Array

  • Italian
    01/09/14

    Sin dal periodo coloniale, Bayamo è stata una regione dove ha predominato lo sviluppo dell'allevamento del bestiame; non è accaduto lo stesso con l'industria dello zucchero, a differenza di altre parti dell'Isola, dove ha rappresentato l'attività principale. Nel settore dello zucchero, durante gli anni '30, le manifestazioni della classe operaia -guidate principalmente dagli operai di Central Mabay, protagonisti di una delle lotte più importanti del movimento sindacale cubano- raggiunsero rilevanza nazionale.

    Testo completo nel .PDF allegato.

    Casa de la Nacionalidad Cubana, cnc@crisol.cult.cu
    En: Revista Electrónica Granma Ciencia. Vol. 9, n. 1, Enero-Abril de 2005
    ISSN 1027-975X
    http://www.grciencia.granma.inf.cu/

    Topic
    Ναι
    Ναι
    No
    off
    Όχι
  • Italian
    31/08/14
    L' importanza dei Consigli Operai e le ragioni del loro declino

    INTRODUZIONE

    Sessant'anni fa l'Assemblea Federale Jugoslava inaugurò l'autogestione operaia. Questo esperimento jugoslavo sèguita ancora oggi ad essere un'abbondante fonte di esperienze. Considero che sia utile imparare non solo dagli aspetti positivi di questa esperienza ma anche dagli errori e dai limiti jugoslavi.

    Il professor Stipe Šuvar, l'ultimo presidente (antinazionalista) della Lega dei Comunisti era solito descrivere l'esperienza jugoslava con toni ironici ma adeguati alla realtà materiale e culturale sottosviluppata, come un'"autogestione dei pastori", perché prima della Seconda guerra mondiale circa il 75% della popolazione jugoslava era composta da contadini. Edvard Kardelj, un dirigente comunista -forse il più importante tra gli ideatori del sistema jugoslavo di "autogestione"- ha rilevato in un'occasione che la produzione di elettricità nella Jugoslavia prebellica era 59 volte inferiore alla media europea.

    In termini di debolezza delle forze "soggettive", il Partito comunista jugoslavo fu illegale e segreto  per oltre vent'anni, dal 1920 al 1945, elemento che rafforzò i modelli non democratici, iper-centralisti e gerarchici e impedì lo sviluppo pieno del movimento operaio jugoslavo. La popolazione non aveva una sufficiente esperienza di lotta per la sua autoemancipazione; mancava anche della necessaria autostima, di coscienza di classe, dell'imprescindibile livello di educazione e di cultura politica democratica. E la pratica stalinista del Partito comunista, in particolare prima della sua rottura con Stalin, non era sicuramente di aiuto in questo senso.

    IL PERCORSO VERSO L'INNOVAZIONE

    Alcuni hanno identificato l'inizio dello sviluppo del sistema partecipativo jugoslavo nei Comitati antifascisti dei tempi della guerra. I Comitati furono creati nel 1941 come organi del potere duale e come espressione di un'iniziativa antifascista autonoma in Jugoslavia. Anche i dirigenti comunisti come Kardelj e Moša Pijade citavano, in seguito, questi comitati antifascisti come le prime forme di sviluppo di un percorso indipendente non stalinista in Jugoslavia. In effetti, il vero percorso alternativo, non stalinista, iniziò a delinearsi dopo la storica rottura con l'Unione Sovietica nel 1948; fu allora che i dirigenti jugoslavi si videro costretti a legittimare questo cambiamento politico in termini ideologici. A quanto pare, decisero di tornare ai  precedenti tentativi di introdurre l'autogestione (come la Comune di Parigi), così come a "Stato e rivoluzione" di Lenin etc. Questo periodo di retrospezione, introspezione e innovazione sfociò nell'abbandono del programma forzato di collettivizzazione, culminando con le prime leggi (1950) che diedero luogo alla socializzazione della maggior parte delle industrie nazionalizzate. Questo passo fu preceduto dalla costituzione del primo comitato operaio a Solin, una città costiera croata, nel 1949.

    Oltre ai comitati operai, i tentativi di introdurre esperienze di autogestione si estesero ai consigli locali e, in parte, ai consigli direttivi nelle istituzioni educative, culturali, scientifiche, sanitarie e di altro tipo. Non è questo l'àmbito per una discussione approfondita su queste istituzioni; è tuttavia necessario spendere qualche parola sulla cosiddetta "autogestione operaia". I comitati operai erano composti da tre rappresentanti operai ma non erano indipendenti. La loro funzione consisteva nel cogestire le imprese insieme agli esperti e ai direttori d'impresa che -secondo la normativa della divisione del lavoro- avevano la responsabilità di dare attuazione alle decisioni dei comitati operai e del funzionamento quotidiano dell'impresa.

    In queste nuove condizioni, la Jugoslavia iniziò a ricostruirsi, raggiungendo presto un impressionante grado di crescita e di sviluppo e la trasformazione da semi-colonia povera e rurale in paese fortemente indipendente, parzialmente sviluppato e industrializzato (anche se con disuguaglianze e disparità regionali ancora acute). Anche così, si raggiunse un enorme miglioramento del tenore di vita in àmbiti come l'educazione, la salute, la sanità, i diritti degli operai, la sicurezza sociale etc. L'assistenza sociale, la salute pubblica e la politica di edilizia sociale erano a un ottimo livello.

    Di fatto, la Jugoslavia aveva il più alto livello di diritti degli operai, anche su scala mondiale, anche se, naturalmente, non aveva il più alto tenore di vita. E' importante notare che lo sviluppo jugoslavo ci dimostra la possibilità di conseguire un alto livello di produttività in un sistema post-capitalista. Durante un certo periodo negli anni '60, la Jugoslavia aveva il secondo maggior tasso di crescita del PIL a livello mondiale, secondo solo al Giappone. Questo, ovviamente, è un buon argomento contro chi sostiene che la democrazia industriale o la partecipazione operaia è, in qualche modo, «inefficiente».

    LE LIMITAZIONI ALLA DEMOCRAZIA

    Ho già citato prima alcuni fattori oggettivi e soggettivi che hanno impedito che il sistema di autogestione si facesse più consistente; ora li affronterò più dettagliatamente.

    In primo luogo, l'economia democratica relativamente partecipativa a livello d'impresa funzionava all'interno del più ampio sistema autoritario del monopolio politico. Questa era la contraddizione fondamentale del sistema jugoslavo e la ragione per cui pretendere una democratizzazione politica più diretta era di somma importanza. Tuttavia, questo concetto di democratizzazione di classe alla fine fu sostituito da un decentramento nazionalista e burocratico che non andava a mettere in discussione la posizione delle élites politiche e burocratiche. Nonostante alcuni discutibili tentativi, il partito e la macchina dello Stato non arrivarono mai essere "autoliquidabili", e nella società non esisteva un'altra forza che potesse o avesse la capacità di realizzare questo compito al posto loro.

    In secondo luogo, e collegato con il primo, gli interventi sociali e la democratizzazione economica erano concepiti e diretti dall'alto e non dal movimento democratico dal basso. La triste realtà -prendendo in considerazione il basso livello della coscienza di classe e dell'autoorganizzazione popolare- è che, a parte il Partito comunista, non c'era nessuno che potesse farlo. Le implicazioni paternaliste di questa situazione complicavano ulteriormente lo sviluppo della coscienza democratica dell'autogestione.

    Un aspetto molto importante di questo problema consiste nel fatto che i sindacati non svolgevano un ruolo indipendente, come attivisti e di lotta, ma si consideravano piuttosto come una sorta di "cinghia di trasmissione" della linea del partito e del regime. In realtà, non esisteva un'opposizione socialista seria, né pluralismo nella vita politica, sociale e culturale. Non esistevano neppure mezzi di comunicazione liberi (convenzionali) e, ancor meno, forme di democrazia partecipativa nella produzione e regolazione dei mezzi di comunicazione.

