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    24/08/14
    Reportage. La fabbrica di Trezzano sul Naviglio festeggia il primo anniversario della nuova era. Tra riciclo, co-working e autogestione

    Sembra facile, invece è un’impresa straordinaria. Bisogna risalire il naviglio grande in secca, non farsi fuorviare dal ponte gobbo di Trez­zano, scivolare lungo via Boccaccio senza deprimersi per il paesaggio di capannoni già scheggiati dalla crisi e poi entrare in una fabbrica favolosa. E crederci, per scoprire i segreti di una storia che di solito finisce male. Quasi sempre malissimo. Con il nuovo padrone straniero che rileva un’azienda affossata da una speculazione finanziaria per spostare la produzione in Polonia, con 240 lavoratori anestetizzati da due anni di cassa integrazione e altri 80 adescati per far finta di lavorare e intascare la buona uscita mentre la fabbrica viene spolpata dei macchinari. Dopo tre anni di lotta, tavoli delle trattative, arrampicate sui tetti, scioperi, picchetti, binari occupati e notti insonni. Tutto inutile. La Maflow, fabbrica di condizionatori per automobili, nel 2007 era una multinazionale a capitale italiano con 23 sta­bi­li­menti nel mondo. Già sen­tita altre volte, vero? Ma que­sta è tutta un’altra storia.

    Perché un giorno, un anno fa, alcuni lavoratori hanno deciso di giocare alla sovversione. Sul serio. Si sono ribellati, la cosa più difficile. Hanno preso gli spazi abbandonati e hanno conquistato una specie di città tutta da reinventare, 30 mila metri quadrati di cui metà al coperto, nell’ordine di tre campi da calcio (di proprietà dell’Unicredit). L’hanno chiamata Ri-Maflow, col suffisso magico. “Ri”, come riuso, riciclo, riappropriazione e, perché no, “Ri” come rivoluzione. Prendendosi sul serio ma con ironia, perché quando si cena tutti insieme per solidarizzare col portafoglio c’è anche una bella (ri)passata di pomodoro che sobbolle in pentola.

    La Ri-Maflow ormai è più di una fabbrica, è un esperimento unico nel suo genere. Tutto da studiare, e ci sono già ricercatori universitari che si aggirano nei capannoni trasformati per capire fino a che punto si può arrivare quando si raccolgono le energie per sovvertire le regole auree del capitalismo. Ma il sogno di immaginare una unità produttiva autogestita sul modello delle fabbriche recuperate argentine quasi non basta più, perché l’idea di riap­pro­priarsi del lavoro per creare reddito è stata quasi travolta dal bisogno fisiologico di ricreare una nuova socialità. Non si vive di sola fatica. Però sono operai e hanno il mito della produzione, per loro la vera sfida è avviare una attività di produzione. Ci sono vicini, vicinissimi. Ritirano oggetti tecnologici arrivati alla fine della loro innaturale vita e li riparano, li smontano, li ri-utilizzano e li ri-vendono, è l’ecologia che da teoria si fa sostanza, l’università dell’aggiustaggio dove non si fanno chiacchiere accademiche. Frigoriferi, lavastoviglie, lavatrici, computer, mixer, radio, aggeggi vari recuperati a chilometro zero.

    Ma qui, dentro la Ri-Maflow, per chi ci crede, c’è dell’altro. Manca solo Willy Wonka, il mago della fabbrica di cioccolato, per farsi guidare nel gigantesco baule di idee realizzate o che stanno per germogliare. Progetti ambiziosi che ancora non si possono rivelare, cianfrusaglie, un’altra Expo, una festicciola di carnevale. C’è spazio per tutti, se gli operai che si sono imbarcati in questa avventura — una ventina sono soci lavoratori — avranno la forza di tirare avanti. C’è qualcuno disposto ad aiutarli, e ad aiutarsi? Perché un’idea ne chiama un’altra. Bisogna sognare, ma anche restare con i piedi per terra, e per quello c’è la riunione operativa del martedì. Senza capi, né portavoce. Ci sono solo responsabili dei vari progetti. Tanti, forse troppi (i progetti). Prove tecniche di armonia per quasi disoccupati, il bene più prezioso e difficile da preservare in condizioni difficili come queste: per ora chi ci sta intasca una paga — se così si può chiamare — di circa 300 euro al mese. Volontariato.

