alle grandi scelte di società e ai mezzi per soddisfarle - e non essere più l'appannaggio di partiti o di un apparato di Stato separato dalla società; deve penetrare tutte le sfere pubbliche (e l'arrivo sulla scena pubblica di una questione "privata" dipende dall'emergere di una insoddisfazione maggiore e condivisa, o di un rapporto di oppressione, denunciato dalle/gli interessate/i).
    Però bisogna approfondire il dibattito sulle istituzioni - in particolare con gli anarchici. La critica del parlamentarismo non implica necessariamente che bisogna sopprimere i parlamenti; così come la critica del ruolo della moneta e dei rapporti mercantili dominanti nel capitalismo non significa che si possa fare a meno di ogni forma di moneta o di mercato. Lo stesso vale per i partiti, i sindacati, le associazioni e altre istituzioni che non sfuggono alla burocratizzazione: la lotta contro la burocratizzazione passa per la soppressione di queste istituzioni? Le reti e la democrazia diretta non sono esse stesse soggette ai rapporti di potere (non codificati e non controllabili)? Mentre non è impossibile combatterli coscientemente dentro i partiti, i sindacati, le associazioni. Infine, possiamo trattare le istituzioni organicamente connesse alla difesa repressiva dell'ordine borghese (l'esercito, la polizia, la Nato...) alla stessa stregua del le istituzioni di tipo parlamentare o l'ONU? L'analisi critica necessaria di queste ultime nel contesto capitalista non implica necessariamente che verranno abolite in futuro.
    Insomma bisogna distinguere le istituzioni che dovranno sparire con l'ordine capitalista, quelle che saranno radicalmente ricomposte e quelle che potranno essere inventate e messe al servizio della democrazia diretta - che deve prevalere in ultima istanza. Affrontando il dibattito su "i mezzi e i fini" in modo non dogmatico ma basato sull'esperienza, bisognerà anche pensare al "deperimento dello Stato" in quanto organo repressivo di classe, o al di sopra delle società e del mercato, con una combinazione delle trasformazioni radicali e di "socializzazione" (controllo sociale) di tutte le istituzioni - ivi compreso il piano, il mercato, la moneta, così come le diverse forme di proprietà e di associazione.

    II. Superare i falsi dilemmi, incorporare i frutti dell'esperienza

    1. Lotte autogestionarie nel/contro il capitalismo - e sistema autogestionario globale

    Bisogna opporre le une all'altro? Si e no.
    Si, perchè la dimenticanza (o la sottostima) del potere capitalista reale nelle sue declinazioni istituzionali e socio-economiche, come costrizione fondamentale che limita i diritti e i rapporti autogestionari, conduce a delle impasse controproducenti. L'incorporazione dentro il capitalismo, la perdita di sostanza dello "spirito" iniziale di certe cooperative, l'auto-sfruttamento dei lavoratori - e parallelamente l'approccio negativo delle resistenze non autogestionarie considerate come non sovversive - sono difetti o rischi reali. Gli stessi si possono ritrovare quando manca l'analisi critica dei finanziamenti diretti verso le micro-imprese e le famiglie sfavorite, presentate eventualmente dalla Banca mondiale come "soluzione alla povertà" orientate al "workfare" e l'autoimpiego, ma che sono delle trappole: tassi d'interessi da usurai e scivolamento in una povertà e una dipendenza senza fine.
    L'autogestione nel capitalismo è così difficile da applicare che a volte è più pertinente rivendicare (come l'hanno suggerito alcuni lavoratori argentini) la nazionalizzazione sotto controllo operaio. Se no si rischia di concentrare l'attenzione su dei casi molto marginali o eccezionali e di rinunciare a delle lotte che sono essenziali in difesa dei lavoratori e dei loro diritti ma che non possono prendere forme autogestionarie o cooperative all'interno di certe imprese. (tornerò dopo su altre potenzialità da non trascurare). Il capitalismo impone la sua coerenza di "diritto di proprietà" e esige di poter "vendere" i prodotti - di essere o autosufficiente o assistito per sopravvivere. L'autogestione di territori e comuni agricoli, le piccole produzioni mercantili, i prodotti che hanno una clientela popolare, sono degli esempi più favorevoli a delle lotte autogestionarie/cooperative. Ma le imprese multinazionali hanno imparato a compartimentare la loro produzione e a delocalizzare "reparti" o a esternalizzarli, a spezzare la coerenza del processo di produzione locale: vendere un pezzo di un motore non ha un "senso" autogestionario...
    No, perché l'attesa del "Grande evento" della rivoluzione per esperimentare delle alternative abbozzate sotto /contro il capitalismo sarebbe un altro suicidio; perché anche dei casi parziali possono diventare popolari e dimostrare altre possibilità; perché infine la lotta contro la burocratizzazione delle esperienze rivoluzionarie sarà più efficace se il nuovo potere si radica dentro le esperienze di auto-organizzazione/autogestione più possibili spinte in avanti. Si tratta anche di una componente del rapporti di forza sociali e ideologici contro il capitalismo, una base di contro-egemonia che contesti i criteri dominanti.
    Però la coscienza dei limiti imposti dal capitalismo può essere un fattore di radicalità dell'esperienza: deve essere permanentemente esplicitata e sviluppata - per radicalizzare le esigenze, per non accettare come "ideali" i rapporti sociali molto impregnati dalle logiche dei rapporti monetari e di concorrenza mercantile, per cercare ad ogni costo i legami esterni- territoriali, sociali, internazionali- - che aiutino a resistere e a pensare diversamente.