    Un problema correlato con questo consisteva nel fatto che gli operai spesso non erano consapevoli dei loro diritti, o non li rivendicavano per altri motivi, cosìcché, per esempio, un'analisi del processo decisionale condotta in un comitato locale dimostrò che coloro che avrebbero dovuto essere i protagonisti dell'autogestione accettavano all'incirca il 98% delle proposte presentate dalla burocrazia. Allo stesso modo, i cittadini avevano il diritto di revocare i funzionari eletti, ma non lo esercitarono mai.

    In terzo luogo, lo scarso sviluppo delle forze produttive, sia oggettive che soggettive, rafforzò nelle imprese il ruolo dei burocrati e dei direttori che de facto le dirigevano al posto dei Comitati operai che svolgevano solamente la funzione di controllo.

    Questo stato di cose fu ulteriormente consolidato da una situazione in cui gli esperti erano più strettamente legati alle classi dirigenti tecnocratiche -spesso fortemente sostenute dal partito, e in particolare dalla burocrazia statale. Inoltre, questi esperti non erano realmente sottoposti al controllo dei comitati operai -che erano soggetti a rotazione e dunque suscettibili di frequenti cambi.

    Inoltre, non esisteva neppure una rete di istanze di elaborazione e sostegno che potesse prestare appoggio ai comitati operai nel loro ruolo democratico di pianificazione. Perciò, i comitati operai solo in poche occasioni erano in grado di proporre piani economici alternativi a quelli presentati dai direttori e dagli esperti. Inoltre, la burocrazia statale e le classi dirigenti mantennero il monopolio sulla produzione intensiva, cosicché -come dimostrò il dr. Ivan Jakopovic- negli anni Settanta e Ottanta il tasso di sfruttamento crebbe.

    Nelle sue ricerche, partendo da una serie di indicatori empirici, il professor Josip Obradovic (1972) arrivò alla conclusione che il potere e l'influenza della classe dirigente erano duecento volte maggiori rispetto a quelli che avevano gli operai impegnati nella produzione. Questa disparità di potere si accentuava ancora di più ai livelli decisionali più alti: i rappresentanti nei parlamenti nazionali e nell'Assemblea Generale erano in maggioranza membri del partito che godevano dell'appoggio dei gradi più elevati della burocrazia del partito.

    I direttori delle imprese e i politici dei partiti -anche se non sempre i membri ufficiali del partito- furono in realtà manipolati dall'apparato del Partito Comunista che diventava sempre più burocratico (il che andava di pari passo con lo sviluppo dei suoi interessi clientelari), malgrado fosse prevista l'auto-abolizione del partito come organo amministrativo, tanto che nel 1952 cambiò il nome in Lega Comunista. Questa riuscì a mantenere sia la sua posizione all'interno della società che un'essenziale omogeneità degli interessi burocratici mentre le masse, per la maggior parte, restarono disorganizzate, frammentate e manipolate dalle strutture decisionali economiche, sociali e politiche teoricamente a favore dell'autogestione (anche se in realtà era controllata dalla burocrazia).

    In quarto luogo, lo sviluppo di una cultura politica democratica era limitato anche dalla mentalità patriarcale. Questa si manifestava, in parte, con il non prendere mai seriamente in considerazione la possibilità di permettere la partecipazione degli alunni e degli studenti nelle decisioni a livello delle scuole primarie e secondarie. Era illogico sperare che alunni che durante il periodo più importante del loro sviluppo personale e sociale erano stati educati all'obbedienza anziché alla scuola della democrazia, potessero divenire degli individui capaci di esercitare autogestione.

    In quinto luogo, una gran parte della popolazione era in realtà esclusa dai processi di autogestione: si trattava ovviamente della popolazione rurale. L'unica eccezione in questo senso era una forma molto elementare di presa cooperativa di decisioni che si attuava nei consigli locali dei villaggi. Inoltre, l'esercito e il partito non erano sottoposti al controllo democratico dal basso. Un po' paradossalmente, la gerarchia delle relazioni dentro il partito e le sue relazioni con la società screditarono l'idea di autogestione in quanto tale agli occhi della popolazione. Aiutò anche i burocrati e i nazionalisti, come per esempio Slobodan  Milošević, a monopolizzare queste istituzioni.

    Non si prestava neppure sufficiente attenzione alla creazione di una cultura umanista e di un'autogestione culturale (il che in parte si può comprendere se si considera la fretta di accumulare ricchezza e innalzare il tenore materiale di vita). Mi riferisco qui alla cultura nel suo senso comune ma soprattutto nel senso gramsciano più ampio di "cultura integrale" e civiltà. La cultura ha grande importanza nel rompere la stretta divisione del lavoro per classi. Da un lato perché innalza il livello di istruzione degli operai e dei cittadini e rafforza le loro necessità e aspirazioni, dall'altro perché l'autogestione è insostenibile se non si estende alla riproduzione democratica di una nuova egemonia culturale socialista e autogestionaria.

    Tuttavia, quando gli interessi nazionalisti ripresero il ruolo principale, riapparve di nuovo -con tutta la sua forza- il peso del passato violento. Lottando contro il fascismo con metodi fascisti (il che era evidente soprattutto nei processi di massa condotti davanti ai tribunali militari e nelle esecuzioni sommarie senza processo nel periodo dopo la Guerra) e lottando contro lo stalinismo con metodi stalinisti (ad esempio, il campo di concentramento di Goli Otok), il nuovo regime jugoslavo creò sottoculture di odio e diffidenza che erano segrete e nascoste (e, inizialmente, minoritarie). Questa reazione nazionalista e filocapitalista erose fortemente la posizione dei valori umanisti nella società.

    LA CRISI DELLA RESPONSABILITÀ E LE INIZIATIVE

    Una serie di problemi aggiuntivi era legata al tema del mercato. Da un lato, le imprese non avevano autonomia di mercato, ed erano spesso sotto il controllo politico paternalista. Inoltre, il governo aveva la pericolosa abitudine di nazionalizzare le perdite prodotte dalle imprese improduttive. Di conseguenza, gli operai spesso non dipendevano dalle decisioni della loro autogestione, il che faceva venir meno il loro senso di responsabilità e, di seguito, la motivazione intrinseca e l'interesse ad aiutare se stessi, riducendo così anche l'impegno al raggiungimento della libertà tramite l'autogestione.

    Per altro verso, la mercantilizzazione e la mancanza di coesione tra le varie unità economiche di autogestione condussero (in particolare, a partire dalla fine degli anni Sessanta) a nuove disuguaglianze, a un enorme debito estero dovuto a crediti imprudenti, inflazione, penuria di beni e di alloggi etc. I principii del mercato promossero i propri interessi, concorrenza tra le imprese, consumismo ed estensione dell'influenza economica, politica e ideologica dell'Occidente, oltre ai ricatti destabilizzanti da parte del FMI. Insieme al crescente problema di "esteromania" (nella forma di una crescente adorazione acritica e imitazione dell'Occidente capitalista e altamente sviluppato), queste difficoltà economiche misero in luce i problemi del socialismo in un solo paese.

    Per quanto riguarda il dibattito sul mercato, alcuni autori (come ad esempio Catherine Samary, 1988) hanno prospettato la possibilità di raggiungere una "sintesi più alta" di programmazione e iniziativa attraverso una programmazione decentralizzata, democratica e partecipativa. Anche la Jugoslavia arrivò a stabilire delle forme di programmazione decentralizzata per mezzo di una comunicazione economica e programmazione comune dove parteciparono i delegati (dirigenti professionali) delle organizzazioni economiche e sociali che consentirono una raccolta di informazioni su domanda e offerta più rapida e meno dannosa rispetto a quella che poteva fornire il mercato. Questa e altre forme di programmazione decentralizzata potevano apportare numerosi vantaggi del sistema di mercato rispetto a un sistema con una programmazione burocratica e centralizzata ma senza gli schiaffi che spesso la "mano invisibile" riserva all'economia e alla società.