    Il risultato è la confusione più straordinaria che si sia mai vista in un luogo metalmeccanico dove si producevano tubi di gomma per rinfrescare l’abitacolo di migliaia di Bmw. Automobile, roba vecchia. 
Sculture di legno piazzate nell’atrio, solo un diversivo da art-studio perché due falegnami avevano bisogno di un nuovo spazio; a Milano, dove una cosa così se la sognano, lo chiamerebbero co-working, qui invece sembra la rivincita della surrealtà, con fotogrammi rubati a un film di Tarantino: laggiù c’è la stanza spoglia occupata da due tizi cacciati da chissà dove che si occupano di recupero crediti (con le buone maniere, viene da pensare). Di fianco giochi per bam­bini e maschere di carnevale, spazio per il baratto, poi il bar Abba in memo­ria di Abdul Gui­bre, il ragazzo italiano originario del Burkina Faso ucciso a sprangate sei anni fa a Milano. Una sala prove insonorizzata e anche una web tv gestita da due senegalesi, operai agitatori di un sindacato di base. Altri due neri alla Ri-Maflow ci abitano, al piano di sopra, ci abitavano anche prima che gli operai si mettessero in testa di riprendersi il desiderio del lavoro e poi sono rimasti incastrati al vertice, nel comitato di gestione.

    Ogni capannone apre uno scenario diverso, l’incanto della camera dei giochi è nell’enorme mer­ca­tino dell’usato che si nasconde sotto le coperte in attesa di ogni sabato e domenica, sono tremila metri qua­drati al coperto a disposizione di cento espositori. Il mercato libero, una calamita per appassionati e feticisti dell’artigianato e del collezionismo. Altro capannone, altra storia. È ancora un mercato — il FuoriMercato — il venerdì e il sabato mattina, trionfo del biologico, la nuova casa di un Gruppo di acquisto solidale in combutta con i produttori del parco agricolo sud Milano (le cibarie si acquistano anche su www.fuorimercato.com).
Una gabbia vuota ogni quindici giorni si riempie di quintali di arance provenienti da Rosarno, Calabria, dove quattro anni fa centinaia di lavoratori stranieri accampati come bestie si ribellarono dopo essere stati “sparati” dalla malavita locale; sono gli stessi agrumi in vendita senza scandalo sugli scaffali dei supermercati della grande distribuzione. Forse è questo il succo dell’avventura Ri-Maflow, il ribaltamento di una prospettiva che nella realtà non lascia scampo: qui, in uno spazio riconquistato a un padrone speculatore, e di proprietà di una banca, si vendono arance di Rosarno raccolte dai braccianti, ma in regola e pagati con un giusto salario. Spremere gli agrumi, non gli esseri umani.

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    24/08/14
    Vincono i fralibiens
    In Provenza la Unilever, che aveva delocalizzato in Polonia la produzione di tè Lipton e tisane con marchio Elephant, si è arresa alla resistenza operaia: pagherà milioni di euro alla nuova cooperativ

    Nella Fran­cia con­qui­stata dal Front Natio­nal è acca­duto qual­cosa di signi­fi­ca­tivo, non solo dal punto di vista sim­bo­lico ma per­sino mate­riale: dopo 1336 giorni di lotta, Davide, vale a dire 76 lavo­ra­tori della Fra­lib di Gémé­nos, in Pro­venza, ha scon­fitto fra­go­ro­sa­mente Golia, cioè la mul­ti­na­zio­nale anglo-olandese dell’alimentazione Uni­le­ver. La big com­pany, che aveva deciso da un giorno all’altro di delo­ca­liz­zare la pro­du­zione del tè Lip­ton e delle tisane con il mar­chio Ele­phant in Polo­nia, ha dovuto infatti arren­dersi alla resi­stenza ope­raia: pagherà 19,1 milioni di euro per i danni cau­sati dallo stop all’azienda, men­tre i ter­reni e i mac­chi­nari, già bloc­cati dalla muni­ci­pa­lità di Mar­si­glia (un equi­va­lente delle nostre pro­vince, a guida socia­li­sta) al prezzo sim­bo­lico di un euro e valu­tati altri sette milioni, saranno tra­sfe­riti alla nuova coo­pe­ra­tiva, messa in piedi dai lavo­ra­tori. In totale fanno oltre 26 milioni di euro, ai quali andrà som­mato il soste­gno della mul­ti­na­zio­nale alla ven­dita dei pro­dotti della Fra­lib, almeno nella prima fase.