    2. Il passato/presente

    Bisogna certo reinventare il linguaggio delle lotte all'orizzonte delle esperienze attuali - fortunatamente non è necessario conoscere e condividere il bilancio delle esperienze passate per combattere il sistema capitalista e impegnarsi a costruire un'alternativa. Eppure, lungi dal denigrare l'esperienza passata globalmente presentata come fallimentare, è anzi essenziale incorporarne le lezioni come "nostre": l'atteggiamento di molti militanti e intellettuali antistalinisti che rigettano in blocco il "socialismo reale" presenta il pericolo paradossale di fare il gioco di chi rifiuta in blocco il comunismo, facendo del capitalismo l'unico orizzonte di pensiero e di esperienza possibili.
    Lo scarto tra il "socialismo reale" e gli ideali di emancipazione socialisti e autogestionari non deve essere pensato come qualcosa di "esterno" all'esperienza anticapitalistica. Anzi: la cristallizzazione burocratica staliniana è certo "eccezionale" nella sua dimensione totalitaria e nel ruolo che lo stalinismo ha avuto nel movimento operaio internazionale; ma il burocratismo è un problema "organico" del movimento operaio (politico, sindacale, associativo) durante il capitalismo e dopo la presa del potere. Non comprenderlo vuol dire erigere a "nuova classe" o semplicemente a "borghesia" (quindi esterna al movimento operaio) un problema innanzitutto endogeno, che dobbiamo saper affrontare nei nostri propri ranghi... Un problema che minaccia ogni organizzazione rivoluzionaria pur antistalinista o anarchica che sia.
    Dire ciò non significa che non si analizzi il processo burocratico che può tendere verso la cristallizzazione di una nuova classe o borghesia e che possa avere relazioni di interessi comuni (e di conflitto) con la "borghesia realmente esistente" e il suo sistema. Però impone da un lato una più grande profondità autocritica del movimento rivoluzionario (ivi compreso il riferimento alla fase pre-staliniana della rivoluzione russa), e sopratutto di analizzare tutta una serie di conflitti e di contraddizioni come problemi "nostri", che qualsiasi esperienza rivoluzionaria dovrà risolvere. Questo approccio di riappropriazione dell'esperienza passata è particolarmente importante per quanto riguarda la rivoluzione yugoslava,: una rivoluzione sociale e politica in cui un partito comunista (dopo la stalinizzazione dell'URSS) è forza dirigente che induce l'autogestione generalizzata per la prima volta nel mondo. L'approccio dogmatico verso questa esperienza qualificata come "capitalismo di Stato" conduce al non analizzare come "problemi nostri" la difficoltà di organizzazione di un sistema di autogestione - e a rigettare come non interessanti le elaborazioni delle correnti marxiste autogestionarie e critiche: non c'è niente da imparare da tutto ciò poiché si tratta di capitalismo (un capitalismo staliniano) e le critiche interne sono al meglio delle coperture riformiste di un sistema che è globalmente da rifiutare.
    Contro questi comportamenti intellettuali e politici non possiamo naturalmente pensare che l'esperienza yugoslava possa giocare oggi un ruolo diretto nella coscienza larga dei nuovi movimenti sociali di resistenza al capitalismo - non più tra l'altro della Rivoluzione d'ottobre o della Comune di Parigi: sono ormai esperienze di un passato remoto. Però contano per la formazione e la riflessione politica.

    3. Alcuni contributi dell'esperienza yugoslava

    I principali contributi della Scuola di Praxis (corrente marxista che ha condotto la battaglia nel quadro del sistema autogestionario, criticandolo in nome degli ideali comunisti) avanzati contro le riforme mercantili degli anni 1960:

    a) Proprietà sociale - contro il dilemma "proprietà nazionale statalizzata o autogestione impresa per impresa" (collegate tramite il mercato e con le banche che gestivano il surplus): la socializzazione della proprietà resiste sia all'alienazione dell'autogestione da parte dello Stato che da parte del mercato. Trasfoma l'autogestione in diritto di gestione di questa proprietà a una scala di società - e non solo di impresa. Certo essa è "di tutti e di nessuno" (si dice a volte per criticare l'assenza di criteri e di meccanismi precisi di gestione) - ma è un soggetto aperto all'esperienza, alla riflessione e al dibattito che riprenderò più tardi a proposito della nozione dei "Commons" (o Beni comuni). Le proposte espresse dalla corrente di Praxis e in parte riprese negli emendamenti alla Costituzione del 1974, redatti da E. Kardej, sono passi in avanti nella risposta a questa questione. Li riassumo nei punti seguenti.

    b) Le "SIZ" (acronimo serbo croato) o "Comunità d'interesse autogestionarie" che associavano produttori, utenti del prodotto o servizio dato: queste Comunità stabilite per la gestione dei servizi di sanità, educazione, asili nido, trasporto pubblico, territoriale a vari livelli, autogestivano quindi un bilancio comune e il modo in cui produrre un bene comune - in particolare un servizio. E' il superamento necessario di un approccio puramente centrato sulla produzione e che permette agli utenti di fare pressione sulla qualità e l'organizzazione del servizio, attraverso l’interlocuzione con i lavoratori di questo servizio. La SIZ poteva integrare anche rappresentanti dei poteri pubblici del livello considerato e associazioni o sindacati.

    c) Le camere di autogestione a diversi livelli territoriali. Queste camere ad hoc che furono introdotte in pratica nella Costituzione del 1974 solamente a livello dei comuni e delle repubbliche, avrebbero avuto una pertinenza importante sul piano federale per allargare l'orizzonte di gestione in un approccio articolato dei bisogni di un determinato territorio. La composizione di queste Camere doveva permettere i legami con i diversi centri di produzione di beni e servizi autogestiti sul territorio; poteva combinare forme di delega dei lavoratori, degli utenti, sindacati, differenti associazioni socio-economiche: possiamo immaginarci l'interesse di un approccio ecologico, femminista ecc. Queste camere erano ovviamente articolate sull'ultimo aspetto della "mutualizzazione" dei diritti autogestionari: la pianificazione.

    d) la pianificazione autogestionaria; può essere concepita a diversi livelli territoriali con modalità di coordinamento. In essenza punta a realizzare più dimensioni evocate riguardanti la natura dello statuto/dei diritti autogestionari/o.

    * I diritti individuali di decisione e controllo autogestionari non devono essere il frutto casuale di un lavoro in una impresa o in un servizio particolare: tutti/e coloro che sono coinvolti/e nella produzione e nella gestione di un bene o servizio possono pronunciarsi (priorità, ripartizione dei finanziamenti, criteri, ecc): tutti i membri della società possono essere implicati nelle procedure di discussione della pianificazione autogestionaria - e si può concepire un crogiuolo specifico di riflessione e di elaborazione nel quadro delle Camere, basate sulle rappresentanze di collettivi, anche se le grandi scelte vengono in seguito sottoposte ai cittadini.

    * Reciprocamente, non è giusto che i problemi incontrati in una impresa o in un settore particolare sia solamente a carico delle/i lavoratrici/ori di questa impresa: queste/i ultime/i hanno la responsabilità prima nelle scelte di gestione della loro impresa. Ma queste possono dipendere dalle scelte della società (produrre o no il nucleare, assicurare un equilibrio di lavoro e di attività su un piano regionale, assicurare la conversione ecologica dei trasporti, ecc..) e di un principio di rifiuto della disoccupazione.

    * Oggi va da sé che la pianificazione autogestionaria deve incorporare i diritti sociali e allo stesso tempo obiettivi di riconversione radicale della produzione in funzione di finalità ecologiche. (3)

    4. I diritti sociali vanno in parte dissociati dal lavoro - ciò può essere fatto nel quadro di un approccio transitorio anticapitalista verso una società autogestionaria.