    Questa terza via, che si può considerare come una via intermedia tra la programmazione centrale e il "socialismo di mercato", convenzionalmente inteso, rimase solo una possibilità astratta, come pure la prospettiva del socialismo democratico in generale. La democratizzazione autentica, attraverso la lotta sociale dal basso, non era un'opzione reale, se si considera l'inesistenza di un'opposizione politica e sindacale organizzata e progressista al regime e al sistema esistente. I comunisti e i socialisti jugoslavi non seppero valorizzare questo dinamismo interno del sistema attraverso il pluralismo politico, sociale e culturale, che è la precondizione essenziale per l'avanzamento e la sostenibilità a lungo termine del nuovo ordine post-capitalista. L'esperienza di un vero pluralismo democratico e partecipativo è in realtà la strada migliore per uno sviluppo sociale egualitario.

    Riassumendo, l'esperimento di autogestione jugoslavo, malgrado fosse progettato a lungo termine, non era né sufficientemente completo né aveva sufficienti vincoli organici con le masse. Ma anche così resta il tentativo più completo della Storia di introdurre l'autogestione popolare. La sua analisi è perciò un buon punto di partenza per il futuro.

    RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

     JAKOPOVÍC, I., Eksploatacija i kraj socijalizma (Exploitation and the End of
    Socialism), 1989., manuscrito no publicado .
    OBRADOVÍC, J., Distribucija participacije (Distribution of Participation), Revija
    za sociologiju, No.1, 1972.
    SAMARY, C., Plan, market and democracy: The experience of the so-called
    socialist countries, International Institute for Research and Education,
    Amsterdam, 1988.

    Publicado en
    Revista Venezolana de Economía Social
    Año 10, n. 19, Enero - Junio 2010, pp. 23-30
    ISSN 1317-5734
    Universidad de Los Andes (ULA) NURR-Trujillo. CIRIEC-Venezuela
    revistacayapa@cantv.net
    (Traducción: Marianela Díaz y Benito Díaz / mb)

    Questo lavoro propone riflessioni sul processo di cambiamenti sociali nella Jugoslavia socialista e del suo contributo storico agli esperimenti di autogestione. Vengono descritti in generale le origini e gli sviluppi positivi sino alle successive trasformazioni che hanno condotto a un declino dell'importanza dei Consigli Operai e dell'autogestione. Si considera che questo è il più grande tentativo storico di introdurre l'autogestione popolare. Pertanto, conoscere questa esperienza è importante in questi tempi di cambiamento e di proposte da considerare nella formazione e valutazione delle politiche pubbliche.

    Topic
    Ναι
    Ναι
    No
    off
    Όχι
  • Italian
    31/08/14
    Il caso del Movimento Nazionale delle Imprese Recuperate

    Riassunto

    Questo lavoro si propone di contribuire alla comprensione delle strategie politiche che sono state utilizzate dal Movimento Nazionale delle Imprese Recuperate (MNER, Movimiento Nacional de Empresas Recuperadas), esaminando i rapporti instaurati con il sistema politico (governativo) e l'imprenditoria nazionale. Esaminiamo in che misura le opportunità politiche hanno condotto il MNER a definire nuove strategie, e il loro impatto sul movimento. L'analisi parte dall'esplorazione documentale di testi prodotti dal e sul MNER . Interviste in profondità sono state condotte con membri ed ex membri di questo movimento. L'azione collettiva dei lavoratori (occupazione e recupero delle imprese), ha contribuito alla definizione di nuove opportunità politiche e ha modificato la struttura politica del MNER, contribuendo all'estensione di queste opportunità all'imprenditoria nazionale e al Governo.


    Testo in spagnolo nel .PDF allegato.

    Giugno 2011.

    Topic
    Ναι
    Ναι
    No
    off
    Όχι
  • Italian
    31/08/14
    Rapporto della terza indagine sulle imprese recuperate dai lavoratori

    La terza indagine sulle Imprese Recuperate dai Lavoratori (ERT) del programma "Facultad Abierta" cerca di stabilire con la massima precisione lo stato attuale delle imprese autogestite in Argentina. Il nostro programma ha già sviluppato altri due rapporti generali, nel 2002/2003 il primo e nel 2004 il secondo, e uno della Città Autonoma di Buenos Aires nel 2007, nell'àmbito di un convegno con l'Istituto Nazionale di Tecnologia Industriale (INTI). Si occupa anche, in modo permanente, del Centro di Documentazione delle Imprese Recuperate, che ha sede nella Cooperativa Chilavert. 

    L'obiettivo di queste indagini è quello di fornire una panoramica dello stato delle ERT, cercando di definire la portata del fenomeno in termini quantitativi e qualitativi, in base ai dati che un gruppo di ricerca interdisciplinare, composto da membri del Programma e studenti volontari delle facoltà di Lettere e Filosofia e Scienze sociali, ha ottenuto visitando una notevole quantità di imprese recuperate del paese. I dati risultanti, forniti in modo assolutamente volontario dai lavoratori, mirano a tre principali obiettivi: in primo luogo, dare ai lavoratori e alle loro organizzazioni informazioni dettagliate sulle loro problematiche in quanto collettivo sociale, economico e politico; in secondo luogo, fornire elementi che permettano di orientare un'agenda di discussione politica per l'elaborazione di politiche che consolidino e migliorino i processi di autogestione dei lavoratori; infine, stabilire un quadro aggiornato di analisi per i ricercatori, gli intellettuali e i militanti sociali e politici interessati al fenomeno delle ERT, sia a livello nazionale che internazionale.

    Quando abbiamo deciso di effettuare questa nuova indagine, abbiamo avvertito la necessità di caratterizzare il tema delle imprese recuperate dai lavoratori mettendo in evidenza le sue dimensioni e caratteristiche attuali. La maggior parte dei dati che circolano e supportano non solo lavori accademici ma anche azioni politiche, progetti di legge, sentenze, interpretazioni teoriche e persino le stesse rivendicazioni dei lavoratori, sono ormai datati, o parziali. Inoltre, una serie di affermazioni e pregiudizi infondati, sono basati, tra l'altro, sulla mancanza di aggiornamento dei dati di base su questo fenomeno, in concomitanza con il declino della visibilità pubblica e dell'attenzione mediatica, una volta terminato il momento delle grandi mobilitazioni dopo la crisi del 2001.

    Molte di queste versioni liquidano le ERT come uno degli effetti di quella crisi, effetti scomparsi con il riflusso della mobilitazione sociale; come modalità di gestione economica prodotte dalla crisi che, dopo il recupero dell'economia nazionale, sopravvivono solo come testimonianza o relitto di quei drammatici momenti. Niente di più lontano dalla realtà, come i lavoratori e chi li ha accompagnati nella loro lotta sanno, ma vicino alla palese volontà di ignorare l'epopea di uomini e donne che sono riusciti a recuperare ciò che è stato abbandonato dal capitale, e all'ignoranza che nasce dal disinteresse di alcuni settori sociali e politici per i problemi della classe lavoratrice.

    L'indagine qui presentata ha anche l'ambizione, come tutte le azioni di questo programma, di continuare a consolidare il dibattito sui compiti e il ruolo dell'Università Pubblica e delle discipline sociali. Se il sapere che si produce nei chiostri universitari non serve per rafforzare coloro che sostengono con il loro sforzo il finanziamento pubblico, se non serve alla società che è sovente vittima delle politiche che tecnici e quadri usciti da questa stessa Università hanno progettato e applicato nel corso degli anni, non vediamo alcun senso nella produzione di questo sapere.

    In questa ricerca, come abbiamo affermato in precedenti occasioni, è la sinergìa dei lavoratori protagonisti di questo processo -grazie alla loro collaborazione nel fornire senza riserve i dati richiesti- con gli studenti e gli studiosi di una decina di percorsi di studio dell'Università di Buenos Aires, ad aver consentito la produzione questo materiale. Ci auguriamo che sia utile non solo a ricercatori e accademici, oltre che ai lavoratori delle imprese recuperate. Auspichiamo che anche chi deve legiferare, risolvere i procedimenti giudiziari e attuare le politiche, possa incontrare in questo rapporto materiali e dati che aiutino a meglio comprendere la lotta dei lavoratori e delle lavoratrici delle imprese recuperate e che, di conseguenza, possa operare per fornire all'autogestione operaia in Argentina l'àmbito di appoggio pubblico che si merita.

