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Italian28/08/14
Nell’Europa della grande crisi, il latrocinio perpetrato con sadica e chirurgica precisione dalla grande finanza internazionale, rappresentata dalla BCE e dal FMI, incoraggiati dalla UE, ai danni di milioni di famiglie e di lavoratori, non sembra dare seguito alle aspettative di ripresa. A poco servono le promesse di cambiamento e il susseguirsi forsennato degli uomini al comando delle amministrazioni e dei paesi, che continuano altresì ad abbandonare sui marciapiedi donne e uomini, come naufraghi nell’asfalto; “nuovi poveri”, affranti e spesso soli e alla deriva, in un oceano di disillusione e miseria. È il compimento ultimo della grande opera distruttrice del capitalismo che, al suo stadio più virulento, quello del neo-liberismo di questi anni, ha ottenuto ciò che si era prefisso: l’arricchimento sistematico e continuo delle classi dominanti a danno di tutti gli “altri”.
I signori delle banche, delle società finanziarie, i grandi brokers della Borsa, che oggi occupano con ordinata e metodica pianificazione gli scranni alti e “distanti” dei governi delle “larghe intese”, dell’austerity, del fiscal compact, hanno frugato nelle tasche di almeno due intere generazioni, padri e figli, fino a estirpare l’ultimo centesimo di denaro ma anche di dignità.All’attacco micidiale, all’ostilità indecente e sviscerata senza pietà da questi signori della guerra globale, occorre oggi più che mai rispondere comprendendo che la sopravvivenza può avvenire solo con un’altrettanta ferma radicalizzazione di un conflitto a cui è stata chiamata, suo malgrado, l’intera classe lavoratrice. E allora ai licenziamenti, ai ricatti, alla prevaricazione in atto c’è oggi più che mai l’esigenza di reagire con forme concrete di sopravvivenza civile e attiva.
Il “recupero” delle fabbriche e dei luoghi di lavoro, l’autogestione dei lavoratori, rappresentano quella ripresa areata di consapevolezza e auto-coscienza da dove finalmente far ripartire il futuro: la nuova storia del mondo, operaio e non solo. Nel decennio scorso, l’ondata di veri e propri attacchi terroristici portata dal grande capitale all’economia dell’Argentina, produsse una delle più gravi crisi sociali della storia. Il debito prodotto e perpetrato dalle promesse di una fittizia e ipocrita economia finanziaria, crearono uno dei più grandi buchi “debitori”, in un solo paese, mai verificatisi prima. Milioni di famiglie furono ferocemente svegliate e, in poche settimane, scaraventate giù dai sogni e dal proprio avvenire, date direttamente in pasto alla indigenza totale. Era accaduto che il serpente tentatore della speculazione monetaria, sostituendosi alla economia “reale”, quella cioè fatta semplicemente di una produzione “concreta”, grazie all’appoggio indiscriminato, consapevole e complice, dei corrotti governi neo-liberali e post-dittatoriali, era riuscito a convincere un’intera nazione ad indebitarsi, con la garanzia di un futuro di grande ricchezza e prosperità. Ci si accorse presto che quelle promesse erano carta straccia di fronte a una realtà atroce che si presentò bussando alle porte di tutte le case. Il resto lo conosciamo e lo abbiamo vissuto: è la storia di una lenta ripresa fatta di lacrime, di decisioni dure ma consapevoli, prese dai governi “popolari” e umani del compianto Presidente Nestor Kirchner e della moglie Cristina. Ma fu anche una storia di “fabbrica”, di occupazioni e autogestioni, di ritorno alla solidarietà di classe. Una epopea “romantica” di opposizione ferma e organizzata e di respingimento di tutte le politiche amorali imposte dalla logica spudorata e speculatrice delle società multinazionali.
Qualche anno più tardi, oggi, nel nostro continente, nelle stesse condizioni, ci sono i presupposti per aprire quegli stessi spiragli di luce e di cambiamento? Forse sì, e quell’esempio, magari non sempre in modo consapevole, viene ripreso e sperimentato in diversi luoghi e con una rinnovata spinta propulsiva. Ognuno con le sue peculiarità, ognuno con alle proprie spalle le storie ordinarie e irrinunciabili di lotta. È la sopravvivenza che cerca di divenire operosa, che sfugge dal controllo della pianificazione priva di scrupoli e, a volte, anche di quelle rappresentanze sindacali “ufficiali”, ormai troppo evidentemente colluse con un sistema di mera conservazione e burocratizzate.
La Grecia rappresenta per il Vecchio Continente una piccola Argentina, divenuta presto cavia e terreno di sperimentazione per la speculazione neo-liberista e globale della “nuova Europa”. “Investite, privatizzate, precarizzate, fate debiti” erano gli slogan, gridati dai banchieri e dai governanti di Atene, alle orecchie degli ignari cittadini. Il mercato lo esigeva; insieme a nuove forme di contrattualizzazione della forza lavoro: quelle tanto propagandate strutture di flessibilità che avrebbero fatto fare il “balzo in avanti” alle economie di ogni singola famiglia, in quel nuovo eldorado finanziario dove le aziende multinazionali accorrevano a piantare le proprie tende. Il risveglio è stato tragico. Una nazione intera distrutta, una bomba atomica lanciata fin dentro le case, nei luoghi di lavoro, nelle università. La Grecia non ha più nulla, fruga nelle pattumiere delle strade cercando pane e calore, vive nei parcheggi, dentro automobili, nelle roulotte. In questa desolazione oggi la speranza è costituita da azioni di rivolta sociale, di tamburi, di piazza. A Salonicco, i lavoratori della Vio.Me., una fabbrica edile, stanno riuscendo nell’impresa di una nuova rinascita. Quella che era destinata a diventare una delle tante fabbriche sedotte e abbandonate dal padrone, in fuga con la copertura del governo, si è ripresa i suoi spazi e suoi tempi, insomma il suo futuro. Gli operai sono passati dall’autogestione alla costituzione di una cooperativa, hanno ristrutturato gli ambienti e, via via, ripreso le attività produttive. Ora la fabbrica è recuperata e il lavoro di nuovo garantito.
Ri-Maflow. Laboratorio computer-test di funzionalità
In Francia, nella Provenza, a Gemenos, c’è la Fralib. Si tratta di un industria alimentare molto conosciuta e apprezzata dai “consumatori” in quando produce una serie di tisane a base di erbe coltivate nella regione. Qualche anno fa marchio (raffigurante il “celebre” elefantino) e produzione vennero acquisiti dalla Unilever. A seguito della crisi, però, la multinazionale ha pensato bene di ridurre il personale, per poi iniziare le pratiche di dismissione degli impianti, aprendo al contempo una sede in Polonia, dove la manodopera costa meno e ci sono minori garanzie sindacali e sociali. Anche in questo caso i lavoratori non sono rimasti a guardare e, attraverso forme di resistenza e autorganizzazione, sono in lotta per cercare non solo di salvare il lavoro, ma anche lo storico marchio dell’antica fabbrica.
Ri-Maflow. Produzione della ri-passata di pomodoro con prodotti bio a km 0 dei produttori del Parco agricolo sud Milano
A Trezzano sul Naviglio, lo stesso sta succedendo negli stabilimenti della Maflow, una fabbrica che fino ad un anno fa produceva ricambi per automobili. I lavoratori, costituitisi anche in questo caso in cooperativa, hanno occupato i ben 30 mila ettari quadrati di terreno, metà dei quali impiegati da capannoni, e si sono inventati una nuova attività produttiva, una nuova storia, un nuovo assetto. L’hanno chiamato Ri-Maflow. Dietro al prefisso “Ri”, ci sono molti significati: il ri-ciclo, il ri-cominciare, ma anche rivoluzione. Già, perché ci vuole la sfrontatezza e l’incoscienza rivoluzionaria, per programmare da zero una nuova vita produttiva. La Ri-Maflow recupera, aggiusta, rimette “in ciclo” tutti quei materiali e oggetti dismessi e provenienti dalla periferia e vetustà del consumismo: dagli elettrodomestici ai giocattoli. L’importanza di questa scelta non sta solo nella garanzia di veder salvato il proprio stipendio ma, in questo caso, anche nell’incontro tra gli stessi lavoratori e il territorio. Non più dunque la fabbrica distante e chiusa, il mondo sommerso della catena di montaggio regolata dall’ottuso e atono rumore della sirena. Oggi questa fabbrica è utilità, armonia, progettazione, comunità.
Tante storie ci sono ancora da raccontare, migliaia sono oggi in tutto il mondo le aggregazioni di lavoratori che hanno deciso di strappare all’egoismo neo-liberista le sorti di un futuro che sembrava già deciso e di riconquistare le coordinate spazio-temporali della propria esistenza. Il mondo della produzione e del lavoro, dunque, non si arrende e cerca e spera di resistere, rimanere vivo in quella che sarà a breve e per forza di cose una nuova umanità. Recuperare una fabbrica, come iniziò l’Argentina, come sta accadendo sempre più di sovente in Europa, negli Stati Uniti o in Italia, dove queste realtà sono già una trentina, significa porre e ribadire una verità assoluta, la cui eco si è forse smarrita nel tempo. E cioè che il grande capitale per affermarsi non può esistere senza il sacrificio dei lavoratori, questi ultimi, di contro, possono farlo benissimo senza la presenza del padrone.
http://www.altramente.org/le-imprese-recuperate.html
Luca Fazio su Alias, 1 marzo 2014
http://ilmegafonoquotidiano.it/news/ri-maflow-il-lavoro-reddito-e-dignit
http://systemfailureb.altervista.org/ri-maflow-un-anno-fuori-dal-mercato/
Angelo Mastrandrea su Alias, 1 marzo 2014
Pubblicato su Mentinfuga, 22 aprile 2014.