    L'esperienza yugoslava autogestionaria si è scontrata con una contraddizione e un fallimento maggiori: l'incompatibilità di un sistema di diritti autogestionari legati al lavoro con le esigenze di ristrutturazione del lavoro e del pieno impiego. La "disoccupazione socialista" che ha conosciuto la Yugoslavia deve essere analizzata come tale e non con i concetti e i criteri di una società capitalista. E' di nuovo il "nostro problema", uno dei problemi essenziali da risolvere in una società socialista e non la prova che la Yugoslavia di Tito era capitalista.
    Per risolvere questi problemi bisogna affermare simultaneamente: il diritto al lavoro (distinto da un lavoro specifico) e la rimessa in discussione radicale del rapporto di dominio e (quindi dello statuto) del salariato: quindi dei diritti associati allo statuto di autogestionario quindi al controllo dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori/utenti essi stessi. La rimessa in discussione del rapporto salariale come rapporto di dominio della proprietà capitalista non significa la fine del "reddito" monetario (chiamato così per distinguerlo dal salario) associato al lavoro; non significa neppure il rifiuto della flessibilità necessaria nel lavoro (a condizione che sia ricercata dai lavoratori): si può voler cambiare il posto di lavoro e l'organizzazione del lavoro ma si può anche desiderare la permanenza del posto di lavoro. Ciò riguarda sia scelte individuali che collettive: la riorganizzazione del lavoro può essere socialmente fondata o contestata come uno spreco o in funzione di tale o tale aspetto negativo che implica delle riconversioni.
    La compatibilità di questi obiettivi simultanei implica che le riconversioni vengono assunte socialmente, collettivamente (quindi organizzate) e che i redditi e i diritti sociali di base (protezione della salute, diritti alla formazione permanente su tutta la durata della vita, protezioni familiari, ecc) non vadano persi quando si cambia attività. Si può anche pensare ad una nozione di lavoro (sociale) o di attività sociale nel senso ampio riconosciuto dalla società che integri il tempo della formazione (che può essere distribuito lungo tutta la vita), il tempo necessario per le attività democratiche di gestione, il tempo consacrato alle attività domestiche e di cura dei bambini, ecc. Il reddito di base e i diritti sociali possono essere associati a questa "attività sociale" che può passare da un lavoro all'altro - o a una formazione, o ancora ad un altro compito collettivamente riconosciuto.
    Questi problemi si pongono anche nelle lotte anticapitalistiche, contro la precarietà imposta che punta (dal punto di vista capitalistico) a ridurre i benefici sociali versati. Bisogna al contrario elaborare un codice del lavoro (con i giuristi del lavoro) che sopprima lo "stimolo" capitalistico della precarietà: questa deve costare (in termini di protezione sociale) al padrone quanto un lavoro non precario... La lotta anticapitalistica sul piano sociale e ideologico deve rimettere in discussione il trattamento disumano dei lavoratori come merci scartabili (per comprimere i costi): un "diritto" di proprietà e uno statuto sociale alternativo deve essere abbozzato contro il diritto borghese, per delegittimarlo. Però si tratta di una battaglia complessiva che si scontra con i pieni poteri istituzionali, militari, giuridici, economici del capitale a vari livelli. Il "contratto" di lavoro è evidentemente profondamente distorto e disuguale rispetto a questi diritti di proprietà giuridici e reali del capitale. Bisogna contestare questi diritti. Dei passi in avanti sono possibili.
    Però è chiaro che una delle trasformazioni radicali che punta a permette la presa del potere rivoluzionaria è di stabilire una nuova Costituzione da parte di una assemblea costituente: questa dovrà cambiare "le regole del gioco", i diritti sociali di base, gli statuti degli esseri umani. E' li che devono essere concretizzate e difese le finalità autogestionarie, nelle modalità in cui saranno state abbozzate dalle esperienze parziali.

    III. Riformulazioni strategiche della battaglia autogestionaria. I "Beni comuni" questione strategica, dal locale al planetario...

    1. Ogni periodo storico deve trovare i propri riferimenti e le proprie "parole" per dire i nuovi progetti che si dissociano delle sconfitte passate senza spezzare i legami di continuità con le grandi lotte emancipatrici e le utopie concrete. Il problema principale è quello del rapporto di forza in grado di stabilire una contro-egemonia rispetto a quella dominante, appoggiandosi su "blocchi storici" di resistenza.
    Non si possono pensare un'alternativa al mondo attuale, "comunista" nei fatti, e una strategia autogestionaria, basandosi su quello che fu il "comunismo reale", che non è un modello. Ma la semplice accumulazione di esperienze parziali profondamente costrette e soffocate da un ambiente circostante ostile porta ugualmente ad un'impasse, una via poco credibile in cui gli sforzi militanti rischiano di esaurirsi rapidamente.
    Non per questo bisogna rinunciare. Però non bisogna mettere in opposizione cammini multipli e apparentemente contradditori (particolarmente difficili da riconciliare quando le forze sono poche). A prescindere dalle difficoltà, dobbiamo tenere insieme passato/presente, individuale/collettivo, locale/planetario e agire di conseguenza cercando di padroneggiare queste tensioni.

    2. La questione dei "Beni comuni" ci aiuta in ciò - nella riformulazione, con parole "nuove", di vecchie e durevoli utopie "comuniste" – ma anche nella comprensione dei fallimenti passati. Permette di allargare i terreni e i temi di mobilitazione, in un'ottica autogestionaria nel senso ampio definito prima: utenti e produttori, a diversi livelli territoriali, e articolando esplicitamente un rifiuto di statuti sociali disumani. Il tema dei "beni comuni" esprime l'esigenza del XXI ° secolo di diritti sociali universali fondamentali integrandovi l'esigenza della co-proprietà, la piena responsabilità delle ricchezze umane prodotte, la co-solidarieetà nella protezione dell'ambiente. Non si tratta di astrazioni ma di questioni concrete.
    La nozione dei "Commons" (in inglese) o "beni comuni" emerge sempre di più sia nelle ricerche teoriche (4) - come quella di Elinor Ostrom sulle comunità indigene - sia nelle esperienze orientate alla gestione democratica dei beni naturali - come l'acqua o la terra - o dei beni (materiali o immateriali) creati dall'attività umana. Queste riflessioni che si diffondono attualmente su tutti i continenti nei movimenti di resistenza si ergono contro le interpretazioni neoliberiste che hanno cercato di dimostrare che solo la proprietà privata dei beni genera una gestione efficace. La "tragedia dei beni comuni",(5) articolo scritto da Garrett Hardin nel 1968, associava così ad ogni proprietà collettiva una supposta inefficienza organica. Questa "tragedia" sarebbe dovuta alla "deresponsabilizzazione" che ogni proprietà sociale comporterebbe ("di tutti e di nessuno", come si diceva in Yugoslavia) visto che ognuno rinvierebbe ad altri il compito di prendersi cura della proprietà comune. E molte critiche liberali dell'esperienza yugoslava, e più in genere del "socialismo reale", hanno messo l'accento sui comportamenti reali di spreco o di assenza di manutenzione dei beni pubblici, illustrando in effetti questa "tragedia". Eppure non è fatale e le sue cause stanno al centro della riappropriazione che dobbiamo fare di un bilancio critico di questo passato: l'assenza di responsabilità degli autogestionari, dei lavoratori e degli utenti della proprietà collettiva, teoricamente "proprietari" ma praticamente subordinati alla gestione da parte del partito/Stato a nome dei lavoratori, alle loro spalle.
    Ma non vi è niente di fatale e le esperienze studiate da Elinor Ostrom consentono di estrapolare criteri che entrano in sintonia con le osservazioni fatte prima: i comportamenti irresponsabili possono essere padroneggiati se emergono quelle che si potrebbero chiamare, riprendendo il vocabolario yugoslavo evocato prima, le "comunità d'interesse autogestionarie" che decidono i criteri stessi della gestione e ne controllano l'applicazione. Questa idea generale può estendersi a vari livelli di applicazione. Implica che tutte le persone interessate nella gestione di un determinato bene siano responsabilizzate nella determinazione delle scelte, nel loro controllo, nel loro riaggiustamento a vari livelli territoriali.
    Certo, c'è bisogno di un'analisi concreta delle situazioni concrete. I problemi di gestione non sono gli stessi se il bene da gestire è "divisibile" e materiale (come una terra o delle risorse naturali di acqua o di energia) e esauribile; o se diventa meno costoso produrlo a misura che tutte/i ne fanno uso individuale - senza che ciò ne impedisca l'uso collettivo: anzi la soddisfazione di ognuno/a aumenta, per esempio con un software libero gestito collettivamente. Le caratteristiche della "proprietà intellettuale" sulle conoscenze scientifiche e mediche, o culturali, sottolineano che la privatizzazione è controproducente per l'interesse collettivo. Ma possiamo anche dimostrare articolazioni positive tra l'interesse individuale e collettivo trovando stimoli e modi di gestione adeguati alle imprese autogestite, ai servizi pubblici, o a una "comunità di società" tutta intera (in una regione, prima di prendere un potere ancora più ampio..). Detto in altre parole la "gestione dei Commons" consente anche di articolare la riflessione e l'azione delle lotte dentro e contro il sistema capitalista, inventando concretamente altri "possibles" (potenzialità storiche) che non possono trovare la loro coerenza e efficacia senza sollevare la "questione del potere" e quindi dei diritti riconosciuti.