    Andrés Ruggeri, Direttore del programma "Facultad Abierta".
    Buenos Aires, ottobre 2010.

    Testo completo del Rapporto nel .PDF allegato.

    Media
    Ναι
    Ναι
    No
    off
    Όχι
  • Italian
    31/08/14

    A partire dagli anni '90 [in Argentina, ndt] numerose imprese furono recuperate dai lavoratori con l'obiettivo principale di difendere i posti di lavoro e mantenerli attivi. Intorno a questo fenomeno, che riguarda circa 180 unità produttive in tutto il paese, si apre un insieme di processi sociali, dinamiche politiche, strategie giuridiche e sviluppi economici che rendono questa tematica ricca e complessa. Queste imprese rappresentano forse una delle punte più drammatiche della distruzione sistematica dell'apparato produttivo e della lotta dei lavoratori per conservare i posti di lavoro.

    [...]

    Gabriel Fajn è docente di Sociologia delle organizzazioni presso la Facoltà di Scienze sociali dell'Università di Buenos Aires e Coordinatore del Dipartimento di Scienze sociali del Centro culturale della cooperazione.

    Geographical
    Ναι
    Ναι
    No
    off
    Όχι
  • Italian
    31/08/14
    Fabbriche e imprese recuperate nella città di Buenos Aires

    Introduzione

    Le proteste popolari del dicembre 2001 evidenziarono la necessità di un cambiamento nel modello economico e politico sino a quel momento dominante in Argentina. In quella circostanza assunse maggior visibilità un fenomeno che già aveva iniziato a svilupparsi dalla fine degli anni '90: le imprese e le fabbriche recuperate dai lavoratori.

    L'occupazione delle fabbriche non è un fatto nuovo. Dagli anni '50 i lavoratori hanno occupato centinaia di fabbriche, per brevi periodi, come parte di strategie di lotta di carattere sindacale e politico. Negli anni '80 si sono registrati casi isolati di occupazione e controllo operaio delle fabbriche.

    [...]

     

    LabourAgain Publications

    Topic
    Ναι
    Ναι
    No
    off
    Όχι
  • Italian
    30/08/14
    Recensione

    Quest’opera è una raccolta di articoli che offrono una panoramica storica e globale delle lotte dei lavoratori per conquistare il controllo dei loro posti di lavoro, dell’economia e della governance (governo d’impresa).

    Molto ben strutturato sia dal punto di vista cronologico che tematico, copre il periodo dal 19° secolo fino agli inizi del 21°; partendo da un quadro storico generale entra poi nel merito di analisi più specifiche su come la democrazia operaia sia stata attuata in casi particolari.

    Il libro illustra la lotta per la democrazia economica, le sue varie possibilità  e i limiti posti dal più ampio contesto delle lotte politiche interne sia nei paese capitalisti che in quelli socialisti.

    Nella loro analisi gli autori partono dal punto di vista dei lavoratori comuni, da come cercano di influenzare il loro ambiente di lavoro e la vita di comunità. Vengono anche messi in evidenza i diversi interessi politici che hanno contrastato l'autogestione dei lavoratori.

    I responsabili sono non solo i governi capitalisti e gli imprenditori ma, in molti casi, le leadership autoritarie di partiti politici socialisti o comunisti e dei sindacati. In questo contesto gli sforzi dei lavoratori spesso non hanno avuto successo o sono stati di breve durata.

    La prima parte è una panoramica storica del movimento operaio rivoluzionario in Russia, Italia, Spagna, Francia, Germania e Gran Bretagna nella prima metà del ventesimo secolo, con un breve cenno al Cile degli anni ’70. Illustra l’economia politica nazionale e internazionale in ogni Stato e il rapporto con i dibattiti in corso riguardo alla migliore strategia per arrivare a un’economia comunitaria e socializzata. Le analisi di questi complicati processi, sintetizzate in diversi brevi articoli, sono interessanti perché non solo svelano i rapporti tra i diversi contendenti ma evidenziano anche le teorie che hanno ispirato le mobilitazioni.

    Anche se può essere frustrante la vastità degli argomenti trattati e la mancanza di riferimenti a realtà vissute nel processo democratico, questa parte presenta un’indispensabile panoramica delle politiche economiche all’origine delle lotte e serve come base per la comprensione dei casi più specifici analizzati nel restodel libro.

    La II parte esamina i movimenti anteriori con riferimento all’aumento del controllo operaio in Germania, Russia, Italia e Spagna. Gli autori esaminano la struttura organizzativa dei posti di lavoro democratici e le lotte di potere tra queste nuove forme di organizzazione e quelle pre-esistenti come i sindacati e i partiti socialisti, comunisti o socialdemocratici. Questi capitoli rendono il contenuto della I parte più comprensibile anche se non sono sufficientemente esaustivi.

    Basandosi su due studi specifici, Yugoslavia e Polonia, nella III parte gli autori descrivono le lotte per il controllo operaio in un regime di socialismo di stato, mostrando i meccanismi con i quali lo stato manteneva il controllo nel posto di lavoro, negando i tentativi di autogestione dei lavoratori non solo del loro posto di lavoro ma anche dell’economia.

    La IV parte esamina le lotte dei lavoratori per prendere il controllo a Giava subito dopo l’indipendenza dell’indonesia (1945-46), in Algeria negli anni ’60, in Argentina e Portogallo negli anni ’70. In tutti questi casi, c’è una breve descrizione del contesto storico del colonialismo o del governo militare, una spiegazione dei fattori che hanno portato ai tentativi di autogestione e un resoconto dei conflitti politici che ne hanno determinato la scomparsa. Si può avere un’idea generale di queste nascenti strutture democratiche, la minaccia che hanno rappresentato sia per i poteri di destra che per quelli di sinistra, e i meccanismi utilizzati da questi poteri per reprimere la minaccia.

    Nella V parte si torna all’Europa e agli Stati Uniti con un’analisi delle lotte dei lavoratori in Gran Bretagna, Stati Uniti, Italia e Canada. Alan Tuckman affronta gli sforzi dei lavoratori britannici a partire dagli anni ’70, e attraverso il Thacherismo negli anni ’80. Meno conosciute sono le lotte negli Stati Uniti. Immanuel Ness ne fa un riassunto conciso dalle mobilitazioni dei lavoratori negli anni ’30 al loro declino malgrado continui sforzi dagli anni '40 fino agli anni '90 concludendo con lo sciopero selvaggio del 2008 alla Republic factory di Chicago.

    Patrick Cuninghame racconta il movimento italiano dell'Autonomia operaia negli anni ’70 descrivendo il rapporto dei lavoratori di questo movimento con i delegati, i sindacati, le avanguardie di fabbrica e i loro tentativi di azione diretta, sfociati in repressione e sconfitta.

    Elaine Bernard racconta la storia dell’occupazione dei lavoratori della compagnia telefonica nella British Columbia nei primi anni ’80. Questo caso è molto interessante perché i lavoratori hanno abbandonato lo sciopero tradizionale come arma contro l’impresa e hanno invece deciso di assumere la gestione del luogo di produzione fornendo agli utenti il servizio telefonico "186 Socialismo e Democrazia". Questo racconto dettagliato del movimento e contromovimento illustra bene la capacità dei lavoratori di gestire il posto di lavoro con molto successo, anche se solo per un breve periodo.

    L’ultima sezione descrive le lotte dagli anni ’90 ai giorni nostri. Aru Kumar Sen analizza due mobilitazioni nel West Bengala, affrontando le possibilità e i limiti della democrazia operaia nel contesto di uno stato indiano governato dai comunisti che funzioni all'interno del sistema capitalista nazionale.