    Una noti­zia a dir poco incon­sueta, di que­sti tempi in Europa. È figlia di una lotta ini­ziata nel 2011, quando la Uni­le­ver, pro­prie­ta­ria del mar­chio Lip­ton e di quello Ele­phant (brand molto cono­sciuto Oltralpe), aveva deciso di chiu­dere lo sta­bi­li­mento fran­cese e di tra­sfe­rirsi armi e baga­gli in Polo­nia. I dipen­denti ave­vano però occu­pato la fab­brica, impe­dendo che i mac­chi­nari fos­sero smon­tati e che i locali fos­sero ven­duti o, peg­gio, abban­do­nati. La lotta dell’ «ele­fan­tino» aveva imme­dia­ta­mente tro­vato il soste­gno «mili­tante» dei lavo­ra­tori delle fab­bri­che dell’area indu­striale di Gémé­nos, un comune di sei­mila abi­tanti della Pro­venza. Si erano mobi­li­tati in cen­ti­naia, da ven­ti­cin­que aziende di set­tori diversi, otte­nendo l’appoggio del sin­da­cato Cgt, non­ché di asso­cia­zioni e movi­menti locali. Tutti insieme ave­vano par­te­ci­pato a scio­peri e pic­chetti, e ave­vano con­tri­buito anche a pre­si­diare lo sta­bi­li­mento durante l’occupazione. Anche la poli­tica era stata costretta a muo­versi: prima che diven­tasse Pre­si­dente della Repub­blica, Fran­cois Hol­lande era venuto alla Fra­lib a pro­met­tere che, in casi estremi, la fab­brica sarebbe stata requi­sita dallo Stato. La bat­ta­glia dell’elefantino (gli abbiamo dedi­cato una coper­tina di Alias) è pro­se­guita per tre anni e mezzo, tra minacce azien­dali, ten­ta­tivi di sgom­bero con con­trac­tors pri­vati adde­strati nelle guerre bal­ca­ni­che e allet­tanti offerte eco­no­mi­che indi­vi­duali per rom­pere il fronte della protesta.

    La resi­stenza della Fra­lib ha fatto il giro del mondo, al punto che, alla fine di gen­naio, nelle cam­pa­gne pro­ven­zali sono arri­vati lavo­ra­tori recu­pe­rati da tutta Europa per orga­niz­zare una rete fra loro. L’ultima arma nelle mani degli ope­rai è stata la cam­pa­gna di boi­cot­tag­gio dei pro­dotti della Uni­le­ver, che ha preso piede in men che non si dica. Pro­ba­bil­mente è stata quest’ultima a con­vin­cere la mul­ti­na­zio­nale che il danno d’immagine rischiava di essere più pesante della resa a Géménos.

    «Tutti ci dice­vano che era­vamo pazzi a sca­gliarci con­tro dei miliar­dari, ma la nostra fol­lia alla fine ha pagato», ha com­men­tato un lavo­ra­tore. Già si pensa a come ripar­tire. Gli ope­rai hanno costi­tuito una coo­pe­ra­tiva che si chiama Thé et infu­ses e stretto accordi con pro­dut­tori locali di erbe bio­lo­gi­che. Non si use­ranno più aromi arti­fi­ciali e addi­tivi chi­mici con i quali l’azienda aveva sosti­tuito i pro­dotti locali natu­rali per rispar­miare sui costi e che alla Fra­lib con­ser­vano ancora in un capan­none, ma la pro­du­zione sarà di grande qua­lità: le tisane al tiglio, gli infusi alla lavanda pro­ven­zale, il mate. Gli ope­rai rica­pi­ta­liz­ze­ranno la società inve­stendo parte della liqui­da­zione, men­tre i soldi della Uni­le­ver ser­vi­ranno a finan­ziare la for­ma­zione dei lavo­ra­tori e una ricerca di mer­cato. La mul­ti­na­zio­nale aiu­terà anche la nuova società a muo­vere i primi passi sul mer­cato. È una vit­to­ria su tutta la linea, per l’elefantino imbiz­zar­rito della Pro­venza, in cui ognuno ha fatto la sua parte: la soli­da­rietà ope­raia innan­zi­tutto (estesa anche al di fuori della Fra­lib, come abbiamo visto), le orga­niz­za­zioni che hanno ade­rito alla cam­pa­gna di boi­cot­tag­gio (in pri­mis l’Associazione per l’autogestione che ha orga­niz­zato il mee­ting delle fab­bri­che recu­pe­rate), il sin­da­cato Cgt e il Front de Gau­che. Infine, le isti­tu­zioni: per costrin­gere la Uni­le­ver all’accordo sono dovuti scen­dere in campo Hol­lande e il mini­stro del Lavoro Arnauld Montebourg.

    Rimane ancora aperta la que­stione del logo: i lavo­ra­tori Uni­le­ver vor­reb­bero che l’elefantino rima­nesse di loro pro­prietà, per­ché «mar­chio regio­nale tipico» e in quanto tale non delo­ca­liz­za­bile. Una fac­cenda di non poco conto, sia per la nuova impresa, che potrebbe appog­giarsi a un brand rico­no­sciuto, che dal punto di vista giu­ri­dico: se i giu­dici doves­sero ricon­se­gnare l’elefantino ai lavo­ra­tori la vit­to­ria sarebbe totale e cam­bie­rebbe lo sta­tuto giu­ri­dico della pro­prietà pri­vata nel con­ti­nente. Ma l’impressione è che su que­sto punto i lavo­ra­tori della Fra­lib siano stati costretti a cedere.

    Ora i «fra­li­biens», come ven­gono defi­niti in Fran­cia, annun­ciano che a fine giu­gno a Gémé­nos ci sarà una grande festa per cele­brare l’inizio di una nuova sto­ria. Poi dedi­che­ranno una gior­nata alla pre­sen­ta­zione dei nuovi pro­dotti. Non più «da fab­brica in lotta», come reci­tava il logo prov­vi­so­rio che si erano inven­tati durante l’occupazione, ma sta­volta «da fab­brica recuperata».