    3. Cogliere il senso strategico delle privatizzazioni generalizzate del XXI° secolo

    L'esperienza del capitalismo attuale dimostra che nessun bene naturale, nessun prodotto, ma neppure nessun essere umano o pezzo di essere umano è di per sé protetto dalle minacce di appropriazione predatrice individuale del "brevettaggio" capitalistico. La privatizzazione attraverso "l'esproprio" è stata denunciata da David Harvey come nuova fase e moltiplicazione delle nuove "enclosures" (evocando i recinti associati alla privatizzazione delle terre in Inghilterra nel 16° e 17 secolo). Questa nuova ondata predatrice che segna la fase neoliberista del capitalismo finanziario dagli anni 1980, si è estesa in tutte le sfere e le regioni del mondo articolandosi sulle caratteristiche di base della "riproduzione allargata" del capitale in funzione del maggiore profitto.
    Questa logica si è imposta prima nel cuore stesso dei paesi imperialisti sotto lo slogan TINA (There Is No Alternative) di Margaret Thatcher, con la distruzione dello Stato sociale e le ondate di privatizzazioni: queste continuano contro le protezioni collettive del codice del lavoro e tutto ciò che non è ancora stato privatizzato, in corrispondenza alle varie fasi della crisi, in particolare in Europa. Questa distruzione sociale si appoggia in questo continente sulla distruzione del vecchio regime del "Socialismo reale" attraverso la privatizzazione forzata di intere industrie e cooperative agricole, accompagnata dalla trasformazione del ruolo della moneta e del mercato. Parallellamente tutte le risorse naturali dei Paesi del Sud, che erano state nazionalizzate con la decolonizzazione, sono diventate preda delle multinazionali sotto pressione del FMI e dell'OMC. C'è quindi una posta specifica e storica nelle privatizzazioni del XXI° S. - con le sue dimensioni dogmatiche neoliberiste appoggiate da istituzioni potenti, le cui dimensioni antisociali sono combinate con una crisi ambientale maggiore: gli "espropri" combinati alla distruzione di ogni forma di protezione sociale collettiva dei lavoratori sono una realtà di questo capitalismo globalizzato a partire dalla svolta neoliberista dell'ultimo quarto del secolo precedente. Rispondendo a una crisi del profitto e dell'ordine mondiale capitalistico questo corso neoliberista è stato accentuato radicalmente con il ribaltamento del 1989-1991 dell'unificazione tedesca e con lo smantellamento dell'URSS. Questi attori (politici, finanziari, ideologici) assumono oggi più esplicitamente le caratteristiche dogmatiche "dell'ordo-liberisme" che impone le sue regole attraverso istituzioni forti radicalmente contradditorie con ogni democrazia, tanto gli effetti delle sue politiche sono distruttori dei diritti sociali e dell'ambiente. La mondializzazione di queste logiche antisociali, antiambientali e antidemocratiche è accompagnata da rivoluzioni tecnologiche che trasformano le relazioni mondiali di produzione e di distribuzione - ciò che rende spesso impotenti le resistenze puramente locali.