    Marina Kabat, nella sua analisi sull’Argentina, mette in evidenza il ruolo delle cooperative nel sostenere un'economia capitalista, sottolineando che il governo preferisce l'approccio dell’acquisizione dei lavoratori (bye outs) – per cui i lavoratori si assumono i debiti dell’impresa – a quello della nazionalizzazione.

    L’articolo di Dario Azzellini affronta le lotte per il controllo operaio in Venezuela, descrivendo gli sforzi del governo per incoraggiare la proprietà e l’autogestione dei lavoratori e analizzandone i risultati.

    Infine, Mauricio Sardade Faria e Henrique T. Novaes affrontano le esperienze delle fabbriche recuperate in Brasile, riconoscendo il ruolo chiave svolto dai sindacati nel realizzare l’autogestione.

    Un argomento centrale nella VI parte è la differenza tra due modelli, l'impresa cooperativa contro l'azienda nazionalizzata gestita dai lavoratori.

    Mentre gli autori tendono a vedere le cooperative come manovrabili a sostegno del sistema capitalista, la democratizzazione delle imprese nazionalizzate si dimostra difficile da realizzare.

    In tutto il libro gli autori si cimentano con due tipi di battaglie: la prima contro la logica del capitalismo e l’altra contro la logica dello Stato burocratico e autoritario.

    Mentre gli autori incoraggiano i lettori a riconoscere il potenziale dell’autogestione, quello che rimane è un generale senso di sconfitta perché i lavoratori non sono comunque riusciti a liberarsi né dal capitalismo né dalla burocrazia.

    Mancano riferimenti a molte micro-analisi dei rapporti sociali di produzione come quelle che analizzano Mondragon, Beedi coops in India, Cruz Azul e Pascual in Messico e altre.

    Il presupposto di fondo è che l'economia di mercato equivale al capitalismo, che vi è una sola interpretazione di uguaglianza ed equità (parità di retribuzione per tutti i tipi di lavoro), e che l'unico modo per superare l'alienazione è di porre fine alla divisione del lavoro.

    Molti di coloro che studiano da vicino le forme alternative di organizzazione del lavoro mettono in dubbio queste prese di posizione, ma queste sfide non sono affrontate a fondo in questi articoli, a parte alcuni brevi commenti nell’ultima sezione.

    Tuttavia, questo è un testo prezioso per gli studenti universitari e i laureati che intendono approfondire questi temi, così come per gli attivistio i professionisti.

    Gli studi offrono un’ottima opportunità di ampliare la discussione sui paradossi che si presentano al desiderio di esercitare il controllo operaio, le potenzialità e i limiti delle cooperative rispetto alle imprese nazionalizzate e lo scontro tra le tendenze burocratiche e oligarchiche dei sindacati e la ricerca dei lavoratori per realizzare la democrazia partecipativa. Questa raccolta offre anche un ottimo compendio degli sforzi dei lavoratori in tutto il mondo per ottenere il controllo sul loro posto di lavoro, sull’economia e la società.


    © 2012 Sarah Hernandez
    Division of Social Sciences - New College of Florida
    shernandez@ncf.edu

    Socialism and Democracy, Vol. 26, n. 3, november 2012, pp.185–188.
    ISSN 0885-4300 print/ISSN 1745-2635 online, DOI 10.1080/08854300.2012.714570.


    Traduzione italiana di Graziella Almasio.

    Topic
    Ναι
    Ναι
    No
    off
    Όχι
  • Italian
    30/08/14

    Giovedì 12 dicembre 2013, a partire dalle 20.30 – verrà presentato presso la Ri-Maflow, un progetto di economia solidale che mette insieme due percorsi – i braccianti africani, i produttori calabresi della rete SOS Rosarno che da anni lottano contro ‘ndrangheta e sfruttamento e gli operai licenziati della Maflow che hanno avviato un progetto di riconversione industriale dell’ex stabilimento, in chiave collettiva, indirizzata al riciclo e riuso dei materiali elettronici ed elettromeccanici e della produzione di servizi al quartiere.

    “Inferno Rosarno” titolava qualche settimana fa il Manifesto riferendosi alle condizioni di sfruttamento della manodopera migrante che accorre nella Piana di Gioia Tauro per
    la stagione degli agrumi. Una situazione esplosiva che - nell’indifferenza generale - si riproduce puntuale ogni anno con migliaia di persone costrette a vivere e lavorare in condizioni disumane in un territorio caratterizzato dalla presenza pervasiva della ‘ndrangheta e dallo strapotere che multinazionali e grande distribuzione esercitano sui prezzi agricoli.

    Perché SOS Rosarno
    Parte da qui la scelta di supportare SOS Rosarno, la rete creata da piccoli produttori locali e da persone impegnate a realizzare un modello di agricoltura, relazioni e società basato sulla sostenibilità, sull’equità e sulla solidarietà. Non un modello astratto, ma una pratica quotidiana che mette insieme i deboli con i deboli e che sta evolvendo in un percorso interetnico di costruzione dell’alternativa: dai primi progetti di economia etica in solidarietà con i braccianti africani degli anni scorsi, alla creazione di una vera e propria cooperativa di lavoro formata da afrocalabresi e calabresi di
    nascita per produrre ortaggi, conserve e marmellate, coordinare arrivi e accoglienza nell’ambito dei progetti di turismo responsabile e organizzare eventi di carattere culturale e interculturale. Questa l’evoluzione più recente del progetto di SOS Rosarno che ha deciso di includere da subito i prodotti della cooperativa nel proprio listino e di destinare allo sviluppo della stessa anche metà della quota di solidarietà che si versa con l’acquisto dei prodotti di SOS Rosarno, quota riservata appunto ai progetti di solidarietà ed esplicitata con la massima trasparenza come tutte le altre componenti che concorrono a formare il prezzo finale degli agrumi.

    Agrumi e molto altro
    Gli agrumi sono il prodotto “principe” della zona: limoni, mandarini, clementine e arance succose. Qui si approvvigionano i colossi dei soft drink come la Coca Cola che con le arance di Rosarno produce la Fanta. La proprietà degli agrumeti è molto frazionata e ciò rende i produttori ancora più deboli nei confronti dei grossisti che comprano in blocco il raccolto per conto delle multinazionali. La ‘ndrangheta ha in mano il business e il caporalato, le pressioni sono forti e molti produttori non hanno alternative tra il piegarsi o il lasciare marcire le arance sugli alberi abbandonando la loro terra. Gli agrumi di SOS Rosarno sono prodotti da piccole aziende biologiche che autoorganizzandosi e mettendosi in rete sono riuscite a sfuggire a questa filiera di sfruttamento. Il prodotto è certificato bio ed è ottimo, ma non è standardizzato: trattandosi di piccoli appezzamenti in cui convivono piante di differenti varietà, la cassetta contiene frutti di diversi calibri e tipologie, perché raggiunto il giusto grado di
    maturazione il frutto viene raccolto e spedito a prescindere che si tratti di una navellina, di una tarocco o di un’altra varietà ancora. Una cassetta di arance o di mandarini è dunque un piccolo concentrato di biodiversità.
    Agli agrumi si aggiungono le squisite marmellate di mandarini e arance, l’olio extravergine, i pecorini freschi e la ‘nduja, passando per salumi tradizionali, miele, cosmetici naturali e vino. Tutti prodotti certificati bio, realizzati nella zona dagli aderenti al progetto di SOS Rosarno. E poi il turismo responsabile e la grande, difficile scommessa, del recupero del borgo medioevale di Nicotera: un progetto in parte già avviato e per il quale SOS Rosarno chiede appoggio al mondo dei gruppi d’acquisto solidale.