    Pubblicato da Il Manifesto, 13.06.2014.  

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    21/08/14
    Repasamos las experiencias europeas más avanzadas en la recuperación de fábricas por parte de los trabajadores.

    De Francia a Grecia, cuatro experiencias de recuperación de fábricas en Europa muestran que se puede trabajar sin patrones.

    Marsella
    Fralib: el elefante victorioso


    Hay un elefante en Francia que se ha transformado recientemente en un símbolo de lucha. Es el elefante que aparece en el logo de un té muy conocido en la región, producido desde hace 120 años en una fábrica, de nombre Fralib, situada en el área metropolitana de Marsella, a 20 kilómetros de la ciudad. La multinacional Unilever, dueña de la marca Thé Éléphant y también del té Lipton, decidió en septiembre de 2010 cerrar la fábrica y trasladar la producción a Polonia, en busca de mano de obra más barata.

    182 trabajadores se quedaron en la calle. Pero reaccionaron rápidamente y ocuparon la fábrica. Desde allí empezaron a reivindicar, apoyados por los sindicatos, no sólo los salarios que les debían, sino también el derecho a mantener sus puestos y a autogestionar la producción. Unas medidas acompañadas de una campaña de boicot a la transnacional.

    El 26 de mayo de 2014, tras más de 1.336 días de protestas y de ocupación de la fábrica, los trabajadores de Fralib obtuvieron una victoria histórica en la batalla legal contra Unilever, la cuarta empresa alimentaria más grande del mundo.

    Aunque Fralib no pudo conservar la marca Éléphant, en el mes de julio los trabajadores lograron por fin retomar la producción del té y de las infusiones de hierbas. Además, consiguieron que Unilever los indemnice con 20 millones de euros por los daños causados por el cierre de la fábrica. Con este impulso, los 60 integrantes actuales de Fralib volvieron a sus puestos de trabajo en la fábrica, esta vez bajo control obrero. Ahora no sólo trabajan sin patrón, sino que han reem­plazado los aromas químicos por productos naturales y orgánicos provenientes de cooperativas de productores locales, en el ámbito de la economía solidaria y alternativa.

    “Éste es un proceso que no tiene vuelta atrás”, dice Rima, obrera de Fralib desde hace varios años. Empezó a trabajar con contratos precarios. Ahora es integrante de pleno derecho en la cooperativa. “Desde que empezamos esta lucha, nos hemos dado cuenta de que estamos en una etapa muy importante con respecto a nuestra libertad como trabajadores y ciudadanos; hemos necesitado mucha fuerza, mucha energía, pero ahora tenemos que seguir adelante, sin detenernos ni tener miedo”, concluye Rima.
    Estambul

    Kasova: “No es sueño, es necesidad”

    La ciudad de Estambul ha vivido un año de movilizaciones multitudinarias a partir de las resistencias del movimiento en defensa del parque Gezi, de los sindicatos combativos y de muchas otras experiencias de lucha en contra del autoritarismo del Gobierno, la explotación laboral, la especulación inmobiliaria o la expropiación de los bienes comunes. La historia de los obreros de la fábrica Kasova se ha desarrollado en este contexto, convirtiéndose en la primera fábrica recuperada en Estambul desde los años 70. Esta experiencia ha evolucionado en profunda relación con otras experiencias, entre ellas la de la fábrica ocupada Greif, desalojada por la policía el pasado mayo, o el periódico Karsi, ocupado y autogestionado por sus trabajadores.

    La Diren Kasova (Kasova Resiste) se encuentra en Osmanbey, un barrio textil con una fuerte tradición de lucha obrera, cerca de la plaza Taksim y del parque Gezi. En los últimos seis meses de vida de esta fábrica textil, el antiguo dueño empezó a bajar los salarios, a despedir trabajadores y a reducir el volumen de producción. Cuando en 2013 la plantilla descubrió los planes del patrón, decidió tomar la fábrica y defender las máquinas, enfrentándose y resistiendo a la presión policial, a un intento de desalojo y a varias amenazas durante las noches de toma.

    Los obreros han suplido la falta de experiencia sindical con la solidaridad de los vecinos y de varios grupos políticos. “En los meses de lucha se han construido conexiones con los vecinos, que se dieron cuenta de las amenazas de desalojo y empezaron a visitar la fábrica durante la toma. Al mismo tiempo, la relación con el forum [asamblea] barrial ha ido creciendo en intensidad. Todo esto ha sido clave, desde el principio, para el éxito de la lucha”, nos cuenta Bulent, uno de los integrantes de Kasova. “Sin salarios y sin ningún tipo de indemnización, fueron momentos muy difíciles”, dice. La solidaridad y el apoyo popular, en particular de los forums, asambleas barriales surgidas desde el movimiento de Gezi, junto a la determinación de la plantilla de Kasova, fueron determinantes.