Συνεταιριστικό Κίνημα, Cristiano Roccheggiani, Κοινωνικοί Αγώνες, Αλληλέγγυα Οικονομία, Εργατική Αυτοδιαχείριση, Εργατικός Έλεγχος, 21ος αιώνας – Εργατικός Έλεγχος στη Σύγχρονη Εποχή, Ιταλία, ΕυρώπηTopicΝαιΝαιNoΌχι -
Italian28/08/14Per due volte sono stati schiacciati dal padrone di turno e dalle banche e per due volte hanno protestato e occupato la fabbrica. Qualcosa di simile negli Stati uniti era avvenuta solo negli anni ’30.
Questa settimana [febbraio 2013, ndr], Strike Debt (movimento statunitense di resistenza al sistema del debito che ha di recente lanciato Rolling Jubilee, una campagna di mutuo aiuto che punta ad abolire il debito dei cittadini (ne parliamo qui, ndt), ha «twittato» trionfante. «È una nuova era. La prima macchina di proprietà degli operai ha cominciato a funzionare». Per quelli che hanno seguito le vicende della fabbrica di Chicago nota come Republic Windows and Doors (ne avevamo parlato in questo articolo, ndt), questo è stato il culmine di anni di lotta. È un momento emozionante, e una vittoria che si spera possa ispirare altre fabbriche in tutto il paese.
Anche se la fabbrica costruisce finestre e porte dal 1965, la nostra storia inizia nel 2008 con la crisi finanziaria e le azioni di Bank of America (Boa). Pur avendo ricevuto miliardi di dollari delle tasse, Bank of America (e altre grandi banche) hanno trascorso gran parte del 2008 aggredendo le piccole imprese o quelle a basso rendimento, non perché non potevano permettersi di dare prestiti, ma per migliorare i loro bilanci. Republic Windows and Doors ha perso la propria linea di credito alla fine del 2008 (pochi giorni dopo Boa ha ricevuto 25 miliardi di dollari per il suo salvataggio) e ha licenziato duecentocinquanta dipendenti in tre giorni, senza neanche rispettare il preavviso di sessanta giorni richiesto dalla legge (Warn act).
Una storia comune, forse, ma alla Republic Windows and Doors i lavoratori non sono rimasti a guardare. Nel dicembre 2008 hanno occupato la fabbrica per sei giorni, riuscendo ad attirare i media nazionali (perfino Obama espresse solidarietà con i lavoratori, ndt), e hanno ottenuto un risarcimento. È importante ricordare che nel 2008, l’occupazione è stata vista più come un’azione del lavoro degli anni Trenta (era il dicembre del ’36 quando tremila operai incrociarono le braccia e buttarono fuori i padroni della General Motors, ndt) che una comune tattica di protesta della sinistra.
Nel febbraio 2009, l’impianto è stato acquistato da Serious Energy, e ha riaperto con molti dei lavoratori che sono tornati ai loro contratti sindacali precedenti. Sembrava una grande vittoria, e le cose sono andate bene in fabbrica per qualche tempo. Ma poi, nel febbraio 2012, di nuovo è stata annunciata improvvisamente la chiusura dai nuovi padroni. Ancora una volta, i lavoratori si sono radunati nella fabbrica, questa volta con un grande sostegno di Occupy Chicago, e anche se la loro occupazione è durata soltanto undici ore, hanno ottenuto un risarcimento per la fine del rapporto.
Ma ora, piuttosto che attendere un altro padrone per ripetere il solito programma, i lavoratori stanno prendendo il controllo della fabbrica. Nel maggio del 2012 si sono uniti democraticamente come cooperativa di lavoratori, e hanno cominciato poco a poco l’acquisto delle macchine della fabbrica. Hanno il sostegno del sindacato, United Electrical Workers, e di un’organizzazione di micro-finanza e di economia solidale, Working World.
Ci sono grandi sfide di fronte a qualsiasi cooperativa di lavoratori, in particolare all’inizio, per la raccolta di capitali e l’acquisto della fabbrica e delle macchine può essere molto difficile. Con le prime macchine in funzione, la società opportunamente ridenominata New Era Windows and Doors company, è sulla strada giusta. In questo periodo di leveraged buy outs (letteralmente «acquisizione attraverso il debito», è un’operazione finanziaria molto discussa di acquisto di un’impresa da parte dei lavoratori: le somme necessarie, ottenute a mutuo, vengono rimborsate attraverso la rinuncia dei lavoratori a tutti gli elementi retributivi che spetterebbero loro negli anni successivi…, ndt) e di azioni antisindacali, la cooperativa dei lavoratori si distingue come fonte di ispirazione per altri lavoratori, e mostra come sia possibile portare la democrazia e il potere dei lavoratori nelle fabbriche.
Pubblicato su Shareable.net, 6 febbraio 2013.
Traduzione italiana di g.c. per Comune-info, 8 febbraio 2013.
Συνεταιριστικό Κίνημα, Κοινωνικοί Αγώνες, Willie Osterweil, Εργατική Αυτοδιαχείριση, Εργατικός Έλεγχος, 21ος αιώνας – Εργατικός Έλεγχος στη Σύγχρονη Εποχή, Η.Π.Α., Βόρεια ΑμερικήTopicΝαιΝαιCurrent DebateΌχι -
Italian28/08/14Francia. L'antico biscottificio che nel 1850 ha inventato i famosi dolcetti è fallito. Ma i lavoratori hanno deciso di opporsi alla vendita di macchinari e ricette, per salvare una storia secolare. Ri
Ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia e dalla previsione d'un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo inzuppato un pezzo di "maddalena". Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m'aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa.
Così Marcel Proust, nel primo libro dell'opera Alla ricerca del tempo perduto, immortalava uno dei dolci più celebri al mondo. Ad aver inventato le madeleine, nell'800, è un'antica biscotteria di Caen, in Normandia. Una ditta a cui si deve un prodotto imitato e diffuso in tutto il mondo, che ha continuato a lavorare per più di 150 anni e che oggi è fallita. La fabbrica secolare delle Madeleine ha chiuso e 37 dipendenti sono stati licenziati. Ma proprio loro hanno deciso di non arrendersi, per difendere il proprio lavoro e il primato di un'azienda che sentono loro. Al punto da rilanciare la produzione, lavorando senza salario.
Fondato nel lontano 1850, il biscottificio Jeannette (inizialmente chiamato Bosseil) è stato messo in liquidazione lo scorso 18 dicembre. La produzione si è fermata definitivamente il 28 gennaio. Aveva resistito anche ai bombaramenti aerei del 1944, durante i quali aveva continuato a produrre, ma è stato fermato dalla crisi economica. Dopo 164 anni di attività.
La Jeannette era da tempo in difficoltà. Già nel 2009 aveva fallito ed era stata rilevata dall'amministratore dell'industria dolciaria La Mère e da altri tre soci, ma nemmeno nuove ricette e certificazioni internazionali per la grande esportazione avevano funzionato. E così, nel novembre 2011, era arrivata una nuova dichiarazione di fallimento. A prendere in mano le ultime sorti della Jeannette era stata la società di investimento LGC, lanciando l'idea di costruire un nuovo stabilimento per rimpiazzare l'attuale, antico e situato in una zona residenziale. Un nulla di fatto, perché il sostegno delle banche che avevano promesso di finanziare l'iniziativa è venuto meno. Intanto, da un fatturato di 17 milioni di euro nel 2004, si è passati ai 6 di oggi.
Dopo il licenziamento di tutti i dipendenti, l'ultimo atto del declino della Jeannette doveva essere la vendita di tutti i macchinari a 10 potenziali acquirenti, alcuni dei quali provenienti dalla Bulgaria, per la somma di circa 375mila euro. È questo che gli ex dipendenti non hanno potuto tollerare. Alla fine di febbraio hanno manifestato di fronte alla fabbrica e, dopo un giro di consultazioni, l'hanno occupata. Quella che era nata come una protesta spontanea e dimostrativa si è trasformata in un picchetto permanente, che va avanti da settimane. E non è finita qui. Ventisette ex lavoratori – molti dei quali lavorano alla Jeannette da decenni – si sono opposti non soltanto alla dismissione dei macchinari, ma anche alla perdita delle ricette e alla vendita del marchio. Così, hanno deciso di far ripartire l'attività della biscotteria, di quella fabbrica che, pur essendo dipendenti, credono gli appartenga più che a chiunque altro.Le famose madeleines sono nuovamente uscite dal forno. Lo scorso 27 febbraio, 3.610 confezioni sono state portate al mercato Saint-Sauveur di Caenb e in due ore non ne è rimasta una. Il ricavato di 3.000 euro è servito per finanziare nuove infornate, tanto sono stati prodotti altri 1.100 chili di madeleines, nuovamente acquistati in massa il 5 marzo. I giornali francesi hanno raccontato di “persone anziane, commosse da questo ricordo d'infanzia”. “Sembrava di stare in un libro di Proust”.