    Perché Ri-MAFLOW
    L’associazione Occupy Maflow, costituita dai lavoratori licenziati della Maflow, ha sede a Trezzano sul Naviglio nell’omonima fabbrica occupata e ha avviato in questi mesi molte attività nell’ambito dell’economia solidale, del riciclo e del riuso oltreché nel settore dei servizi ricreativi e culturali (è stata da poco inaugurata una sala prove musicale in un box-laboratorio insonorizzato, un tempo utilizzato per lo sviluppo della componentistica auto). Attività che servono a dare una base concreta al tentativo di costruire una prospettiva economico-lavorativa sostenibile e solidale e che al tempo
    stesso rappresentano la naturale e coerente evoluzione della decisione di andare avanti insieme autogestendosi. Nell’ambito dell’associazione, Fuorimercato è l’attività che organizza la distribuzione dei prodotti del Parco agricolo Sud Milano in collaborazione con il Distretto di economia solidale rurale e con il circuito dei Gas.
    Un percorso che non poteva non incrociare quello così diverso eppure per tanti versi così simile di SOS Rosarno: il coinvolgimento di Ri-MAFLOW permette di innescare su Milano un processo virtuoso tutto interno all’economia solidale. Un processo non solo economico e solidaristico, ma capace anche di stimolare una riflessione profonda sulle strade finora intraprese dal mondo del consumo critico e dai produttori per ragionare insieme sul futuro, sui modi di fare rete, incidere e produrre cambiamento.
    Sarebbe bello che Ri-MAFLOW, la ex fabbrica dove abbiamo scelto di presentare il progetto, divenisse uno dei luoghi di riferimento per discutere e confrontarsi su questi temi.

    Logistica e ultimo miglio
    Quest’anno SOS Rosarno si è organizzata con un trasportatore di fiducia per i viaggi dalla Calabria al Centro-Nord, Ri-MAFLOW farà da piattaforma logistica per Milano e per i comuni limitrofi e l’uomo di SOS Rosarno a Milano si occuperà di distribuire i prodotti ai Gas e parteciperà anche ai mercati locali come quello organizzato a Cascina Cuccagna. Questa organizzazione logistica, di cui si potrebbero utilmente avvalere anche altri progetti e iniziative nell’ambito dell’economia solidale, va sostenuta e ha ovviamente dei costi che verranno coperti con una specifica quota di solidarietà (vedi prezzo trasparente).
    Ecco tutte le componenti che concorrono a formare il prezzo finale degli agrumi, inclusa la quota di solidarietà per Ri-MAFLOW e la copertura dei costi per la distribuzione sull’ultimo miglio:
    Clementine/Mandarini 2,20 €/Kg: Raccolta 0,13€, Lavorazione 0,30€, Trasporto Sud-Nord 0,16€, Promozione 0,16€, Quota solidarietà migranti 0,05€, Produttore 0,85€, Quota di solidarietà Ri-MAFLOW 0,55€.
    Arance da succo 1,50 €/Kg: Raccolta 0,09€, Lavorazione 0,30€, Trasporto Sud-Nord 0,16€, Promozione 0,08€, Quota solidarietà migranti 0,05€, Produttore 0,27€, Quota solidarietà Ri-MAFLOW 0,55 €.
    Arance da tavola 1,80 €/Kg: Raccolta 0,09€, Lavorazione 0,30€, Trasporto Sud-Nord 0,16€, Promozione 0,13€, Quota solidarietà migranti 0,05€, Produttore 0,52€, Quota solidarietà Ri-MAFLOW.

    Per tutti gli altri prodotti a listino la quota per progetti solidarietà migranti è del 5% e vi è una maggiorazione di 1€/kg (o di 1€ a pezzo) per compensare i maggiori costi di trasporto, la maggiore complessità di gestione e per contribuire allo sviluppo di questa piattaforma logistica dell’economia solidale. Nel foglio si possono ordinare anche dei bellissimi cesti natalizi il cui prezzo omnicomprensivo è di 45 e 65€ (compresa la quota solidarietà RiMAFLOW di 5€): composizione e descrizione dei cesti la trovate qui.

    Contatti & ordini
    Per ordinare i prodotti di SOS Rosarno chiediamo a tutti i referenti dei Gas di utilizzare il foglio elettronico allegato indicando le quantità totali acquistate dal singolo Gas e di farsi poi carico della ripartizione dei prodotti tra i singoli gasisti. Questo per ridurre al minimo i possibili errori in un ordine tanto complesso. Gli ordini vanno indirizzati a pacobrigante@gmail.com concordando anche giorni e
    orari della consegna.

    SOS Rosarno e FuoriMercato in collaborazione con DESR Parco Sud e Gas del Sole

    Topic
    Ναι
    Ναι
    No
    off
    Όχι
  • French
    28/08/14
    Dans la banlieue industrielle de Milan, des ouvriers tentent de relancer une activité dans leur ancienne usine de pièces automobiles. Ateliers et chaînes de production accueillent désormais un centre

    « Piano piano », les 30 000 m2 de l’usine Maflow, désertée fin 2012, ont repris vie. L’histoire de cette fabrique de pièces automobiles de la banlieue de Milan aurait pourtant pu se terminer comme beaucoup d’autres. Le processus est déjà vu maintes fois. Une usine mise en faillite malgré une activité prospère. Le rachat - en liquidation judiciaire - par un groupe qui lorgne sur les machines et les brevets. Puis la délocalisation des machines vers la Pologne, deux ans plus tard. Mais à la Maflow un nouveau chapitre est en train de s’écrire. Les trois ans de lutte et la rencontre avec des militants politiques ont rendu possible l’occupation de l’immense usine, sa remise sur pied après le pillage de son réseau électrique, et la relance de petites activités.

    Un an après le lancement du projet « Ri-maflow », fondé sur le principe du recyclage, 23 personnes y travaillent, dont une moitié d’anciens ouvriers de l’usine. Le week-end, un marché aux puces fait vivre le lieu et ramène des clients devant un petit bar récupéré dans un hôpital de Milan. Des anciens de l’usine ont développé un groupe d’achat équitable de produits agricoles de la plaine du Pô. Un studio de musique a pris ses quartiers dans la salle des tests des composants automobiles. À côté, un atelier de réparation de vélos, une petite production de liqueur de citron Limoncello, une salle de concert et un atelier d’artistes. De quoi faire vivre les lieux et tenter de constituer un capital pour relancer une activité de recyclage de matériel informatique et domestique, qui elle aussi a démarré sur une partie des locaux.

    Recyclage, commerce équitable et discothèque

    Hors des heures du marché, l’immense bâtisse en tôle s’anime des allers-retours de la poignée de travailleurs. Le soir, après quelques verres de Limoncello, Elvio pousse les watts et allume les feux d’une petite discothèque installée dans un hall qui sert de salle de réunion. Une joyeuse bande de potes. Même si Rimaflow, « ce n’est pas facile », confient-ils de concert. « En Italie il n’y a pas d’usines occupées. Nous sommes isolés. Alors pour le moment, nous essayons juste de résister », raconte Antonio Galliazzo, qui travaille à l’accueil, à la commission culturelle et sur le site internet de Rimaflow. « D’ailleurs nous avons trinqué au 72ème jour d’occupation, s’amuse Gigi Malabarba, un des pères du projet Rimaflow. Nous avions tenu un jour de plus que la commune de Paris ! »

    Video:
    Rimaflow : dans leur usine occupée, des ouvriers aspirent à bâtir une « citadelle de l’autre économie »

    Pour le moment, les ouvriers se payent environ 400 euros par mois pour une quarantaine d’heures de travail par semaine. Un pécule que beaucoup complètent par le chômage (environ 60 % de leur ancien salaire), la retraite ou des petits boulots. « Notre activité est encore celle d’une association », explique Hicham M Sabhia, qui organise le marché derrière un imposant bureau en bois, récupéré lui aussi. Une association qui ne bénéficie d’aucun soutien des pouvoirs publics. L’équipe sortante à la mairie de Trezzano a d’ailleurs implosé en mai 2013 dans une affaire de corruption, créant un vide politique dans la ville où siège l’usine.