    Actualmente, los obreros de Kasova luchan para que les devuelvan las máquinas que consiguieron llevarse antes de la quiebra definitiva de la fábrica. La necesidad de empezar a producir para garantizar ingresos para los integrantes de la cooperativa es un tema vital, una urgencia económica, pero también política: demostrar que es ­realmente posible producir sin patrones, en el marco de la autogestión.

    “Queremos empezar una campaña política para que nos reconozcan el derecho a producir sin patrón –dice Bulent–. Queremos reducir el horario de trabajo, mejorar nuestras condiciones de vida, trabajar de manera autogestionada: sabemos que no es fácil, pero queremos intentarlo. No es un sueño, es la necesidad de mantener un puesto de trabajo para sobrevivir de manera digna”.


    Salónica
    Trabajo sin patrón en Vio.Me


    En Salónica, ciudad industrial del norte de Grecia, hace casi dos años que se de­sarrolla una historia que se ha convertido en referencia obligada en toda Europa. Es la historia de una fábrica abandonada por sus dueños, enseguida olvidada por el Estado y el Gobierno, ignorada por el sindicalismo burocrático. En esta fábrica, como en muchas otras de Grecia y el sur de Europa, los trabajadores fueron despedidos cuando la empresa entró en quiebra. En 2011, los trabajadores de Vio.Me, reunidos en asamblea general, decidieron tomar la fábrica y gestionarla ellos mismos. La fuente de inspiración fueron, una vez más, las empresas recuperadas argentinas.

    “Gracias a la solidaridad pudimos recuperar lo nuestro, la dignidad de nuestras familias, y seguir con pasión y fuerza en nuestra lucha”, dice Makis, uno de los trabajadores de Vio.Me. Al igual que en el caso de Argentina, la recuperación de esta fábrica de materiales de construcción hubiera sido imposible sin las redes de apoyo y solidaridad de ciudadanos y movimientos sociales.

    Los trabajadores de esta fábrica afirman que es necesario pensar la producción en relación a las necesidades sociales. En primer lugar, en relación a las necesidades de la plantilla, no sólo las económicas, sino también pensando en la sostenibilidad del ritmo de trabajo, la seguridad, las relaciones sociales entre ellos. La producción también debe estar pensada en relación a las necesidades de la comunidad, de los grupos de apoyo de la fábrica, de los vecinos. Y también del medio ambiente: hace más de un año, Vio.Me inició la producción de detergentes ecológicos. La fábrica recuperada, afirman los trabajadores, es un patrimonio común, no pertenece ni a un patrón ni a los obreros, sino que es “parte de una lucha mas grande”.

    El proceso de autogestión se concreta a través de prácticas cotidianas de democracia directa, basadas en la participación del conjunto de los integrantes de la cooperativa en la toma de decisiones. “Cada día nos encontramos en la fábrica y decidimos en asamblea durante la primera hora de trabajo las actividades del día”, nos cuenta Dimitris, otro trabajador de Vio.Me, “y una vez al mes tenemos la asamblea general de todos los integrantes de la cooperativa, en la que tratamos todos los temas de gestión, producción y las cuestiones políticas en conjunto”. Entran a trabajar a las 7h y salen a las 15h. “Estábamos acostumbrados a trabajar para otros. Ahora lo hacemos para nosotros”, dice Alexandros, otro trabajador de Vio.Me.


    Roma y Milán

    Recuperando Officine Zero y Ri-Maflow


    En Italia existen muchas experiencias que consiguieron gestionar de forma diferente la producción, reinvertir las ganancias y transformarse en cooperativa. Pero destacan dos experiencias innovadoras surgidas de las resistencias contra las políticas neoliberales: Officine Zero, en Roma, y Ri-Maflow, en Milán.

    El proyecto de reconversión de Officine Zero surgió de la lucha llevada a cabo en la fábrica RSI, un taller de reparación de ferrocarriles situado en el barrio de Casalbertone, a un kilómetro de Tiburtina, la nueva estación de los trenes de alta velocidad de la capital. La fábrica quebró en 2011 por la crisis del sector ferroviario público y por la deficiente gestión de los propietarios, que paulatinamente habían bajado la producción y despedido a buena parte de la plantilla.

    El 20 de febrero de 2012, los últimos 33 obreros despedidos decidieron tomar la fábrica exigiendo el pago de sus salarios. Durante esta lucha consiguieron un fuerte apoyo de las redes barriales, de los centros sociales ocupados y del movimiento estudiantil. La fábrica se abrió a la sociedad y empezó un proceso político asambleario llamado la “idea loca”, un proyecto de lucha y trabajo en común entre diferentes sectores laborales, a partir del apoyo a la lucha obrera contra la patronal y con el objetivo de crear un proceso de recuperación del espacio de forma colectiva y cooperativa.