Il sostegno da parte della cittadinanza di Caen ai lavoratori è massimo. Ora non resta che sperare in un finanziatore. Sembra che acquirenti svizzeri possano essere interessati, ma non è ancora certo se la fabbrica che ha inventato i dolci che hanno ispirato Proust sopravviverà.
Pubblicato da Pagina99, 13 marzo 2014.
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German26/08/14
Seit Mai 2011 halten die Kollegen von VIO.ME ihren Betrieb besetzt, nachdem die Eigentümer für die Muttergesellschaft Konkurs angemeldet hatten. Im Februar 2013 haben sie die Produktion und den Verkauf von umweltfreundlichen Reinigungsmitteln für den Hausgebrauch aufgenommen. Ihr Kampf wird von einer großen Welle der Solidarität in Griechenland, Europa und darüber hinaus unterstützt. Seither hat sich VIO.ME zu einem Symbol von Selbstorganisation und Arbeiterselbstverwaltung im Kampf gegen die Austeritätspolitik der Troika und der griechischen Regierung entwickelt.
Jetzt versuchen die ehemaligen Eigentümer mithilfe einer Gerichtsentscheidung, eine Übergangsgeschäftsführung einsetzen zu lassen, die den Betrieb endgültig schließen, die Arbeiter ohne Abfindung entlassen und die Produktionsmittel zur Deckung der riesigen Schulden verscherbeln soll. Die Basisgewerkschaft von VIO.ME verfolgt dagegen einen anderen Plan: eine temporäre Geschäftsführung ihres Vertrauens, die die Schließung abwenden, die Ursachen der Misswirtschaft durch die Muttergesellschaft aufdecken und die Weiterführung des Betriebes sichern soll. Nach einem ersten Gerichtstermin Anfang Juli hat das Gericht eine Entscheidung innerhalb der nächsten drei Monate angekündigt.
Wir erklären uns mit den Kollegen von VIO.ME solidarisch und unterstützen ihren Kampf um die Arbeitsplätze und für den Weiterbetrieb ihrer Fabrik in Selbstorganisation und Arbeiterselbstverwaltung. Eine gegenteilige Gerichtsentscheidung werden wir mit europaweitem kämpferischen Protest beantworten.(Weitere Infos auf www.gskk.eu und viome.org)
– Die Petition geht an die VIO.Me-Kollegen, die sie der Öffentlichkeit über ihre Webseite und Informationen an die Presse in Griechenland zugänglich machen sollen.
– Über die Rechtsanwälte der Kollegen soll sie an das Gericht weitergeleitet werden, um auf die internationale Bedeutung des Kampfes der Kollegen von VIO.me. hinzuweisen.
Ihr könnt die Petition auf der Webseite des Griechenland Solidarität Komitees Köln unterschreiben.
http://gskk.eu/EraΝαιΝαιNoΌχι -
Italian26/08/14Quando si parla di fabbriche recuperate il pensiero corre inevitabilmente all’Argentina, con le sue oltre duecento imprese ancora in piedi. Ma anche nel piccolo Uruguay sono trentotto le aziende la cu
Durante il mese di giugno 2010, 450 persone si ritrovavano senza lavoro a causa della chiusura, nella città di Paysandú, dell’impresa tessile Paylana, una delle più importanti dell’Uruguay. Quasi tre anni dopo, la Cooperativa di Lavoratori Paylana (Cotrapay, foto) ha riaperto le porte della fabbrica, in forma auto-gestita.
Cotrapay è solo un esempio dei trentotto casi di imprese recuperate da ex lavoratori dipendenti in Uruguay. Un movimento che, in qualche modo, contribuisce a rivivere l’epoca dell’auto-gestione operaia, concetto quasi in disuso, sepolto negli anni ’90 dal neoliberalismo e dall’applicazione del Consenso di Washington, che prometteva prosperità a tutti i paesi che si fossero affidati alle mani (sapienti) del mercato. La crisi economica cominciata nel sub-continente latinoamericano agli inizi del nuovo millennio ha invece dato impulso all’iniziativa di un numero sempre maggiore di gruppi di lavoratori, colpiti dal meccanismo di esclusione proprio delle regole del mercato capitalista, a riscattare l’importanza della cooperazione e della solidarietà, per poter costruire una modalità collettiva di organizzazione imprenditoriale, dotata di caratteristiche alternative.
Tuttavia, è necessario sottolineare come il fenomeno delle imprese recuperate non sia una novità degli anni 2000, ma costitusica parte integrante della storia del cooperativismo uruguaiano, soprattutto a partire dagli anni ’60, epoca di sorgimento di due cooperative, createsi sulle ceneri del fallimento di altrettante imprese capitaliste: Copay (impresa di trasporti, anch’essa di Paysandú) e il Mulino Caorsi (produtore di pasta, della regione di Tacuarembó), entrambe caratterizzate da oltre cinquant’anni di ininterrotta attività.
Imprenditoria collettiva
Il fattore innovativo risulta, oggi, dal concetto utilizzato per descrivere questo ritorno in auge dell’impresa recuperata. Un concetto che non è esente da discussioni. Che cosa si recupera realmente? Si tratta solamente della fonte d’impiego o c’è qualcosa in più? In un contesto recessivo o (addirittura) critico del mercato del lavoro, come nel caso argentino o uruguaiano agli inizi del 2000, il mero «recupero» della fonte d’impiego ha rappresentato un fattore assai attrattivo, favorito, tra l’altro, dall’incentivo di politiche pubbliche e dalla creazione di figure giuridiche specifiche. Nonstante ciò, affermare che le imprese recuperate abbiano restituito soltanto un lavoro risulta, quanto meno, riduttivo. Da un’analisi più approfondita, emerge, infatti, un effettivo recupero del fattore lavoro e della matrice solidale come categorie organizzative, che aprono nuove opportunità per la creazione di imprese basate sul’intensità di questi due fattori. In questo modo, si recupera il dominio storico che il lavoratore ha mantenuto sul processo produttivo sino alla nascita del sistema di fabbrica e della cosiddetta «organizzazione scientifica del lavoro». Ricordiamo che secondo tale propspettiva il manager è la figura designata per «riunire tutte le conoscenze tradizionali che in passato rappresentavano il patrimonio dei lavoratori» (Taylor).
Questa (nuova) rottura, rappresenta senza dubbio un cambiamento importante per lavoratrici e lavoratori, che devono re-inventarsi come imprenditori e, per tanto, come «decision makers». Si tratta, inoltre, di una trasformazione che presuppone non una conversione qualsiasi, bensì la costruzione di un’imprenditoria collettiva, caratterizzata da un processo decisionale (assolutamente) democratico.
Dal punto di vista operativo, definiamo come impresa recuperata quell’unità economica costituita da lavoratrici lavoratori che provengono da una precedente esperienza occupazionale comune e che gestiscono collettivamente, al meno una parte degli attivi (tangibili o intangibili) dell’impresa in cui ricoprivano il ruolo di dipendenti.
Trentotto imprese recuperate
In quest’ottica, è comprensibile che possano verificarsi casi che, nonostante si avvicinino al concetto appena esposto, non rispecchino pienamente la definizione. Per esempio, la Cooperativa di Lavoratori d’Impresa Popolare Alimentare (Ctepa) è composta da venti operai, ex lavoratori degli stabilimenti Puritas e Las Acacias, licenziati nell’ambito di un conflitto sindacale. Nonostante si possa catalogare come un caso di recupero dell’impiego, attraverso la creazione di una cooperativa, non è possibile parlare di «impresa recuperata» in senso stretto, visto che le imprese convenzionali continuano ad operare sul mercato e gli (ormai) ex dipendenti non hanno ereditato nessuna marchio, struttura o macchinario dall’ex datore di lavoro. Questo, come altri casi, rientrano nel limbo della definizione.
Delle trentotto imprese recuperate rilevate attualmente in Uruguay, trentacinque operano in forma cooperativa e tre in qualità di società anonima (anche se il pacchetto azionario è in possesso di un’associazione). La lista include una cooperativa che produce pneumatici, un Collegio, passando per una fabbrica di vetro fino ad un’impresa di pulizie.
A partire dallo scorso anno, queste imprese auto-gestite possono contare su un nuovo strumento di politica pubblica. Si tratta del Fondes, fondo che utilizza il 30 per cento degli utili della più grande banca pubblica del paese (il Banco Repubblica) per finanziare iniziative economiche auto-gestite. Cotrapay è uno dei sette casi finanziati fino ad oggi, per un un totale di poco superiore ai 26 milioni di dollari. Probabilmente, il prossimo finanziamento sarà diretto agli ex dipendenti di Pluna, la compagnia aerea di bandiera. Se questa ipotesi fosse confermata, si tratterebbe del primo caso al mondo di linea aerea auto-gestita da ex lavoratori dipendenti.