    Syndrome de Stockholm ouvrier

    Rimaflow, c’est aussi le pari d’une organisation en autogestion. « Il ne faudrait pas que cela devienne une exploitation des travailleurs par les travailleurs », plaisante Luca Federici, ouvrier de 34 ans et militant du réseau Communia, qui s’agite au quatre coins de l’usine. « C’est un effort permanent, nous devons constamment nous entendre et confronter les points de vue », raconte Massimo Bollini, ancien cariste de la Maflow engagé dans le projet. « Ce n’est pas évident à faire fonctionner, car la plupart des ouvriers ne sont pas politisés », ajoute Hicham M Sabhia. L’essence de Rimaflow, c’est l’impossibilité de retrouver un travail, dans une région sinistrée par les fermetures d’usines en cascades. L’idéal politique est moins unanimement partagé.

    Depuis deux mois environ, l’atelier de recyclage connaît ainsi une baisse de régime. « Nous n’arrivons pas à créer un groupe stable de 5 personnes, raconte Luca Federici. C’est une organisation du travail très nouvelle pour certains, après vingt ans passés à sa place sur la chaîne de production, il est difficile de fonctionner en autogestion. Il y avait pour certains une relation forte avec la machine. Un syndrome de Stockholm. » Malgré tout Rimaflow prend racine. Le marché compte 80 exposants après six mois d’existence et l’usine tisse sa toile avec un réseau d’artistes et d’associations. Le tout reste illégal, mais déjà légitime aux yeux du propriétaire des lieux, qui accepte pour le moment de fermer les yeux. Il faut dire que la banque Unicredit serait incapable de trouver preneur pour un tel espace, alors que des dizaines d’usines vides végètent alentour. Les Rimaflow entretiennent les lieux, payent leurs charges et promettent de verser un loyer dès qu’ils en auront les moyens. L’usine est devenue un lieu de vie et se voit demain en « citadelle de l’autre économie ».

    Dans les prochains mois, beaucoup d’ex ouvriers de Maflow perdront leurs allocations chômage. L’enjeu pécuniaire deviendra alors plus pressant à Rimaflow et avec lui, celui de l’avenir du projet. « Nous essayons d’apporter notre part à un changement global, mais il y a ce problème très concret, résume Antonio Galliazzo. Sans salaire, il n’y a pas d’idéal ».

    « Ici, je me sens à la maison. »

    Elle fait partie de ceux qui connaissent le moindre recoin de cette usine. Mariarosa a travaillé à la Maflow pendant 22 ans. Qualifiée « Ouvrière de troisième niveau », elle a en fait touché à presque tous les postes de travail. La majeure partie du temps, elle travaillait dans la « piscine », à tester les tuyaux automobiles dans des bassins. « Ici, on fabriquait 3 000 tuyaux par jour », se rappelle-t-elle. Une entreprise qui carbure à plein régime. Elle a été d’autant plus surprise quand en 2009, le patron annonce que l’usine est en faillite.

    A 48 ans, Mariarosa n’a pas voulu chercher du travail ailleurs. Elle a tout de suite adhéré au projet Rimaflow. « Je voulais essayer ce travail sans patron en autogestion », assure cette mère de deux filles. Une décision qui n’a pas fait l’unanimité dans son entourage. « Mon mari ne comprenait pas que je passe autant de temps ici plutôt qu’à chercher du travail. Il y avait la lutte pour le travail ici, mais aussi la lutte à la maison », plaisante t-elle. Aujourd’hui, elle ne se voit pas ailleurs. « Ici, je me sens à la maison. »

    D’Alfa Romeo à Refondation communiste

    Le plus clair de sa vie professionnelle, Gigi Malabarba l’a passé à construire des portes arrière droite sur une chaîne de production. Entré à l’usine Alfa Romeo de la banlieue de Milan dans les années 1970, il s’est instantanément syndiqué. « À l’époque, la plupart des ouvriers étaient politisés », se souvient le sexagénaire, aujourd’hui retraité. Il y est resté trente-cinq ans et a milité activement pour repousser la fermeture annoncée de l’usine. Elle employait 23 000 personnes. Dix ans de lutte qui l’on conduit jusqu’au Sénat, où il est élu de 2001 à 2006 et préside le groupe Refondation communiste.

    Cofondateur en 2013 du réseau Communia, groupe d’expérimentation sociale, c’est une des têtes pensantes du projet Rimaflow. Il le replace dans l’histoire récente des mouvements sociaux, avec un enjeu : rester concret. « La situation actuelle ne peut pas être pensée avec les réponses du passé. Les printemps arabes, les Indignés, Occupy wall street… Les gens aspirent aujourd’hui à s’occuper eux-mêmes des débouchés politiques de leurs luttes. Nous devons repenser le syndicalisme et poser le problème des exigences immédiates. »

    « Je suis optimiste »

    Depuis les magasins de l’usine Maflow, où il gérait les stocks, Massimo Bollini n’a jamais soupçonné que son usine ferme un jour. « Je n’étais pas le seul à être surpris de la fermeture. Il y avait beaucoup de travail. L’usine fonctionnait en 3-8 et employait jusqu’à 900 personnes au plus fort de la production. » L’explication est ailleurs, raconte l’ancien cariste qui figurait parmi les premiers ouvriers mobilisés contre la délocalisation : « Pour travailler avec BMW, il faut un certificat de qualité. Le repreneur ne l’avait pas pour produire en Pologne. Son rachat de la Maflow était stratégique. Il a mené les choses très intelligemment. »

    À aujourd’hui 49 ans dont vingt à travailler à la Maflow, impossible pour lui de retrouver un travail, il s’engage donc à Rimaflow où il s’occupe du marché des producteurs, de la buvette et continue de conduire le « Fenwick ». « Rimaflow, c’est quelque chose que nous avons créé nous-mêmes, sourit-il. L’ambiance est sympathique, on est loin du management avec un patron, où chaque ouvrier n’est qu’un numéro. Ce n’est pas facile, mais je suis optimiste quant à notre avenir. »

    De la révolution tunisienne à Rimaflow

    Hicham M Sabhia est un jeune homme au regard profond. Militant trotskiste tunisien de 26 ans, il a dû fuir en juillet la répression d’Ennahda après plusieurs arrestations. Son exil, organisé pour le rendez-vous annuel de la 4ème internationale, le mène en Grèce, puis à Rome et enfin Milan, il y a huit mois. Une place lui est faite pour dormir et travailler à Rimaflow. Il vit là, suspendu aux nouvelles de sa famille et de ses « camarades » en Tunisie. « J’ai laissé toute une vie là-bas, soupire cet ancien guide touristique, polyglotte et féru d’histoire. Je suis ici pour prendre de l’expérience. Mais je me vois rentrer. »

    Son père travaillait dans les mines de phosphate pour 500 dinars par mois (250 euros), ses 4 frères et sœurs sont tous professeurs. Il s’est forgé une solide pensée politique, qui dissone parfois avec la vision des ex-ouvriers de la Maflow : « J’ai un profond respect pour eux, recadre-t-il pourtant. Rimaflow est une mosaïque, chaque pièce est importante pour former un tout harmonieux ».

    Reportage (texte, vidéo et photos) réalisé dans le cadre d’une série autour de la Méditerranée : voir le blog des auteurs.

    Publié dans Basta!, 5 mai 2014.

    Topic
    Ναι
    Ναι
    Current Debate
    off
    Όχι
  • Italian
    28/08/14
    I lavoratori provano a occupare la fabbrica dismessa per far nascere una Cooperativa di mutuo soccorso. Per far nascere un nuovo soggetto.

    Vogliamo costituirci in cooperativa, ma non in una cooperativa qualunque, tanto meno di quelle –estremamente negative – utilizzate dalle aziende per dividere i lavoratori, ottenere appalti al ribasso, supersfruttare i dipendenti. Vogliamo anzi riprendere il fondamento delle storiche ‘società operaie di mutuo soccorso’ dell’800, nate agli albori del movimento operaio: solidarietà, uguaglianza, autogestione.