    El resultado de estas asambleas es el proyecto Officine Zero –“cero explotación, cero patrones y cero contaminación”–, basado en la recuperación de la fábrica y su reconversión productiva en base a diferentes proyectos laborales cooperativos. Lo que une estas experiencias diferentes es la búsqueda de otro modelo de relaciones sociales y laborales, basados en la autogestión y la cooperación.

    La construcción de una alternativa concreta se articula entre varios proyectos de la fábrica: talleres artesanales, un proyecto de reutilización y reciclaje de las máquinas que han sido recuperadas y reactivadas por los antiguos obreros de la fábrica y nuevos integrantes del proyecto y un espacio de common working. Además, hay una ‘casa’ estudiantil autogestionada y un comedor popular. Otro proyecto surgido en la fábrica es la Camera del Lavoro Autonomo e Precario, con asistencia legal gratuita como forma de experimentación del sindicalismo metropolitano, organizado desde abajo y basado en la solidaridad, la lucha común y la conexión entre trabajadores precarios.

    El mismo tema de la reutilización y el reciclaje es fundamental también en el proyecto de otra fábrica recuperada en Italia, la Ri-Maflow, de Trezzano sul Naviglio, cerca de Milán. Esta fábrica fue tomada por los obreros para evitar el vaciado de las instalaciones y que se llevaran las máquinas. La mayoría de los obreros despedidos participan en la cooperativa y han abierto la fábrica a la comunidad a través de la feria de segunda mano, que se ha transformado en un espacio fundamental de la economía solidaria a nivel territorial.
    Nexos entre las fábricas recuperadas

    En el último año, se han producido dos momentos de encuentro para construir un espacio político de conexión, debate y solidaridad entre las fábricas recuperadas europeas. El primero se produjo en noviembre de 2013, en Roma, en el encuentro Agora99. El segundo, en la fábrica recuperada Fralib, en enero de 2014, donde obreros de empresas recuperadas, activistas, militantes e investigadores de Europa y América Latina se reunieron para conectar experiencias y analizar los límites y los desafíos de nuevas experiencias de sindicalismo de base, imaginando la construcción concreta de redes de solidaridad para fortalecer la autogestión.

    Con el nombre de Encuentro regional euro-mediterraneo de Economía de los trabajadores, se generó un espacio de debate, investigación e intercambio impulsado por el programa Facultad Abierta de la Universidad de Buenos Aires y su director Andrés Ruggeri, en donde participaron obreros, activistas, investigadores desde Europa y América Latina. En estos días fue presentada por Darío Azzellini la página web sobre control obrero workerscontrol.net. El próximo, encuentro internacional será en Venezuela en julio 2015.

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    17/08/14
    Il Bauen Hotel di Buenos Aires, fallito nel 2001, è stato occupato nel 2003 trasformandosi in un simbolo delle imprese recuperate e del lavoro senza padroni. Dopo undici anni di autogestione arriva l'

    Siamo a Callao y Corrientes, pieno centro della capitale argentina. A poche centinaia di metri, il Congresso con la sua immensa piazza, dall’altro lato le librerie e i teatri di calle Corrientes, importantissima arteria della metropoli bonarense. Il Bauen hotel è un immenso palazzone di oltre venti piani, costruito durante la dittatura come hotel di lusso per le classi dominanti argentine e le delegazioni europee del Mondiale 1978, abbandonato dopo il licenziamento di tutti i dipendenti e il fallimento dell’impresa nel 2001 e rioccupato il 21 marzo 2003 da un gruppo di ex dipendenti. Da allora la cooperativa del Bauen è diventata un simbolo del movimento delle imprese recuperate, trasformandosi da luogo della speculazione, della corruzione e della truffa nei confronti dei lavoratori in esperimento di autogestione, cooperazione e liberazione.

    Il Bauen è stato costruito con un credito ottenuto dall’imprenditore Iurkovic grazie all’intercessione del viceammiraglio Lacoste, membro della dittatura militare. Un debito mai saldato, all’origine della controversia giudiziaria tra la vecchia proprietà, lo Stato e la cooperativa che autogestisce lo stabile. Non a caso negli ultimi anni le mobilitazioni del 24 marzo, anniversario del golpe militare, insistono molto sul tema delle complicità del potere economico con la giunta militare: è proprio questo uno dei casi in questione. “Iurkovich basura, vos sos la dictadura” cantano i lavoratori del Bauen, mettendo in luce vecchie e nuove connivenze dei potentati economici con la dittatura militare. E’ infatti proprio la società del figlio del vecchio proprietario ad aver richiesto, ed ottenuto dalla magistratura, il reintegro in possesso dello stabile.