Senza dubbio, l’impronta personale del presidente José «Pepe» Mujica ha costituito un fattore di fondamentale importanza per la creazione del Fondes. Infatti, già prima di assumere la carica di presidente, aveva riconosciuto, in più di un’occasione, l’importanza dell’auto-gestione come via alternativa (di sviluppo). Consultato da alcuni organi di stampa su come gli piacerebbe essere ricordato tra cento anni, ha poi risposto: «Vorrei che i lavoratori, o almeno un gruppo grande di loro, imparassero ad auto-gestirsi. E che questo restasse come un modello sempre più diffuso e funzionante. È la cosa più importante a cui posso aspirare». Si tratta di vedere se, oltre allo stile e a il pensiero di un presidente, le politiche di incentivo sapranno consolidarsi nel tempo. Senza dubbio, buona parte di questo futuro dipenderà dai risultati ottenuti da queste prime esperienze.
Pablo Guerra è docente e ricercatore presso l’Università della Repubblica di Montevideo, Uruguay.
Pubblicato su Comune-info, 2 aprile 2013. Traduzione per Comune-info di Roberto Casaccia di Retos al Sur/Reorient.
Pablo Guerra, Αλληλέγγυα Οικονομία, Εργατική Αυτοδιαχείριση, Εργατικός Έλεγχος, 21ος αιώνας – Εργατικός Έλεγχος στη Σύγχρονη Εποχή, Ουρουγουάη, Λατινική ΑμερικήTopicΝαιΝαιNoΌχι -
Italian26/08/14All’indomani della crisi in Argentina, molti operai occuparono le fabbriche chiuse e abbandonate dai padroni e le rimisero in produzione; gli ostacoli legali, l’appoggio dei quartieri, la necessità, u
Aldo Marchetti ha insegnato Sociologia del lavoro nell’Università Statale di Milano e in quella di Brescia. Giornalista pubblicista, è stato direttore di diverse riviste di cultura. Il libro di cui si parla nell’intervista è Fabbriche aperte, L’esperienza delle imprese recuperate dai lavoratori in Argentina, Il Mulino, 2013.
Nel corso della crisi che ha colpito l’Argentina nei primi anni Duemila alcune fabbriche sono state occupate e recuperate dai lavoratori. Puoi raccontare?
La storia delle imprese recuperate, che è un’esperienza di autogestione operaia, comincia con la crisi economica del 2001, che ha portato al fallimento dello Stato e a una crisi politica durante la quale si sono succeduti tre o quattro governi durati pochi mesi, sino a che, dopo le elezioni del 2003, è stato eletto il governo di Nestor Kirchner, che ha posto le basi per una ripresa economica e che ha portato l’Argentina a svilupparsi a un ritmo del 6-8% all’anno; una ripresa che è durata sostanzialmente fino agli anni recenti, quando anche sull’Argentina comincia a pesare la crisi economica mondiale.
Parliamo di un tracollo -questa è ormai la versione comunemente accettata- dovuto a un utilizzo indiscriminato delle politiche neoliberiste, quindi svendita dell’industria pubblica ai privati, completa apertura del mercato interno a quello internazionale, finanziarizzazione dell’economia, deregolamentazione del mercato del lavoro. Tutto questo, in un contesto di grave crisi economica, ha portato alla chiusura di migliaia e migliaia di fabbriche, alla fuga dei capitali all’estero, fino allo scontro sociale che ha visto in pochi giorni quasi una quarantina di morti nelle strade, e poi manifestazioni e barricate in tutto il paese. Ricordiamo ancora le immagini della gente camminare battendo le pentole vuote e degli assalti al Bancomat e ai supermercati.
Una delle conseguenze di questa crisi è stata l’occupazione, da parte degli operai, di oltre un centinaio di fabbriche che nel frattempo erano state chiuse dagli imprenditori. Molte volte dietro questi fallimenti c’era il fatto che gli imprenditori, nel marasma generale, avevano cercato di vendere i macchinari e gli impianti per realizzare del denaro liquido e scappare all’estero, oppure trasferirsi in altre parti del paese aprendo aziende nuove dopo aver mandato sul lastrico i vecchi operai.
Ecco, in diverse di queste situazioni gli operai hanno occupato la fabbrica e hanno cercato di rimetterla in funzione.
Parliamo di un processo estremamente complicato, che ha visto anche un profondo conflitto con le forze dell’ordine, le istituzioni, la magistratura, il governo. Molte di queste fabbriche occupate infatti sono state prese di mira dalle forze di polizia chiamate a svuotarle dei lavoratori per riportarle nelle mani degli imprenditori. A quel punto interi quartieri sono scesi in lotta per difenderle.
Bisogna infatti considerare che nel frattempo in Argentina erano sorti movimenti sociali di grande portata, come quello dei disoccupati, delle donne, ecc., che in questo clima di crisi profonda hanno costituito un elemento sociale di coesione e solidarietà che ha consentito alle imprese recuperate di restare in piedi. In molti casi il quartiere, i piqueteros o le assemblee popolari dei quartieri hanno proprio fatto barricata davanti alle porte delle fabbriche, le hanno presidiate per difenderle materialmente dall’irruzione delle forze di polizia.
Insomma, attorno a queste imprese recuperate, si è creato un movimento di grande solidarietà.
Bisogna anche tener conto che i lavoratori dei livelli più elevati, manager, impiegati e tecnici avevano già dato le dimissioni perché riuscivano ancora a trovare un’altra occupazione sul mercato. Per gli operai questa possibilità non c’era assolutamente: sarebbero rimasti disoccupati, perdendo così qualsiasi fonte di reddito; i deboli elementi di welfare con il default dello Stato, con il crollo delle finanze pubbliche, non sarebbero stati più garantiti. Quindi l’alternativa era semplicemente quella di rimanere privi di reddito, i lavoratori e le loro famiglie. La scelta di occupare la fabbrica e cercare di riavviare la produzione è stata quindi una scelta obbligata, prima che ideologica.
Ma come hanno fatto a rimettere in piedi le fabbriche senza manager, senza quadri, senza tecnici?
Infatti si è subito posto il problema di riempire il vuoto di direzione aziendale. In una prima fase questo vuoto è stato riempito soprattutto dalla solidarietà che si è formata attorno alle fabbriche. In molti casi le università sono entrate in contatto con gli operai e hanno fornito le competenze necessarie, nel senso che studenti e insegnanti sono andati nelle fabbriche e hanno aiutato materialmente a rimettere in moto gli impianti, ad aggiustare le macchine; insegnanti di materie economiche hanno aiutato i lavoratori a garantire un minimo di managerialità, a tenere l’amministrazione. Si sono creati anche dei microcircuiti di acquisto dei beni prodotti da queste imprese. È stato soprattutto grazie a questo movimento sociale che queste imprese sono riuscite a stare a galla.
In un secondo tempo, alcune amministrazioni locali, alcune organizzazioni imprenditoriali o delle cooperative hanno fornito alle imprese strumenti più solidi e continuativi per affrontare tutti i problemi relativi all’amministrazione, alla gestione dell’impresa.
Dicevi che c’era anche un problema legale...C’era un problema enorme con la giustizia, con la legge. L’esperienza delle imprese recuperate, agli occhi del mondo imprenditoriale e di una parte dell’opinione pubblica, rappresentava quasi un attentato al principio di proprietà. Va detto che questa argomentazione era soprattutto l’arma propagandistica da parte degli imprenditori. Quello che non si diceva è che in molti casi erano stati proprio loro ad abbandonare le imprese. E allora succedeva che appena l’impresa veniva rimessa in funzione, gli imprenditori tornavano a mettere gli occhi su quella proprietà che prima avevano abbandonato.
Ovviamente i soggetti coinvolti nell’occupazione delle fabbriche non erano affatto interessati a mettere in discussione il principio della proprietà privata. Loro volevano molto più semplicemente difendere il posto di lavoro. Non era un movimento che in qualche modo voleva instaurare un principio rivoluzionario, che voleva restituire al popolo quella proprietà privata, ritenuta -secondo l’antico slogan- un furto. Niente di tutto questo.
Il problema legale però rimaneva e allora si sono trovati dei trucchi legislativi per consentire, in una situazione di crisi enorme, che queste esperienze continuassero. Uno di questi stratagemmi è stato il ricorso alla legge che permette l’esproprio quando è necessario disporre di terreni che si trovano nel tragitto di opere pubbliche come strade, ferrovie, ecc. È stato quello il dispositivo che ha permesso di espropriare le fabbriche in quanto ritenute di interesse collettivo, di interesse pubblico.
Attraverso questa piccola strettoia legale, i tribunali di diverse città e di diverse province hanno consentito ai lavoratori di riprendere la produzione come affidatari di queste imprese. Così, grazie a leggi ad hoc, diverse amministrazioni locali hanno consegnato le imprese ai lavoratori che nel tempo avrebbero potuto riscattarle, diventandone proprietari. Questo in estrema sintesi, perché i problemi giuridici restano ancora oggi molto complessi.
Nel corso di questa battaglia su più fronti, i lavoratori mobilitati hanno anche dovuto rivedere il proprio bagaglio di conoscenze, competenze e anche convinzioni.I lavoratori, inoltre, hanno dovuto passare, anche culturalmente, da dipendenti a "padroni”. Com’è andata?