    Ma deve essere anche una cosa nuova, che vuole mandare un messaggio a tutte e tutti coloro che si trovano nella stessa situazione: in primo luogo quelle centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori espulsi dal processo produttivo, che hanno cercato di resistere ai licenziamenti (con vertenze, ecc.), i cui ammortizzatori sociali sono al termine e che non trovano più lavoro; ma vogliamo mandare un messaggio anche ai disoccupati, ai precari, ai giovani che un lavoro non lo trovano: uniamo le forze perché le resistenze e le difficoltà sono tante per ottenere Lavoro, quindi Reddito e Dignità.

    Non possiamo aspettare di finire in miseria o aspettare illusoriamente che qualcuno trovi la soluzione per noi, dobbiamo darci da fare per cominciare a risolvere il problema, individuando percorsi vertenziali che ci consentano di ottenere i mezzi per poter avviare un’attività, nei confronti dei padroni e delle istituzioni. Noi le occasioni di lavoro le stiamo individuando concretamente, puntando in primo luogo sul versante ecologico, nell’interesse dei cittadini e dell’ambiente: l’attività di riutilizzo/riciclo-km zero di materiali; è una necessità della società, è un lavoro concreto, è una fonte di reddito e vogliamo essere messi nelle condizioni di avviare un’attività per noi ora e per tutti coloro che ne hanno bisogno in prospettiva.

    Noi partiamo in particolare dalla storia della Vertenza della Maflow di Trezzano, in cui – dopo lo sperpero fraudolento di risorse della vecchia proprietà che ha portato all’amministrazione straordinaria un’azienda più che produttiva e con clienti tutt’altro che in crisi – il nuovo padrone polacco Boryszew ha comprato anche lo stabilimento di Trezzano insieme a tutto il gruppo, solo perché la lotta di lavoratori e lavoratrici l’ha imposto come vincolo: passati i due anni di legge, non solo non si è rilanciata la produzione come promesso riassumendo i cassintegrati, ma anche i pochi dipendenti assunti sono stati licenziati e lo stabilimento ha chiuso definitivamente. La proprietà del terreno e dei capannoni è di una società legata a Unicredit.

    Ma noi diciamo con forza che questa fabbrica non appartiene nè a Boryszew né a Unicredit, ma a tutti i lavoratori e le lavoratrici Maflow che vi hanno lavorato per anni e che si trovavano in amministrazione straordinaria: ad essi dovrebbe come minimo essere affidata come risarcimento sociale e noi lo rivendichiamo. La partita non è affatto chiusa con la fuga del polacco.

    Ora è a Unicredit che chiediamo una parte dei capannoni in comodato d’uso per l’avvio della cooperativa: no a speculazioni edilizie, sì all’utilizzo produttivo del sito. Non restiamo con le mani in mano; vogliamo intraprendere da subito una strada di autoproduzione per garantirci un reddito e vogliamo farlo da subito presentando il senso più profondo del progetto di unire le forze per conquistare Lavoro, Reddito e Dignità: per questo da subito ci siamo uniti anche con lavoratori espulsi da un’altra azienda, la Novaceta di Magenta, con cui abbiamo condiviso negli anni un percorso di lotta, e con giovani con i quali condividiamo la realizzazione del progetto di cooperativa autogestita e che ci aiuteranno sia sul piano tecnico che materiale, a partire dall’autofinanziamento.

    Vogliamo quindi alludere alla nascita di un nuovo soggetto, che vada oltre la tradizionale e sacrosanta difesa sindacale del posto di lavoro che ognuno occupa e che vada oltre la rivendicazione politica, altrettanto giusta, del diritto al lavoro e al reddito. Vogliamo dar vita a un Movimento per il Lavoro, il Reddito e la Dignità che unisca lavoratrici e lavoratori espulsi dalla produzione, precari, disoccupati e studenti senza futuro che sperimenti da subito attività lavorative autogestite, ecologicamente sostenibili ed eticamente responsabili, ottenendo dalle controparti private e pubbliche non assistenza ma risorse finalizzate (spazi per lavorare, attrezzature, finanziamenti agevolati, nuove legislazioni di sostegno).

    Ci ispirano non solo le società di mutuo soccorso storiche, ma anche le esperienze straordinarie figlie dell’attuale crisi e dei tradizionali squilibri del sistema economico-sociale: dalle fabricas recuperadas argentine, al movimento dei Sem Terra brasiliano, dalle esperienze di autogestione in Grecia e Spagna, paesi a cui l’Italia si sta rapidamente adeguando. Coscienti che senza organizzazione e lotta niente ci verrà regalato, ma sicuri dell’appoggio dell’opinione pubblica e della possibilità di estensione di questo progetto in tutto il paese. In fondo negli anni della ricostruzione post-bellica in Italia esempi simili sono stati l’occupazione delle terre dei latifondisti e i cosiddetti ‘scioperi alla rovescia’ (ossia la realizzazione di attività legate a bisogni sociali insoddisfatti, rivendicandone il pagamento dalle istituzioni col sostegno dei cittadini interessati).

    I partiti e le istituzioni che ne sono espressione nulla hanno fatto in questi anni per garantire Lavoro, Reddito e Dignità, anzi hanno contribuito a peggiorare la situazione per salvare gli interessi di speculatori e affaristi. Oggi siamo in piena campagna elettorale e diciamo a tutti di evitare di venire a farci promesse: guardatevene bene tutti! Se volete aiutarci – così come qualsiasi soggetto individuale o collettivo, partito o sindacato, ognuno a seconda del suo ruolo e delle sue possibilità – sottoscrivete per la cooperativa, partecipate alle iniziative di autofinanziamento, pubblicizzate la nostra lotta, contribuite a realizzare le condizioni materiali per avviare la nostra attività. Propaganda non ci serve!

    Questo non è rifiuto della politica o qualunquismo. Questo è dire No alle vergogne della politica e rimettere al centro i bisogni concreti delle persone.

    Quali sono le parole del nostro progetto?

    Lavoro, Diritti, Autogestione…per sperimentare una fabbrica senza padroni, dove tutti percepiscono lo stesso salario e dove si attua una rotazione degli incarichi;
    "Le nostre vite valgono più dei loro profitti": lo ereditiamo dalle nostre vertenze ed è un concetto oggi ancor più valido di ieri

    E poi ‘R’ come:

    Rinascita della Maflow, Ri-Maflow la nostra cooperativa
    Recupero, Riutilizzo, Riciclo km zero: per dire no alla società degli sprechi
    Riappropriazione: per riprenderci ciò che è nostro
    Reddito: perché la società deve garantire a tutti il diritto a un’esistenza dignitosa
    Rivolta il debito: perché il debito non l’abbiamo prodotto noi, noi siamo in credito, sono altri che devono pagare, basta con l’austerità
    Rivoluzione: perché il nostro progetto è già una rivoluzione, perché bisogna cambiare le regole del gioco, perché – come diceva il regista Mario Monicelli – ‘ci vuole una bella botta, una Rivoluzione’ appunto

    ‘R’ è quindi la nostra bandiera…

    Il presidio permanente della Maflow serve a questo progetto:
    far conoscere la cooperativa autogestita
    autofinanziarla con iniziative di solidarietà e con prime attività di produzione
    rivendicare un risarcimento sociale dalla proprietà e aiuti concreti dalle istituzioni
    non vogliamo essere dimenticati, vogliamo lavorare!!

    Occupy Maflow, come a Madrid, a Londra, a New York e in tutto il mondo, per dire basta allo strapotere della finanza, per dire sì al Lavoro, al Reddito e alla Dignità

    Il Comitato che gestisce il presidio vuole rappresentare simbolicamente questo percorso nuovo: lavoratrici e lavoratori espulsi, precari, disoccupati e giovani uniti per il diritto al futuro.

    Testo iniziale del progetto Ri-Maflow, pubblicato su Il Megafono delle idee.

    Geographical
    Ναι
    Ναι
    Current Debate
    off
    Όχι
Συλλογή ανεξάρτητου περιεχόμενου