    4. Risposte autogestionarie in difesa dei Commons, dal locale al planetario

    Però queste trasformazioni creano anche una mondializzazione dei legami e delle resistenze. Certe questioni fondamentali sono diventate veramente planetarie - la crisi ecologica in primo luogo; ma anche i problemi della fame, della povertà, dell'accesso all'acqua o all'educazione, alla sanità o alla casa - diritti fondamentali acquisiti con le lotte del XX° S che sono rimessi in discussione. E' per questo che bisogna intraprendere la battaglia per la delegittimazione politoco-morale di questo processo di "esproprio", trasformare le rivolte in battaglie collettive ancorate nei "beni comuni" associati ai diritti: il diritto all'acqua, alla casa, alla cultura, alla salute, all'educazione - a un reddito e a uno statuto "degno".
    Questi diritti si scontrano con la distruzione delle risorse fiscali degli Stati - un altro "bene comune" così come la moneta in quanto bene pubblico: la trasparenza dei conti e la subordinazione delle finanze al controllo pubblico, sociale, devono essere imposti anche nella lotta contro il salvataggio delle banche private da parte degli Stati sulle spalle dei contribuenti e in quella contro i crediti tossici delle banche che intrappolano i Comuni impoveriti o le famiglie precarizzate. I diritti di base si scontrano anche con le speculazioni finanziarie sulle materie prime, l'acqua, l'immobiliare, i prodotti agricoli; si scontrano con i comportamenti e i discorsi supposti "responsabili" delle aziende multinazionali ipocriti e tentacolari come Vivendi o Nestlé, protetti da potenti istituzioni e accordi di "libero scambio" mentre privano milioni di contadini poveri o di abitanti dei quartieri poveri dall'accesso all'acqua.
    La sensazione di urgenza della crisi sociale e ambientale, la rivolta contro l'ingiustizia, la percezione crescente degli interessi sociali confliggenti , dal piano locale al mondiale, si sono espressi in particolare nella conferenza Rio+20 durante la quale il termine "commons" è diventato un punto di raccordo, espresso nel titolo stesso del "Vertice dei popoli per la giustizia sociale e ambientale in difesa dei beni comuni". I coordinamenti tra lotte sociali, nazionali, continentali e planetari esistono anche nelle battaglie in corso contro gli accordi di libero scambio transatlantici.(6) Una stessa logica è presente nelle lotte che vogliono imporre la subordinazione del diritto alla concorrenza difeso dall'OMC, dal FMI (o dalla Commissione europea,..) ai diritti etici superiori riconosciuti nella Dichiarazione universale dei diritti umani che l'ONU dovrebbe difendere. Certe battaglie sono state vittoriose contro il diritto alla concorrenza dentro l'Unesco in difesa dei beni culturali, o ancora con l'Oms in difesa della salute contro l'OMC. Le sovvenzioni in difesa dei diritti sociali e ambientali si oppongono a quelle che sostengono le aziende agro-esportatrici; questi conflitti sono espressi dai Senza Terra brasiliani e portati avanti dalla Via Campesina in lotte mondializzate che mettono oggi l'OMC in crisi - ma con il pericolo immediato di accordi bilaterali distruttori.
    Separare il locale dai problemi internazionali è un impasse mentre tali accordi condizionano strettamente ciò che possono essere i diritti sociali delle imprese, i criteri di sovvenzione e i mezzi di resistenza contro la predazione delle aziende multinazionali. Reciprocamente le lotte "globali" avranno una portata e un peso solamente appoggiandosi sui rapporti di forza costruiti nelle mobilitazioni di massa delle popolazioni locali, nazionali - stimolate da vittorie parziali, resistenze multiformi che si collegano tra di loro. Nuovi "spazi pubblici" di contro-poteri, di contro-egemonia, d'invenzione di nuovi diritti e di nuovi possibili scenari devono emergere dentro/contro il capitalismo globalizzato, collegati dal locale al planetario, attraverso internet e gli incontri solidali.
    La (ri)conquista dei"Beni comuni" si farà allo stesso tempo contro i nuovi predatori e contro la gestione tecnocratica o statale passata; la difesa della "dignità" come uno dei "Beni comuni" associata ai diritti di base, deve implicare una pluralità di attori tra cui gli "esclusi" o precari del mondo del lavoro. Questa questione, associata alla ricomposizione di un tessuto associativo e della vita comune (lavoro, consumo, tempo libero, formazione,..) passa per la difesa dei diritti umani e di uno statuto degli esseri umani in quanto co-gestionari delle ricchezze esistenti, oggi in mano dall'1% che gestisce il pianeta.

    ------------------------------------------------------------------------------------------------

    (1) All'inizio degli anni 1960 un "Grande dibattito" attraversava i Paesi dell'Est su quali riforme introdurre per amigliorare la qualità e l'efficacia delle produzioni. Parecchi economisti difendevano l'ampliamento dei meccanismi di mercato e dei stimoli monetari. Ci furono scambi di idee importanti a questo proposito tra Che Guevara, Ernest Mandel (dirigente della 4a Internazionale) e Charles Bettelheim. Quest'ultimo difendeva piuttosto le riforme di mercato, Che Guevara vi si opponeva, considerando che rischiavano di smantellare il carattere solidale della produzione - ma si rivolgeva quindi verso la pianificazione di tipo sovietico. Ernest Mandel, appogiandosi sui dibattiti in corso nella sinistra marxista yugoslava (dentro un'ottica di pianificazione autogestionaria) preconizzava gli stimoli che spingevano alla cooperazione e non alla concorrenza mercantile, convergendo su questo punto con l'ottica del Che, pur criticando l'esperienza sovietica . http://www.ernestmandel.org/fr/ecrits/txt/1965/le_grand_debat_economique...

    (2) Vedere “la dialectique des fins et des moyens” http://www.europe-solidaire.org/spip.php?article7509

    (3) Vedere http://www.europe-solidaire.org/spip.php?article29445 : “Des dégâts du productivisme à la planification démocratique autogestionnaire”

    (4) Vedere http://blog.mondediplo.net/2012-06-15-Elinor-Ostrom-ou-la-reinvention-de...

    (5) The Tragedy of the Commons articolo di Garrett Hardin, "Science", 13 dicembre1968.

    (6) Vedere i dossier di Le Monde Diplomatique http://www.monde-diplomatique.fr/2013/11/WALLACH/49803

    Communia network, 23/09/2014
    Contributo inviato da Catherine Samary dell'Association pour l'autogestion francese per il dibattito sull'autogestione tenutosi il 19 settembre 2014 al CommuniaFest, Roma.

    Catherine Samary
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  • Italian
    29/09/14

    La costituzione venezuelana adottata nel 1999 ha attribuito un posto preponderante alla partecipazione popolare. Sul piano economico e sociale, nell’articolo 184, si facilita l’azione delle istanze di cogestione, di autogestione attraverso la «partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese pubbliche» e la «gestione delle imprese in forma cooperativa e di imprese comunitarie di servizio per favorire l’impiego» e «ogni forma associativa guidata da valori di mutua cooperazione e di solidarietà» [1]

    L’economia sociale e lo «sviluppo endogeno» figurano tra gli assi prioritari del governo bolivariano E’ in questo spirito che la legge sulle cooperative viene promulgata nel settembre 2001. Se in un primo tempo i suoi effetti saranno limitati, le cooperative conosceranno un vero e proprio slancio a partire dal 2004 con la messa in opera del nuovo modello di sviluppo definito da un punto vista strategico come «endogeno». Tra il dicembre 2004 e il maggio 2005, più di 250.000 persone saranno formate ai valori del cooperativismo. Nel settembre 2004 il governo creerà il ministero dell’Economia popolare (MINEP) per istituzionalizzare il programma Vuelvan Caras, promuovere i Nude (Nodi di sviluppo) e coordinare il lavoro degli istituti di credito. Le cooperative saranno considerate una componente essenziale di «un modello economico orientato al benessere collettivo piuttosto che all’accumulazione del capitale» (MINEP 2005).

    Questo volontarismo politico darà dei rapidi risultati ma nello stesso tempo mostrerà dei limiti. Da un totale di 800 cooperative e 20.000 soci nel 1998 si passerà a 260.000 cooperative e a un milione e mezzo di soci nel 2008. Nella grande maggioranza dei casi, le cooperative saranno delle piccole unità e una parte di esse andrà rapidamente a rotoli. I risultati della gestione saranno ugualmente tenuti sotto osservazione e alcune imprese capitalistiche approfitteranno del quadro normativo per costituirsi in cooperative. Sunacoop, l’organismo incaricato di supervisionare le cooperative, dovrà adoperarsi per risanare il settore. Il magistrale sviluppo tende ad andare di pari passo con una grande dipendenza nei confronti dei mercati dello Stato e dei comuni. La convivenza col movimento cooperativo tradizionale, più autonomo, risulterà complicata [2]. Dal 2007, a partire da queste constatazioni, lo sviluppo delle cooperative cesserà di essere una priorità per il governo.