    Un atto politico grave, un attacco pesante contro una esperienza importante del movimento dei lavoratori senza padrone, che oggi sta conoscendo una fase di interessante espansione al di là dell’esperienza argentina, anche nello spazio euromediterraneo, come emerso durante l’incontro internazionale “Economia dei lavoratori” tenutosi a Marsiglia a fine gennaio 2014. A due anni dall’ultima grande mobilitazione in occasione dell’inizio del processo è arrivata la sentenza del tribunale, proprio nel giorno dell’undicesimo anniversario dell’occupazione. Al Bauen era in corso un evento di dibattito pubblico al cui interno si stava tenendo la presentazione del IV rilevamento delle fabbriche recuperate argentine a cura di Facultad Abierta, programma di ricerca dell’Università di Buenos Aires.

    Andrès Ruggeri, direttore di Facultad Abierta - che ha partecipato ad un dibattito tenutosi ad Officine Zero di Roma lo scorso dicembre - tra gli organizzatori del meeting di gennaio a Marsiglia, ci aggiorna sui dati emersi da questa inchiesta. "Il quarto rilevamento delle imprese autogestite ci mostra come questo movimento continua a crescere in Argentina. Negli ultimi tre anni infatti vi sono stati 63 nuovi casi di occupazione e recupero di fabbriche, per cui arriviamo a contarne 311 per un totale di 13.500 lavoratori impiegati.” Dimostrando così che il fenomeno riguarda la contemporaneità e non solo l’emergenza della crisi del 2001, Andrès spiega che “i lavoratori argentini individuano nell’autogestione una reale via di uscita dalla disoccupazione e una forma di risoluzione del problema relativo alla chiusura delle fabbriche e delle imprese, tanto che tra le attuali imprese recuperate circa la metà sono nate successivamente alla crisi del 2001. Le fabbriche recuperate nate dalla crisi hanno dimostrato che è possibile mantenere in funzione una impresa e mantenere i propri posti di lavoro senza sfruttare altri lavoratori diventando così un esempio vivo dell’economia autogestita dei lavoratori”.

    "Stiamo attraversando un momento difficile, ma vogliamo resistere” ci dice Marcelo della cooperativa Bauen. Per il 15 e 16 aprile “stiamo costruendo due giornate di lotta con l’appoggio e la complicità di artisti, lavoratori, intellettuali, movimenti sociali, per rendere visibile la questione e per far si che la politica sappia rispondere affrontando la questione. Invitiamo a tutti ad appoggiarci, perché solidarizzare con il Bauen vuol dire difendere lo spazio di possibilità di tutte le imprese recuperate, perché non vi siano più lavoratori soli e abbandonati al loro destino di disoccupazione”.

    Federico, vicepresidente della cooperativa Bauen, conclude affermando che vi è “la possibilità concreta dello sgombero, ma devono tener conto della nostra capacità di resistenza, abbiamo l’appoggio da tanti movimenti sociali sia argentini che a livello globale. Noi affermiamo con forza che la cooperativa non abbandonerà lo stabile, che non accetteremo l’ordine di sgombero, e chiediamo che lo Stato nazionale prenda posizione anche rispetto alla relazione tra imprenditori e militari durante la dittatura. Visto che il debito con lo stato non è stato mai pagato in questi 36 anni, riteniamo che la proprietà sia dello Stato e non della famiglia del defunto imprenditore Iurkovic, per cui non vogliamo che l’edificio venga restituito alla Mercoteles, ma piuttosto che venga assegnato a chi lo autogestisce da undici anni”.

    Il 15 e il 16 aprile saranno le due giornate di mobilitazione e di solidarietà a livello internazionale per difendere e sostenere il Bauen, per affermare che l’hotel appartiene ai suoi lavoratori, ma non solo, che è un patrimonio comune delle lotte per l’emancipazione, contro lo sfruttamento, la disoccupazione, l’attacco ai diritti dei lavoratori. E in quanto tale, va difeso da tutti con determinazione.

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  • Spanish
    09/08/14
    La Autogestión Viva
    Proyectos y experiencias de la otra ecomomia al calor de la crisis

    Aunque el término autogestión se ha extendido entre nosotros de forma relativamente reciente -hay quien habla al respecto de un legado, principal, del mayo francés de 1968-lo cierto es que la presencia del concepto correspondiente es muy antigua. Basta con echar una ojeada, y es un ejemplo entre muchos, a las resoluciones de los sucesivos congresos celebrados por la CNT antes de la guerra civil para percatarse de que la idea en cuestión ya estaba presente, y claramente, allí. Y lo estaba de la mano de una apuesta en la que se daban cita la defensa de la democracia y la acción directas, la de la no delegación y la de la coordinación desde abajo, en un marco de reivindicación de la desmercantilización de las relaciones y de contestación cabal del capitalismo, lejos del Estado y de sus tentáculos.