Si tratta di un cambiamento importante: questi lavoratori hanno dovuto trasformarsi, anche dal punto di vista antropologico, da dipendenti a imprenditori di se stessi, o meglio imprenditori collettivi dell’impresa che volevano salvare. Un processo di estremo interesse dal punto di vista sociale e delle trasformazioni individuali che sono avvenute negli operai, e a maggior ragione nelle operaie, che spesso hanno dovuto affrontare pure problemi personali. Questo le lavoratrici lo mettono sempre molto in evidenza: partecipare alle mobilitazioni, ai picchetti, agli scontri con la polizia, ai piccoli accampamenti organizzati fuori dal portone della fabbrica per impedire che le macchine potessero essere portate via, che potevano durare mesi; tutto questo ha costituito, soprattutto per le donne, un’esperienza che ha cambiato la loro identità, la loro cultura, portandole a una partecipazione, a un protagonismo al quale molto spesso non erano abituate. Non erano abituati neanche gli uomini, per la verità, perché in buona parte queste imprese non erano sindacalizzate, quindi non c’era una tradizione di contrattazione, partecipazione, mobilitazione attorno ai valori della rappresentanza del lavoro, del sindacalismo, eccetera. Spesso si è dovuto proprio cominciare da zero.
Questa esperienza di trasformazione della propria identità come lavoratori è stata talmente forte che la si è voluta continuare anche in una condizione strutturale che ormai era completamente diversa da quella originaria. In fondo parliamo di imprese recuperate nel 2001-2002 e che però, nel periodo della ripresa economica del paese, non sono affatto scomparse, anzi hanno continuato a crescere, svilupparsi e soprattutto hanno continuato ad aumentare di numero. Con l’avvio della normalizzazione economica e politica del paese, quest’esperienza non ha affatto perso di significato, non è rientrata, i lavoratori non hanno cercato nuovi imprenditori che acquistassero gli impianti, le fabbriche, non hanno cercato di tornare sotto il regime del lavoro subordinato. Qui sta secondo me il valore e il significato anche storico di quest’esperienza. Nella storia del movimento operaio ci sono state spesso occupazioni di fabbrica, anche con la ripresa della produzione, ma sono state sempre esperienze limitate nel tempo e nel numero, nell’entità; e comunque relative soltanto ai momenti di maggiore crisi politica, economica e sociale, come le rivoluzioni, la fine delle guerre, gravi crisi economiche.
Ma in tutti questi casi, le esperienze di autogestione sono state regolarmente ricondotte alla normalità nel momento in cui la crisi veniva risolta. Abbiamo esperienze di autogestione nella Russia rivoluzionaria dopo il 1917, nei moti rivoluzionari in Germania dopo la Prima guerra mondiale; nel momento in cui arriva al potere il Fronte popolare in Francia nel ’36; durante la guerra civile spagnola, sempre nel 1936, in Catalogna; prima ancora nella Comune di Parigi. C’è anche l’esperienza dei consigli di gestione in Italia dopo la fine della guerra. Ma, ripeto, sono tutte esperienze che finiscono nel momento in cui cessa la crisi.
In questo caso parliamo invece di un processo autogestionario che dura ormai da 12-13 anni e che quindi ci consente anche di studiare i meccanismi di autogestione come non era mai avvenuto in precedenza.
Una volta diventati imprenditori, i lavoratori si trovano a dover decidere di retribuzioni, orari e ritmi di lavoro, disciplina...
È estremamente interessante vedere come queste imprese vengono gestite, come si organizza il lavoro nella quotidianità. I lavoratori delle fabbriche recuperate ci tengono moltissimo a dire che sono imprese autogestite. In questo c’è una differenza notevole rispetto alle cooperative. Lo dico perché formalmente queste fabbriche sono considerate cooperative. Lo statuto di cooperativa serve come copertura istituzionale, per avere i finanziamenti e i sussidi dello Stato; serve anche come strumento di contrattazione con le amministrazioni, i partiti, i tribunali. In realtà, però, all’interno vige un doppio regime. Nel senso che queste imprese conservano come criterio base per il loro funzionamento lo statuto autogestionario. Qual è la differenza tra autogestione e cooperativa? Ciò che distingue le due esperienze è la democrazia partecipata che è tipica del clima autogestionario, a differenza della democrazia delegata che è invece più tipica della cooperativa. Molto concretamente: nella fabbrica recuperata argentina l’organizzazione del lavoro, le strategie imprenditoriali, le scelte operative sono frutto della partecipazione alle decisioni. E la partecipazione avviene attraverso lo strumento dell’assemblea. Nelle fabbriche recuperate c’è un clima di "assemblea permanente”; mediamente c’è un’assemblea di reparto ogni settimana, un’assemblea al mese sui problemi più grandi e via di seguito.
Nel caso delle cooperative tradizionali c’è un’unica assemblea annuale durante la quale vengono rinnovate le cariche, si discute il bilancio preventivo e il bilancio consuntivo; le decisioni poi le prende il Cda. Insomma, qui è tutta un’altra cosa.
Va da sé che una partecipazione così intensa, con una frequente consultazione tra i lavoratori, presenta dei problemi, in primo luogo perché porta via molto tempo. In molti casi infatti si discute se non sia preferibile delegare al Cda determinate decisioni così non si perdono troppe ore. Tutto questo è ancora oggi oggetto di dibattito. È comunque significativo che a distanza ormai di 10-12 anni continui a prevalere questa formula.
Un altro elemento di forte discussione è quello relativo all’egualitarismo, alla distribuzione uguale dei profitti d’impresa. Circa metà delle imprese recuperate optano per il principio egualitario, cioè a ciascun lavoratore viene data la stessa retribuzione, tuttavia, nel tempo questo principio viene in parte mediato tenendo conto, ad esempio, dell’orario diverso, del maggior carico di lavoro. Se guardiamo a questo fenomeno dal punto di vista diacronico notiamo una progressiva differenziazione delle retribuzioni a seconda di diverse variabili; una di queste è il fatto che un operaio abbia partecipato alla lotta iniziale e quindi sia un socio fondatore dell’impresa. Comunque le retribuzioni delle imprese recuperate mediamente sono più basse rispetto a quelle delle imprese private. Non si fa l’occupazione per arricchirsi: questo gli operai lo sanno bene, anche perché nella fase di lotta le paghe erano ben più basse, se non nulle.
La domanda che facevo sempre ai lavoratori era: "Ma se venisse un imprenditore privato disponibile ad acquistare la fabbrica, garantendovi sostanzialmente gli stessi diritti e una retribuzione a livello, voi cosa fareste?”. Ecco, nella maggior parte c’è proprio un riflesso d’orgoglio: "No, noi preferiamo restare così come siamo”. Anche questo dà la misura dell’importanza di un’esperienza che si fonda anche sulla solidarietà. Questo è un aspetto che non va dimenticato. La sociologia del lavoro oggi ci dice che la solidarietà operaia ormai si è estinta, che il grande serbatoio della solidarietà operaia si è prosciugato. Beh, a ben vedere, quella argentina è un’esperienza intanto di grande solidarietà operaia, ma anche di grande solidarietà sociale intorno alla fabbrica.
Poi c’è la questione della disciplina, altrettanto interessante. Quando le imprese sono state occupate, tutti i precedenti regolamenti interni, formali o meno, sono decaduti. I lavoratori si sono così trovati nella situazione di doversi regolare da soli anche dal punto di vista del mantenimento di un minimo di disciplina interna.
Si è discusso moltissimo, specie all’inizio, se redigere un nuovo regolamento o rimanere senza. L’esperienza della "liberazione” dai regolamenti precedenti è stata vissuta con grande intensità, non è stata di poco conto. In una di queste imprese, una delle prime cose che i lavoratori hanno fatto è stato di fracassare l’orologio di fabbrica, il timbracartellini. Teniamo presente che in molte di queste imprese vigeva un clima di forte autoritarismo, quindi la liberazione dalla disciplina di fabbrica è stata un’esperienza molto forte. È emblematico che alcune fabbriche abbiano istituito delle sale "de mate e de discusiones” dove appunto si discute e si beve il mate, la bevanda nazionale; in generale le fabbriche hanno smesso di essere luoghi chiusi, privati, per cui, ad esempio, si può camminare liberamente tra i diversi reparti, si può accedere agli uffici e agli archivi in un clima di grande informalità, anche verso gli eventuali visitatori. Ecco perché redigere un altro regolamento interno o meno non era una questione di poco rilievo. Scrivere un nuovo regolamento significava quasi tradire l’esperienza di liberazione vissuta, ma non scriverlo poteva dare spazio, nel lungo periodo, a comportamenti non consoni...
All’inizio, infatti, l’esperienza totalizzante dell’occupazione, della liberazione è stata così forte che si è creata un’armonia quasi spontanea tra i lavoratori, c’era la consapevolezza che tutto dipendeva da te e quindi non potevi sgarrare.
C’era una forte coesione e solidarietà e questo spirito bastava. Negli anni i lavoratori fondatori hanno iniziato ad andare in pensione e sono stati assunti nuovi giovani. Così una delle lamentele più frequenti è diventata quella che i giovani, non avendo vissuto la fase di fondazione, non capiscono, non sono come i vecchi, eccetera.