    «Politiche pubbliche e cooperativismo venezuelano»

    Uno studio universitario realizzato da Héctor Lucena et Dioni Alvarado pubblicato nel 2013 analizza la complessità dello sviluppo cooperativo avviato nel quadro del processo politico bolivariano negli anni dal 1999 al 2013; la discussione verte particolarmente sulle ripercussioni delle politiche pubbliche e sulla loro incidenza sull’autonomia del movimento cooperativistico [3].

    Gli autori ricordano che se le associazioni delle cooperative hanno partecipato al processo costituente e alla redazione della nuova Costituzione adottata nel dicembre 1999 e che, se alcuni settori del cooperativismo sono stati consultati prima della pubblicazione del decreto sulle cooperative del 2001, il movimento, in seguito, è stato largamente ignorato. Essi sottolineano, nello stesso tempo, che lo sviluppo cooperativo impegnato a livello istituzionale, ha privilegiato le cooperative del lavoro associato e della produzione nei settori dei servizi e che alcune imprese in difficoltà economica sono state ristrutturate attraverso la cooperazione.

    Lo sviluppo cooperativo nel processo rivoluzionario bolivariano

    L’impulso dato dal governo ha conosciuto due tappe, la prima tra il 2001 e il 2003 e la seconda tra il 2004 e il 2007, nel corso della quale si sono formate l’81% delle cooperative. Questi due cicli di sviluppo sono da mettere in relazione alla grande instabilità politica (colpo di stato e lock-out padronali) che ha conosciuto il paese nel corso del primo periodo. A partire dal 2004, il governo consolidato al potere si è impegnato a sostituire la capacità produttiva e relativa alla prestazione di servizi da parte del mondo imprenditoriale trasferendola alle persone organizzate in cooperative. Ma la grande maggioranza delle iniziative (74%) rispondeva a bisogni familiari, dei soci e della comunità nell’intento di trovare una via di sbocco alla disoccupazione.

    Alla fine del 2008, ne erano state registrate 260000 mentre nel 2000 se ne contavano appena un migliaio. La maggior parte di questo sviluppo è legata all’azione del governo ma il boom ha sollecitato gli appetiti delle imprese private che speravano di avere accesso ai vantaggi, al credito e ai contratti al pari degli enti pubblici. In certi casi i datori di lavoro hanno costretto i lavoratori a organizzarsi in cooperative per lavorare in subappalto.

    Secondo Nelson Freitez, lo sviluppo statale del coperativismo risponde più «a una politica di assistenza che a uno sviluppo economico», fattore che si è tradotto in uno sviluppo maggiore nel settore sociale piuttosto che in quello della produzione [4]. Se fino al 1997, le cooperative erano maggiormente presenti nel risparmio e nel credito, nei servizi alla persona, nell’agricoltura e nei trasporti, in seguito hanno predominato i settori dei servizi alla persona e alle imprese.

    Il settore cooperativo tradizionale che –ricordiamolo- aveva partecipato attivamente alla redazione dei principi nel quadro dell’Assemblea Costituente nel 1999 sollevò riserve ed espresse un certo scetticismo di fronte allo sviluppo cooperativo incrementato dall’intervento statale al momento della pubblicazione del decreto legge del 2001 dato che quest’ultimo derogava ai principi stessi del movimento. Rapidamente si è potuto constatare che questi timori erano fondati dato che molte organizzazioni appena nate scomparirono dalla scena. All’epoca del censimento del 2006, appena il 25% delle 155.000 registrate possedeva i requisiti richiesti come la capacità di presentare i registri con le delibere collettive e la nomina dei soci.

    Durante i quindici anni che sono trascorsi, lo Stato è stato il principale protagonista nel dare impulso alla creazione di cooperative in Venezuela. Nel periodo 2001-2012, 300.000 cooperative sono state create mentre nel 1998 ce n’erano solo 762. Tuttavia, malgrado l’impressionante espansione quantitativa, parecchie organizzazioni si sono costituite con un numero minimo di 5 soci come previsto dalla legge. Tra il 1998 e il 2008, sono stati concessi 1,5 milliardi di credito di cui una parte significativa non è stata recuperata. Come sottolineato precedentemente, la legge è stata abbondantemente utilizzata per sviluppare il subappalto allo scopo di far abbassare i costi di produzione e di disimpegnarsi dalle proprie responsabilità in materia di salari. Il settore pubblico non è rimato indietro ed ha sollecitato con forza le imprese in subappalto a costituirsi in forma cooperativa.

    Secondo il censimento del 2006 che verificava la presenza di 42.000 cooperative attive rispetto alle centinaia di migliaia che si erano costituite, il Venezuela sarebbe in testa ai paesi latino-americani per quanto riguarda il numero di entità, raggruppando un milione di soci. Tuttavia l’impatto sul piano economico era molto minore del previsto. Paradossalmente, le cooperative più importanti sono organizzazioni che, essenzialmente, sono state create prima del 1998, come nel caso esemplare dell’impresa CECOSESOLA che è stata fondata nel 1967 e che raggruppa oggi 1.200 lavoratori associati [5].

    Analisi del fenomeno cooperativo

    La crescita esponenziale delle cooperative in Venezuela è stata criticata dai protagonisti del movimento cooperativo tradizionale. Oscar Bastidas ha preso di mira l’esistenza di «false cooperative» che non rispondono alle norme del movimento, nel senso che esse non ricoprono la doppia dimensione di associazione/impresa.

    Il punto che dobbiamo comprendere è che esse non hanno il senso della proprietà collettiva, né della gestione democratica reale ma sono costituite da gruppi di cinque soci che si trasfomano di fatto in soci capitalisti che sfruttano la forza lavoro dei loro salariati. Questo «piccolo gruppo dominante nelle false cooperative non rispetta i principi e i valori cooperativi riguardo allo sviluppo, alla formazione, e neppure per quanto riguarda la partecipazione e l’integrazione». Queste cooperative «generano esclusivamente profitto senza includere la responsabilità sociale con e per la comunità» [6].

    Autonomia delle cooperative e politiche pubbliche

    Gli autori dello studio criticano ugualmente la «subalternità delle cooperative rispetto al potere economico dello Stato, il che facilita la loro incorporazione nella macchina elettorale che ne trae profitto prima di tutto a livello politico senza dare frutti corrispettivi in termini economici». Secondo questi studiosi, il clientelismo politico si è sviluppato in maniera significativa in questi ultimi anni, fatto, questo, che ha «generato distorsioni nel funzionamento delle cooperative». Essi ricordano che i valori come l’autonomia e la trasparenza non sono compatibili con le forme politiche clientelari.