    Queimada Ediciones - Primera Edición en Octubre del 2013

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  • Portuguese, Portugal
    23/07/14
    Uma pesquisa exploratória sobre o tecido sócioprodutivo em quatro comunidades da cidade do Rio de Janeiro

    Esta publicação é um produto do projeto Rio Economia Solidária (RIO ECOSOL), fruto de convênio da Prefeitura da Cidade do Rio de Janeiro com a Secretaria Nacional de Economia Solidária (Senaes). Este convênio está inserido nas ações promovidas pelo Ministério da Justiça, através do Programa Nacional de Segurança Pública com Cidadania (Pronasci), em comunidades reconhecidas como territórios da paz.

    Cabe ressaltar que este trabalho vem se somar às poucas experiências de pesquisa-ação  em favelas ou territórios populares, o que significa dizer que, com a sistematização da metodologia utilizada, esperamos contribuir para o avanço no campo teórico da pesquisa-ação sobre economia solidária em favelas e possibilitar mais ações e políticas públicas nesse sentido.

    A economia solidária em territórios populares: uma pesquisa exploratória sobre o tecido socioprodutivo em quatro comunidades da cidade do Rio de Janeiro / Celso Alexandre Souza de Alvear ... [et al]. -- Rio de Janeiro: Núcleo de Solidariedade Técnica da UFRJ / Secretaria Especial de Desenvolvimento Econômico Solidário, 2012.

    228 p. : il. ; 28 cm.

    ISBN 978-85-89669-60-3

    1. Economia Solidária 2. Economia Popular 3. Cooperatividade 4. Rio de Janeiro I. Alvear, Celso Alexandre. II. Título.

    CDU: 334

    CDD: 330

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  • Portuguese, Portugal
    23/07/14
    O documentário vai ao encontro de algumas empresas recuperadas para conhecer a história, a organização e os benefícios na vida dos trabalhadores e da comunidade argentina.

    Uma das respostas à constante precarização do trabalho, intrínseca à economia capitalista, são as empresas gestionadas pelos próprios trabalhadores. Na Argentina, a experiência é conhecida como Empresas Recuperadas, onde fábricas, hotéis, restaurantes, e outras instituições que estiveram sob ameaça de serem fechados, são ocupados e continuam a produzir sob gestão operária, sem patrões. O documentário Ocupar, Resistir, Produzir vai ao encontro de algumas empresas recuperadas para conhecer a história, a organização e os benefícios na vida dos trabalhadores e da comunidade argentina.

    2014

    Direção: Francisco Andrade Santos e Rafael Mellim, com a colaboração de Flavio Chedid e Henrique Novaes.

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  • Portuguese, Portugal
    23/07/14
    A Tomada (2004)
    The Take (2004)

    "Comovente e inspirador, "The Take" mostra a história de operários argentinos, desempregados após anos de políticas neoliberais, que tomam as indústrias falidas, reativando-as. 
    Única saída para sobreviver, enfrentam os mais diversos setores de poder. Força de vontade, coragem e solidariedade fazem parte da luta desses homens e mulheres."

    Canadá, 2004, 87min. - Direção: Avi Lewis, Escrito por: Naomi Klein

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  • Portuguese, Portugal
    23/07/14

    No início da década passada, com maior ênfase na Zona da Mata nordestina do Brasil, região da cana-de-açúcar, radicalizam-se vários tipos de lutas sociais de trabalhadores na busca de melhores condições de vida e trabalho, em especial no Estado de Pernambuco, na Usina Catende3. Essa experiência tem despertado interesses de analistas vários, decorrentes das tentativas e implementação de suas políticas, e que possibilitam mostrar a contribuição da Educação Popular para as lutas sociais, bem como, para a formulação de bases de um desenvolvimento local e regional.

    Este texto tem como base empírica a pesquisa Extensão universitária, autogestão e educação popular realizada na Companhia Agrícola Harmonia – Usina Catende – na Zona da Mata Sul, Estado de Pernambuco, Brasil.

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  • Portuguese, Portugal
    23/07/14
    Tensões entre formação ético-política e técnico-produtiva na produção capitalista e na produção associada

    O que os trabalhadores e trabalhadoras aprendem no processo de trabalho? O que apreendem sobre o mundo a sua volta? O que desejam da escola? Entre trabalhadores-estudantes e trabalhadores-educadores persistem velhas perguntas: Afinal, para que serve a escola? Aprender o quê? Para quê? Não são poucas as questões que permeiam as relações históricas entre trabalho e escola: como surge essa instituição disciplinadora de corpos e mentes? em que medida pode contribuir para a emancipação humana? Como dizia Shakespeare, “existem mais coisas entre o céu e a terra do que sonha a nossa vã filosofia”... e certamente, existem mil e uma coisas entre a velha dicotomia formação geral e formação específica, quer dizer, entre formação ético-política e formação técnico-produtiva.

    Texto derivado da intervenção na V Jornada EJATrabalhadores. Reflexão instigada pela discussão com o grupo de pesquisa do Prof. Dr. Telmo Adams, do Programa de Pós-Graduação em Educação da UNISINOS, realizada em abril/2013.

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