Si ripropone così il problema del regolamento di fabbrica. Nelle fabbriche più grandi, come la Fasinpat (Fábrica Sin Patrón), che fa piastrelle, è stato introdotto un regolamento di fabbrica che grosso modo contiene le stesse norme che conteneva il vecchio: non si può bere nei luoghi di lavoro, non si possono assumere droghe, bisogna essere puntuali... Generalmente comunque questi nuovi regolamenti di fabbrica hanno caratteristiche diverse da quelli antichi nel senso che prevedono sanzioni di carattere restitutivo più che punitivo. Per esempio, se una persona arriva in ritardo, non gli viene trattenuta la retribuzione, ma viene previsto che lavori un’ora in più in un giorno successivo e magari in un altro reparto, così che capisca che il lavoro è un bene collettivo, cioè non riguarda solo lui e il suo reparto, ma l’intera azienda.
In casi più gravi, come l’ubriachezza molesta, si sottopone la faccenda all’assemblea di tutti i lavoratori. Anche qui si tende a non procedere con l’estrema sanzione, cioè il licenziamento (ben sapendo cosa significa perdere il posto di lavoro), ma si opta per una forma di accompagnamento, anche di tipo psicologico, medico o sociale, se ritenuto necessario.
In altre fabbriche si è deciso di non fare più alcun regolamento, ma di autoregolarsi negli eventuali problemi che sorgono nello svolgimento quotidiano dell’attività.
Aver abbattuto il cosiddetto "costo manageriale” è una scelta che si conferma valida anche nel lungo periodo?
Nelle imprese recuperate, intanto, non c’è profitto per l’imprenditore, quindi quella parte di denaro viene utilizzata per altre funzioni: nuovi materiali, nuove macchine, eccetera. Dopodiché il management, i tecnici non hanno un differenziale salariale come accade altrove, quindi anche il denaro che nell’impresa privata serve al mantenimento del management torna all’impresa e viene utilizzato. Gli operai dell’impresa recuperata fanno questo ragionamento e vedono quindi una maggiore efficienza da questo punto di vista. Sul lungo periodo, tuttavia, c’è il rischio che un eccessivo appiattimento delle retribuzioni e un mancato riconoscimento delle funzioni più alte, porti intanto a una minore tensione da parte dei lavoratori per far andar meglio le cose e poi impedisca all’impresa di assumere dall’esterno lavoratori con competenze elevate, di amministrazione. In qualche caso quindi questa scelta, sui tempi lunghi, può finire col danneggiare l’impresa. I lavoratori sono consapevoli dei pro e dei contro delle diverse soluzioni. Su tali questioni il dibattito rimane aperto.
Non hai parlato del sindacato. Che ruolo ha avuto in tutto questo?
Il sindacato è stato completamente spiazzato. All’inizio perché si trattava di un’esperienza estranea alla tradizione contrattuale. In Argentina c’era e c’è un sindacato con una grande tradizione di lotta, con intrecci istituzionali molto stretti con i partiti politici, soprattutto quello giustizialista. C’è un’unica centrale sindacale tradizionale di stampo peronista. Quindi anche se la crisi era profondissima, il sindacato non ha capito la valenza di questa esperienza delle fabbriche recuperate; pensava fosse una vicenda che si sarebbe dissolta da sola una volta superata la crisi economica.
In parecchi casi il sindacato ha addirittura osteggiato l’occupazione delle imprese e pure il successivo recupero. In altri casi ha semplicemente ignorato queste esperienze. In altri ancora (rari) le ha sostenute. Solo nel corso degli anni il sindacato, visto che queste esperienze continuavano, ha dovuto rivedere le proprie posizioni e ha cominciato a guardare alle fabbriche recuperate in modo diverso. Nel frattempo, in Argentina è nato un nuovo sindacato, più movimentista, più legato alla base operaia, la Cta, (Central de Trabajadores de la Argentina) che ha invece assunto l’esperienza delle fabbriche recuperate come qualcosa che stava dentro la storia del movimento operaio; oggi è una delle organizzazioni che rappresentano l’esperienza delle imprese recuperate e costituisce un vero movimento sociale.
Sono nate anche reti di auto-aiuto tra le fabbriche recuperate.
Si sono create rete di cointeressenza, di scambio tra imprese appartenenti allo stesso settore. Il caso tipico è quello della Red Grafica, che raccoglie una quindicina di imprese recuperate del settore grafico-editoriale. Queste imprese, invece di farsi concorrenza secondo i criteri ortodossi dell’economia di mercato, cooperano tra di loro, si passano commesse, competenze, talvolta anche lavoratori. Se, per esempio, una commessa deborda alle possibilità di una singola impresa, questa chiama altri lavoratori o coinvolge le altre imprese recuperate; a volte si finanziano tra di loro. C’è proprio una rete di scambio; scambio che può avvenire anche sotto forma di baratto. Per esempio, la Fasinpat ha dato all’Hotel Bauen, che si trova nel centro di Buenos Aires (anch’esso in autogestione, occupato e recuperato dai lavoratori) le piastrelle necessarie per rifare la cucina e altri ambienti. In cambio l’albergo Bauen, quando un operaio della Fasinpat, che ha sede in Patagonia, va a Buenos Aires lo ospita gratuitamente. C’è un clima di solidarietà e di scambio decisamente estraneo all’esperienza delle imprese private che operano in regime di mercato.
Queste imprese devono molto al territorio, al quartiere e una volta ripreso a produrre hanno messo in atto forme di restituzione...
Il legame che si è venuto a creare tra queste imprese e il territorio è molto interessante.
Le imprese recuperate hanno proprio aperto le porte all’ambiente circostante, al quartiere. Al loro interno si svolgono attività che normalmente non si vedono in un’impresa privata: ci sono biblioteche, classi scolastiche, cicli di proiezioni cinematografiche, corsi di danza, di lingue, di informatica e via di seguito. Tutto dentro lo stabilimento. Si è rotto questo principio dell’impresa come spazio privato, impermeabile all’ambiente circostante. Se un turista tedesco che sa di queste imprese recuperate, si presenta davanti a uno di questi portoni e suona il campanello, lo fanno entrare e gli fanno fare il giro della fabbrica. È accaduto anche a me diverse volte.
In una piccola tipografia che si chiama Chilavert, al cui interno c’è anche una scuola professionale, l’Università di Buenos Aires ha aperto un centro di documentazione sul fenomeno delle imprese recuperate. Siccome ci sono docenti che studiano in modo costante questo fenomeno, l’Università ha pensato bene di aprire un centro di documentazione, ma non l’ha messo in una sede universitaria, bensì in questo piccolo stabilimento tipografico. Così anche gli studenti o gli studiosi che indagano su questo fenomeno vanno in questa fabbrica e lì trovano una stanzetta dove uno studente retribuito dall’Università tre giorni a settimana tiene aperto il centro di documentazione.
Ma poi ci sono concerti, conferenze... Quasi la metà di queste imprese recuperate svolgono attività dedicate al territorio. È proprio una forma di restituzione al quartiere della solidarietà ricevuta nella fase della lotta. È anche uno strumento per pesare di più politicamente.
Quante sono oggi le fabbriche recuperate?
Nel 2002 le fabbriche occupate erano circa 120-130; nel 2011-2012, dopo dieci anni, erano 205-210. È difficile conoscere il numero esatto, non c’è una statistica ufficiale. Alcuni giorni fa ho sentito il professor Andres Reggiani e mi ha detto che sono ulteriormente cresciute arrivando a trecento. È una forma che ormai è stata incamerata dal mondo del lavoro argentino, che consente di affrontare la crisi di un’impresa non semplicemente lasciando che le cose vadano come devono andare, ma assumendosi la responsabilità. Esperienze analoghe si sono riprodotte anche in altri paesi dell’America Latina. Imprese recuperate sono presenti in Brasile, Uruguay, Paraguay; in Venezuela hanno assunto una dimensione particolare perché il governo Chavez ha promosso direttamente questa esperienza. Qualcosa di simile si inizia a vedere anche da noi. La Rimaflow, di Trezzano sul Naviglio, è un po’ il punto di riferimento: un’impresa svuotata completamente delle macchine che adesso cerca di riprendere le sue attività. Ma ce ne sono altre. Anche se non c’è nessuno che le sta studiando in modo sistematico, hanno ormai una loro presenza e varrebbe la pena occuparsene. Purtroppo il sindacato in questi casi resta spiazzato: non essendoci più il padrone, non sa bene cosa fare. Le cooperative, da parte loro, vedono di cattivo occhio queste forme di autogestione e così, per ora, questi piccoli esperimenti restano in balia di se stessi. Peccato.
Pubblicato da UNA CITTÀ n. 209 / 2014 Gennaio.
Αργεντινή, Barbara Bertoncin, Συνεταιριστικό Κίνημα, Ανακτημένες Επιχειρήσεις, Αλληλέγγυα Οικονομία, Εργατική Αυτοδιαχείριση, Εργατικός Έλεγχος, 21ος αιώνας – Εργατικός Έλεγχος στη Σύγχρονη Εποχή, Λατινική ΑμερικήTopicΝαιΝαιNoΌχι -
Italian24/08/14
Pubblicare libri che sono ormai dei classici della letteratura latinoamericana e non solo, con una rilegatura che usa per le copertine il cartone comprato dai cartoneros, le persone che per guadagnarsi da vivere,durante la notte girano per le strade di Buenos Aires a raccogliere scatoloni fuori dai negozi per poi rivenderlo a peso. Questa l’idea vincente di Eloisa Cartonera, una casa editrice porteña, che quest’anno spegne 10 candeline.