    Essi illustrano inoltre la loro proposta tramite l’esempio della cooperativa COPALAR (Società di servizi multipli agricoli), creata nel 1980 nello Stato di Lara, che era una delle cooperative agricole più sviluppate in Venezuela, in termini di soci e di produzione. Questa cooperativa era composta da produttori di caffè e riuniva nel 1990 700 famiglie di ottanta casolari della zona. Il suo sviluppo fu complesso ma costante, arrivando a produrre per l’esportazione al fine di migliorare le condizioni di vita dei soci. Ma nel 2005 nel quadro del «Piano Caffè», il governo offrì loro dei crediti importanti alla condizione espicita di vendere i loro prodotti a determinate imprese e chiese loro di installare un’officina di torrefazione, che si trovò ben presto a confrontarsi con gravi problematiche strutturali. Al termine di un certo periodo di tempo la cooperativa si è ritrovata in fallimento a causa della corruzione e della cattiva gestione della direzione che si è lasciata tentare dall’afflusso incontrollato di risorse.

    Alcune cooperative storiche si trovano più danneggiate che beneficiate dal clientelismo all’opera con le politiche pubbliche di sviluppo. Lo studio mette in evidenza gli aspetti nascosti che vengono alla luce quando lo Stato interviene nel movimento cooperativo senza misurare la portata delle sue politiche. D’altronde, i valori di autonomia e di trasparenza non sono solo principi morali, ma anche elementi pratici essenziali per l’avvio economico delle cooperative.

    Nuova percezione del movimento cooperativo da parte dello Stato

    La diagnosi sullo «pseudo-cooperativismo», che consiste nello sviluppare massicciamente le cooperative che adottano la forma ma non la sostanza, è stata condivisa da analisti ideologicamente vicini al governo. Già nel 2007, Hugo Chávez Frías, consapevole delle difficoltà e facendo un curioso riferimento all’esperienza cooperativa yugoslava, dichiarò che il programma cooperativo venezuelano non era stato uno strumento di transizione verso gli obiettivi socialisti che la «rivoluzione bolivariana» intendeva realizzare [7]. A partire da quel momento le cooperative hanno smesso di essere il veicolo ideologico essenziale per la trasformazione economica. Esse sono state sostituite dalle Imprese di produzione sociale (EPS), nel quadro del progetto nazionale Simón Bolívar 2007-2013, divenendo in seguito le Imprese di proprietà sociale.

    Conclusioni dello studio

    Malgrado questi bilanci, è innegabile che le cooperative abbiano giocato storicamente un ruolo importante nel permettere l’inclusione di settori popolari nel tessuto sociale venezuelano, con maggiore o minore successo a seconda delle zone e regioni del paese, e nelle attività economiche di produzione di beni e servizi, nel consumo e nel risparmio. A partire dalla costituzione del 1999 e dalla legge del 2001, le cooperative hanno costituito l’archetipo organizzativo da sviluppare attraverso politiche pubbliche allo scopo di generare un’economia sociale attiva e di sostituirsi in un certo senso alle imprese capitaliste. Tuttavia lo sviluppo esponenziale delle cooperative, legate al contratto con lo Stato e ai finanziamenti pubblici, si è rivelato alla fine un impasse. La reazione dello Stato è stata allora di dichiarare l’inutilità del cooperativismo come strumento di trasformazione delle società e di sostituirle con le EPS.

    Gli autori concludono affermando che, dopo più di un decennio di sviluppo delle cooperative, bisogna sottolineare il fatto che esiste oggi un numero di cooperative quaranta volte superiore a quello dell’inizio del processo, e che molte di esse hanno permesso a famiglie e a lavoratori che esercitavano mestieri informali di dotarsi di uno statuto giuridico con l’appoggio delle politiche pubbliche. La quasi totalità del movimento cooperativo tradizionale si mantiene nei margini delle risorse dello Stato, anche se alcune esperienze che vi hanno fatto ricorso, hanno messo a repentaglio l’autonomia del movimento cooperativo.

    E per non concludere...

    L’esperienza venezuelana è interessante sotto più di un aspetto e merita di essere analizzata più ampiamente anche su un piano che ci riguarda per tentare di trarne degli insegnamenti. Essa conferma che lo sviluppo importante delle cooperative, anche su scala di massa, non è sufficiente per intraprendere una transizione postcapitalista. E’ chiaro inoltre che il volontarismo del governo e il conferimento di sussidi consistenti senza un vero controllo ha generato delle derive e talvolta messo in discussione l’autonomia del movimento cooperativo, ed è ugualmente emerso chiaramente che le esperienze storiche basate sulle iniziative dei lavoratori resistono meglio, che esse continuano talvolta a svilupparsi e rimangono le più importanti del paese sul modello delle: Centrale Cooperativa dei Servizi Sociali dello Stato Lara, San José Obrero, CORANDES, le cooperative in Alleanza con VENEQUIP, Cooperativa Rubio, Cooperativa Bermúdez, Cooperativa Araya, CECOSESOLA, etc. Ma nello stesso tempo le politiche pubbliche hanno giocato un ruolo inclusivo non trascurabile nei confronti delle classi popolari.

    Questa esperienza mette sul piatto parecchie problematiche a partire dalle quali si potrebbero avanzare alcune ipotesi per abbozzare un «progetto» di transizione in rottura col sistema capitalistico. Un cantiere che resta assolutamente aperto...

    Référence de l’article :

    Héctor Lucena y Dioni Alvarado, «Políticas públicas y el cooperativismo venezolano”, Osera n. 9, Buenos Aires, 2° semestro de 2013, 14 p. Consultable sur :

    http://webiigg.sociales.uba.ar/empresasrecuperadas/PDF/PDF_09/Lucena_dossier.pdf

     

    Notes:

    1. Cf. les articles de Richard Neuville, « Venezuela «Les Conseils communaux et le double pouvoir» in Collectif Lucien Collonges, «Autogestion hier, aujourd’hui, demain», Editions Syllepse, Mai 2010.

      http://alterautogestion.blogspot.fr/2011/01/venezuela-les-conseils-communaux-et-le.html et

      «La Constitution bolivarienne» in Dossier spécial Venezuela, Rouge & Vert n° 222, avril 2005, p.21-22.

    2. Richard Neuville, «Venezuela : Dans quelle mesure, les travailleurs contribuent-ils à l‘approfondissement et à la radicalisation du processus révolutionnaire ?», Octobre 2010.

      http://alterautogestion.blogspot.fr/2010/10/venezuela-dans-quelle-mesure-les.html et

      «Venezuela : Une décennie de processus bolivarien – Avancées réelles et limites d’une révolution démocratique», in Rouge & Vert, n° 289, avril 2009, p. 12-14.

      http://alterautogestion.blogspot.fr/2009/04/venezuela.html

    3. Héctor Lucena y Dioni Alvarado, «Políticas públicas y el cooperativismo venezolano», Osera n. 9, Buenos Aires, 2° semestro de 2013, 14 p. Consultable sur : http://webiigg.sociales.uba.ar/empresasrecuperadas/PDF/PDF_09/Lucena_dossier.pdf

    4. Nelson Freitez, «El cooperativismo en el Estado Lara, desde 1968 hasta el 2008», Tesis doctoral, UCV, 2013.

    5. «L’expérience CECOSESOLA», Un film de Ronan Kerneur et David Ferret (France-Guatemala-Venezuela – 2014 – 59 minutes – Couleur – VOSTF Production : Tropos Films : https://www.facebook.com/troposfilms Un film de 58 minutes sur la coopérative Cecosesola du Venezuela. Voir également le lien posté le 18 juillet 2014 sur le compte Facebook de l’Association pour l’autogestion: https://www.facebook.com/AssociationAutogestion

    6. Oscar Bastidas, «Las falsas Cooperativas Venzolanas», 2013. http://www.analitica.com/enfoqueeconomico/4481108.asp

    7. Hugo Chávez Frías, Discours devant l’Assemblée nationale, 15/08/2007.

     

    Pubblicato su http://www.autogestion.asso.fr/?p=4494 il 5 settembre 2014.
    Traduzione dal francese di Rosalba Volpi.

     

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    26/09/14
    Mutamenti politici di un rapporto sociale

    Nel corso del suo lungo sviluppo il movimento cooperativo italiano ha attraversato trasformazioni lente e costanti, che lo hanno tenuto generalmente lontano da fratture radicali. Le diverse tendenze e tradizioni politiche che si sono intrecciate con la storia del movimento cooperativo evidenziano la duttilità dei principi cooperativi i quali, non modificati nella loro enunciazione astratta, sono stati piegati alle necessità contingenti. In questo saggio sosteniamo che il sistema cooperativo italiano pare da un lato aver assorbito i principi dell’economia di mercato grazie all’adozione di organizzazioni produttive e di strutture funzionali analoghe a quelle di molte altre imprese capitalistiche, dall’altro lato avere sviluppato al proprio interno una peculiare forma di agire sociale fortemente valoriale in quanto basato sull’istituzionalizzazione di postulati quali la mutualità e la solidarietà. Quindi la forma cooperativa si è storicamente costituita e continua a plasmarsi come un modello peculiare nel quale la sottocapitalizzazione richiede un’ampia fluidificazione dei rapporti lavorativi, che sono stati elevati al rango di valori morali nell’agire sociale.

    Il saggio (20 pagg.) è contenuto nel .PDF allegato.

    Scienza & Politica, vol. XXVI, n. 50, 2014, pp. 43-62
    DOI: 10.6092/issn.1825-9618/4381
    ISSN: 1825-9618

    CC-BY

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    22/09/14

    Les coopératives, et surtout les SCOP, font couler beaucoup d’encre. Mais sur le fond, que sait-on vraiment de leur fonctionnement, de l’application sur le terrain des principes coopératifs ? Comment ceux-ci sont ils conciliés avec l’exigence de viabilité économique ?
    Une enquête portant sur quarante SCOP de la région Rhône-Alpes a été conduite en 2012-2013 par des chercheurs de Grenoble et Lyon. Elle montre que les SCOP de cet échantillon sont « exemplaires » et  » fonctionnent bien comme des laboratoires d’expérimentation sociale où l’on observe des pratiques souvent innovantes, parfois même étonnantes ».

     

    Les auteurs de cet enquête sont des chercheurs (économie et gestion) des universités Pierre-Mendès-France et Lyon 2, qui s’intéressent à un « angle mort » de l’économie: la question du travail et des relations sociales dans les SCOP. Ils remarquent que des études existent déjà sur les SCOP, mais sur des thèmes différents (performance économique, démocratie). D’autres enquêtes couvrent les entreprises de l’Economie Sociale et Solidaire (emploi, relations de travail). Enfin, dans les enquêtes statistiques nationales (REPONSE,DADS,…), les SCOP -peu nombreuses- se trouvent noyées dans la masse des entreprises classiques.

    Comment ont-ils procédé pour leur enquête ? Ils ont contacté des SCOP « représentatives » des SCOP de Rhône-Alpes (en fonction de leur taille, de leur secteur d’activité, de leur âge,…). Puis ils ont interviewé un dirigeant, et ont adressé un questionnaire aux salariés/sociétaires afin de corroborer les propos tenus lors de l’entretien.

    Les SCOP de Rhône-Alpes se situent majoritairement dans le secteur de la construction et des services. Elles sont le plus souvent de petite taille (moins de 10 salariés). Plus de la moitié sont concentrées dans les départements du Rhône et de l’Isère. Enfin elles sont le plus souvent âgées de moins de 10 ans.

    La priorité donnée aux conditions de travail
    L’enquête montre que les conditions de travail sont une préoccupation importante des SCOP de Rhône-Alpes. La majorité des entreprises sont aux 35h, et près de 95% des salariés/coopérateurs ayant répondu se disent très satisfaits de leurs horaires. Les CDI sont privilégiés, avec  95% des réponses à l’enquête.

    En contrepartie, l’échelle des rémunérations est plus resserrée, avec toutefois une certaine diversité : « La moyenne d’échelle des salaires pour nos 40 SCOP est de 2 : le plus bas salaire est égal à la moitié du plus haut salaire. Les écarts vont 1 à 6. »

    Concernant la pénibilité et le stress, il semble que peu d’informations soient disponibles.

    Démocratie, participation et importance du collectif

    Un indicateur d’association des associés et salariés aux décisions importantes est le taux de sociétariat. Selon les enquêteurs il est « très élevé pour toutes les entreprises, c’est-à-dire supérieur à 50 % des salariés »

    Les SCOP étudiées fonctionnent le plus souvent sur le principe de la démocratie directe, avec peu de hiérarchie: « ce serait plus une « pizza qu’une pyramide » ». Les enquêteurs observent qu’un compromis est recherché entre une grande autonomie des associés/salariés, et une coopération élevée grâce à un dialogue omniprésent.

    Les décision sont décrites comme prises collectivement, dans l’intérêt du collectif, ce qui est favorisé par « la répartition des résultats, qui doivent être affectés en grande partie à des réserves qui ne se partagent pas. »

    Les auteurs remarquent par ailleurs que ces caractéristiques des SCOP permettent de donner une place plus importante aux femmes (cf III.2) et aux « non-diplômés, qui ont une situation très défavorable sur le marché du travail (chômage, précarité de l’emploi et du travail, bas salaires), [mais] se situent dans une meilleure position dans les SCOP de notre échantillon. » (cf III.3)

    Le rapport examine ensuite les mécanismes d’adaptation mis en place par les SCOP (chapitre IV), notamment les mécanismes de résolution de conflit. Il apparaît que très peu de SCOP disposent de syndicats ou d’instances représentatives du personnel. (IV.3).

    Après avoir dégagé des traits communs dans la première partie, la seconde partie de l’enquête se consacre à la diversité des SCOP via de nombreux résultats chiffrés, et présente notamment une typologie des écarts à la « SCOP moyenne ». Nous y reviendrons dans un second article…

    Charmettant, Juban, Magne, Renou, Vallet,
    La qualité des relations sociales au sein des SCOP,
    décembre 2013
    http://hal.archives-ouvertes.fr/docs/00/94/26/39/PDF/pub13055.pdf

    Association Autogestion
    22 septembre 2014
    http://www.autogestion.asso.fr/?p=4523

     

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