All’inizio del 2003 quando nel quartiere de La Boca è iniziata l’esperienza di Eloisa Cartonera nessuno avrebbe mai immaginato un successo del genere. Tutto è iniziato con la crisi dell’inizio anni 2000, alcuni dicono che questo è un “prodotto della crisi” altri che questa è stata un modo per “estetizzare la miseria”, secondo i soci della cooperativa né l’una né l’altra. Loro si considerano un gruppo di persone che si sono messe insieme per lavorare in modo diverso, per imparare attraverso il lavoro un sacco di cose, per esempio il cooperativismo, l’autogestione, il lavoro per il bene comune. Un’esperienza nata in un periodo storico molto particolare per l’Argentina durante il quale sono nate tantissime cooperative e piccole esperienze imprenditoriali, assemblee, gruppi di quartiere, movimenti sociali, tutte iniziative nate dalla gente, vicini di casa, lavoratori, gruppi che hanno provato a resistere. Eloisa Cartonera è una di questi.
La cooperativa è un esperienza molto conosciuta in tutta l’Argentina che conta sull’appoggio innanzitutto di autori che cedono i loro diritti per la pubblicazione in questo formato molto particolare, ma anche grazie alla solidarietà di molte persone che hanno iniziato ad acquistare queste opere e a consigliarle agli amici, a regalarle, libri che sono considerati delle vere e proprie opere d’arte, al di là dell’opera in sé. La copertina cartonata infatti è poi dipinta a mano con dei colori sgargianti, che rendono ogni libro un pezzo unico. E allora si possono trovare le opere di Borges, di Walsh, e non solo, ma non sono mai una uguale all’altra. “Il nostro sogno è pubblicare il lavoro completo di Rodolfo Walsh, uno scrittore argentino, un intellettuale del popolo, un giornalista formidabile che venne ucciso dai militari nel 1976. E’ uno dei nostri uomini più importanti che tutti dovremmo leggere, scoprire ed innamorarci delle sue opere. Se Rodolfo Walsh fosse ancora vivo gli piacerebbe molto la nostra idea” dicono dalla cooperativa.
Negli stessi giorni dei cacerolazos, quando gli argentini scendevano in strada a protestare, occupavano le fabbriche, quando nascevano le assemblee di quartiere, le assemblee popolari, gli spazi di incontro per il baratto. In queste manifestazioni i soci della futura cooperativa hanno conosciuto i cartoneros. L’idea nasce dallo scrittore Washington Cucurto e l’artista Javier Barilaro che nell’estate del 2002/2003 iniziavano a pubblicare dei libretti colorati di poesia: Ediciones Eloísa. Da lì, insieme ad alcune persone che avevano appena perso il lavoro, ad altre che si incontravano per il baratto e soprattutto insieme ai cartoneros, dopo l’ennesimo aumento del prezzo della carta nacque l’idea che si poteva fare qualcosa di completamene nuovo. Nasce così il laboratorio nella calle Guardia Viej nella primavera del 2003.
Fu subito un successo, sia in strada che nella stampa mondiale. Nei primi anni giornali e radio di tutto il mondo passavano dalla cooperativa per fotografare e vedere il laboratorio dove si creavano i libri di Eloisa Cartonera. Fu allora che i soci si resero conto che l’idea era vincente. Un’idea semplicissima, comprare il cartone dai cartoneros, tagliarlo a misura di copertina per libro, dipingerlo e fissarlo al resto del libro, che di solito è un testo fotocopiato di cui l’autore ha condiviso i diritti. Ed ecco pronto un libro cartonero. La cooperativa è stata invitata a tantissime fiere del libro, sia in Argentina che in tanti altri paesi, dando ispirazione ad altre esperienze editoriali.
Oggi i soci sono soddisfatti di questi 10 anni di lavoro. “Non vogliamo chiuderci in noi stessi, vogliamo che si uniscano altre persone, altre idee, trovare altre forme per fare altre cose, per questo la carto come la chiamiamo affettuosamente, è uno spazio aperto a tutti”
Eloisa Cartonera, oltre ad essere una cooperativa che crea lavoro, che ricicla il cartone, che si rifornisce da persone che vivono in gravi difficoltà creando delle relazioni interpersonali importanti e rapporti di fiducia che durano nel tempo, svolge un lavoro culturale di enorme importanza, quello di far arrivare a persone che altrimenti non si potrebbero permettere di leggere, opere letterarie fondamentali.
Il catalogo dei titoli disponibili conta quasi 200 opere, tra poesia, racconti, novelle, letteratura per bambini, teatro. Oggi nel mondo, sono circa 50 le case editrici cartonere che hanno preso ispirazione da Eloisa. Buon compleanno!
Pubblicato sul blog di Elvira Corona e su Il granello di sabbia n. 3 aprile 2013.
Αργεντινή, Συνεταιριστικό Κίνημα, Elvira Corona, Αλληλέγγυα Οικονομία, 21ος αιώνας – Εργατικός Έλεγχος στη Σύγχρονη Εποχή, Λατινική ΑμερικήTopicΝαιΝαιNoΌχι -
Italian24/08/14
La notte del 19 dicembre 2001 prima a Buenos Aires e poi in tutte le maggiori città e piccoli paesi dell’Argentina, la gente esausta, senza un’organizzazione né un leader, scese in strada a protestare con lo slogan ¡Que se vayan todos! (che se ne vadano tutti). Todos, perché nessuno fino ad allora era riuscito a dare risposte alla nazione ricca di risorse naturali ma sull’orlo del baratro. I politici sopratutto, arroccati al potere con un Carlos Menem che da dieci anni alla Casa Rosada, insieme al suo ministro dell’economia Domingo Cavallo, erano riusciti a svendere il paese, pezzo per pezzo, inaugurando l’illusorio piano di convertibilità monetaria un peso/un dollaro, ma anche a proteggere gli interessi economici dell’elite. Ferrovie, società petrolifere, poste, trasporto aereo, energia elettrica, telecomunicazioni, i settori strategici di uno Stato furono i primi ad essere svenduti a prezzi di saldo, in un contesto di corruzione dilagante.
Le nuove riforme che diedero spazio alla flessibilità lavorativa e la liberalizzazione di mercati di beni e denaro fanno il resto, portando il paese sul lastrico, con tassi di disoccupazione che superano il 20% della popolazione. Nel frattempo le banche prestavano i soldi dei propri risparmiatori per finanziare affari rischiosissimi, per questo decisero che ogni correntista non poteva prelevare più di 250 pesos alla settimana. E’ il corralito, la goccia che fa traboccare il vaso. Gli argentini assaltano i bancomat, i supermercati e si scontrano con la polizia in una guerriglia urbana che fa più di 30 morti. Ma durante i periodi più duri della crisi del 2001, gli argentini non si arrendono e scoprono nuove vie per andare avanti. Dall’esperimento delle fabbriche recuperate, alle assemblee di quartiere, ritrovano spazi di solidarietà anche ricorrendo al baratto e aiutando quelli più in difficoltà. “Un vento capace di spettinare la storia”, come lo definì il poeta e scrittore uruguayano Mario Benedetti. Il fenomeno argentino delle imprese recuperate dai propri lavoratori per molti sembra essere solo un ricordo del 2001. Allora erano in tanti a sostenere che l’esperimento sarebbe durato poco. E si sbagliavano. A oltre 10 anni dalla grande crisi del paese sudamericano che spinse molti lavoratori a prendere in mano la gestione delle fabbriche che i loro padroni avevano abbandonato sommersi da debiti, l’autogestione in Argentina si rivela un fenomeno stabile, anzi in aumento. In realtà, queste esperienze – alcune delle quali iniziate già prima della crisi – non solo sono sopravvissute ma si sono estese ed evolute a forme di autogestione partecipata, e sempre più spesso varcano i confini del lavoro in fabbrica.Gli ultimi dati disponibili sono del 2010, uno studio condotto dal programma Facoltà Aperta di Lettere e Filosofia e Scienze Sociali dell’Università di Buenos Aires (UBA). L’obiettivo di questo lavoro è stato quello di fornire una panoramica sulla situazione delle imprese recuperate (Empresas Recuperadas por sus Trabajadores – ERT), cercando di chiarire la portata del fenomeno, delinearne il numero, le dimensioni e le caratteristiche. L’indagine ha contato 205 ERT che impiegano 9.362 lavoratori. Il tasso di sopravvivenza è molto elevato: quasi il 90% o più, se si includono quelle che hanno trovato altre forme di sopravvivenza rispetto all’autogestione. Secondo Andrés Ruggeri, direttore del programma dell’UBA, le aziende recuperate non solo non sono scomparse ma sono diventate una opzione che i lavoratori riconoscono come valida nonostante le difficoltà, piuttosto che rassegnarsi alla chiusura dell’azienda.
Nonostante le numerose differenze, che rendono queste esperienze molto eterogenee, è indubbio che tutte le storie siano legate da un filo comune sempre attuale: l’importanza del lavoro e della dignità delle persone. Se uno dei risultati più drammatici della crisi fu la chiusura o la svendita di numerose imprese che non riuscivano a reggere la concorrenza internazionale la risposta della società civile fu l’autogestione: gli operai presero in mano la gestione delle fabbriche che i loro padroni, sommersi dai debiti, avevano abbandonato.
E a più di 10 anni l’autogestione in Argentina si rivela un fenomeno stabile, anzi in aumento.
Se non ci si può fidare più dei padroni, dei politici, delle istituzioni, del sindacato, tanto vale auto organizzarsi: “non avevamo niente da perdere” è la risposta più frequente tra gli operai delle recuperadas. “Un padrone senza lavoratori non può mandare avanti un’azienda, un gruppo di lavoratori senza un padrone si” affermano con orgoglio . Rimettere l’essere umano al centro sembra essere stata l’unica ricetta capace di dare delle risposte, un’umanità premiata dal successo di tantissime esperienze, e che non hanno dato solo una risposta immediata alla crisi, ma che ancora oggi sono realtà funzionanti, anche se tra le difficoltà di dover operare in una economia di mercato.
Un risultato che si deve non soltanto al coraggio dei lavoratori anche alla enorme rete sociale creata e alla grande solidarietà della società civile che ha legittimato le lotte, senza questo sostegno probabilmente le cose sarebbero andate diversamente. Nei primi tempi il fenomeno ha destato anche la curiosità internazionale, per lo più sopita nel corso degli anni, forse per paura che l’autogestione venga presa d’esempio da altri paesi, con il grande rischio di mettere in discussione tutto il sistema che più che mai sta mostrando debolezza e fragilità. Esempi forse sottovalutati, o peggio neppure presi in considerazione dal cosiddetto mondo occidentale, ancora illuso che le stesse persone e istituzioni che hanno provocato le crisi siano anche in grado di risolverle. Le storie dei lavoratori argentini che hanno deciso si prendere in mano il loro destino, possono essere invece utili per offrire alcuni spunti di riflessione anche alla luce della nostra crisi, con punti di vista e soluzioni alternative che hanno contribuito a un cambiamento di prospettive nell’intera società del paese.
Elvira Corona (autrice di Lavorare senza padroni, viaggio nelle imprese recuperadas d’Argentina, Emi edizioni).
Pubblicato sul blog di Elvira Corona e su Il granello di sabbia – Attac Italia (actually not found)
Αργεντινή, Elvira Corona, Ανακτημένες Επιχειρήσεις, 21ος αιώνας – Εργατικός Έλεγχος στη Σύγχρονη Εποχή, Λατινική ΑμερικήTopicΝαιΝαιNoΌχι -
Italian24/08/14
Buenos Aires Una Empresa Nacional ovvero Bauen. Si chiama così adesso uno degli hotel storici della città porteña che ha resistito alla famigerata crisi che il paese ha dovuto attraversare nel 2001. Una resistenza fatta di lotte e richiesta di giustizia sociale portate avanti dai suoi dipendenti. Grazie alla loro tenacia adesso il Bauen infatti è una delle circa 200 imprese recuperate del paese latinoamericano, i suoi lavoratori ora sono a pieno titolo soci della cooperativa che lo gestisce. Ma la lotta non è ancora finita, ora chiedono al governo l’espropriazione definitiva.
La storia del Bauen inizia nel 1978, in piena dittatura militare, quella che conta 30 mila desaparecidos e per cui ancora si chiede verità e giustizia. Il ’78 fu un anno molto importante per l’Argentina. Era l’anno dei mondiali di calcio, un evento che avrebbe dovuto ripristinare una credibilità internazionale che l’Argentina iniziava a perdere, ma che in realtà – per fortuna – fu determinante perché il mondo venisse a sapere cosa in realtà stesse accadendo nel paese. Le urla dei tifosi non bastarono infatti a coprire quelle delle persone torturate negli oltre 500 Centri di Detenzione Sterminio e Tortura sparsi nel paese.
Quell’anno – e proprio per ospitare i tifosi da tutto il mondo – il Bauen apre le sue lussuose camere nella Avenida Callao, pieno centro della città. Il presidente della Bauen S.A. – Marcelo Iurcovich – aveva delle buone conoscenze tra i militari al potere, l’hotel fu infatti costruito grazie ai finanziamenti concessi dal Banade (Banco Nacional del Desarollo) e mai restituiti. L’hotel iniziò anche ad accumulare debiti con lo stato argentino per le tasse che non vennero mai pagate.
Questo enorme “secondo credito” che i proprietari del Bauen si concedettero permise una gestione senza apparenti problemi fino al 1997, quando l’hotel venne venduto al gruppo cileno Solari S.A che pagò solo una quota di quella stabilita. Questo gruppo diresse l’hotel fino al fallimento definitivo, dichiarato per le pressioni dei creditori nel dicembre del 2001. Pochi giorni dopo il Natale del 2001, il Bauen chiude e manda a casa più di 100 lavoratori (quelli rimasti dopo precedenti licenziamenti, negli anni di gloria l’hotel è arrivato ad avere fino a 200 dipendenti) senza dare nessuna spiegazione.
Negli stessi giorni l’intera Argentina si svegliava con le banche chiuse e l’inizio della crisi economica più disastrosa del paese. Ma il popolo non rimase a guardare, e oltre a scendere in piazza con le famose casseruole, cercò di trovare soluzioni ai problemi. Inizia così l’avventura del Movimento Nacional de Empresa Recuperada (MNER), il movimento che riunisce tutti i lavoratori che si sono battuti per poter continuare a lavorare nelle proprie aziende senza padrone, a dimostrazione del fatto che i fallimenti erano frutto di imponenti speculazioni finanziarie nel paese e da gestioni scellerate delle imprese non dalla reale inefficienza delle imprese.
Il Bauen non è l’unico caso, a partire dal dicembre 2001, furono moltissimi i lavoratori che iniziarono ad associarsi e a lavorare per recuperare le imprese nelle quali lavoravano e che da un giorno all’altro chiusero mandando tutti a casa. Al Bauen erano circa una ventina i dipendenti che non si arresero e decisero di mettersi in contatto con le altre organizzazioni di lavoratori intenti a recuperare le imprese per le quali avevano lavorato per anni.
Nel 2003 anche Jorge Suarez comincia a lavorare nell’ufficio stampa del Bauen e ricorda così quei giorni: “il nostro ufficio stampa in realtà è anche un ufficio politico, io prima lavoravo per un collegio privato ma sono sempre stato impegnato nel sociale, nelle villas miserias con gli ultimi, questo lavoro è stato un modo per continuare a lavorare contro le ingiustizie della nostra società”. Dopo anni di riunioni, contatti, reti messe in piedi tra lavoratori di tutta l’argentina, ma anche di fatiche per rimettere a posto la struttura, finalmente nel 2004 la cooperativa diventa realtà e le porte dell’hotel riaprono.
Il Bauen è gestito dalla cooperativa di lavoratori “perchè la cooperativa ci è sembrata la forma più democratica possibile, le decisioni importanti vengono prese solo dall’assemblea” – continua Jorge Suarez. Ma non è più solo un hotel: da ora in poi, oltre ad avere un target più ampio, fatto per lo più di persone sensibili alle tematiche sociali ma anche di vecchi clienti affezionati, ora le sue sale sono anche uno spazio culturale aperto per la comunità. Il Bauen è visitato da persone da tutto il mondo, curiose di vedere questo strano esperimento argentino.
Un esperimento che inizia a funzionare, a darne prova la ricomparsa della famiglia Iurcovich che ne reclama la proprietà e fa una vendita dell’impresa Bauen alla nuova Mercoteles, della quale direttore è il cognato di Iurcovich. L’idea era quella di riavere un’ azienda messa in piedi con soldi pubblici mai restituiti, liberata dai debiti contratti dalla Solari, e rimessa in funzione dagli ex dipendenti. Mercoteles si rivolge al tribunale commerciale per avere il Bauen, ma i lavoratori chiedono allo stato di prendere in mano la situazione e di dare ai lavoratori le stesse possibilità anche a loro di acquistare l’hotel che hanno rimesso in funzione, a un prezzo ragionevole, perché ora loro non hanno nessuna intenzione di rimettersi a lavorare per un “padrone”.
Lo stato invece non ha mai dato la possibilità ai lavoratori di riscattare l’hotel e il 20 luglio 2007 il tribunale decreta lo sgombero dell’hotel entro 30 giorni, affinché l’immobile passi nelle mani della Mercoteles. Decisione presa sottovalutando tutte le terribili conseguenze, non solo per i soci della cooperativa che ormai conta 150 lavoratori e che con tanti sacrifici sono riusciti a fare dell’hotel fallito un azienda funzionante, ma anche con tutte le aziende che hanno dei contratti con la cooperativa, molte delle quali sono le stesse dei tempi precedenti alla chiusura, che hanno voluto dimostrare fiducia ai lavoratori.
Contro questa decisione cominciano una serie di manifestazioni alle quali partecipano tutti quelli che ruotano attorno al Bauen per dire no allo sgombero, accompagnati da circa cinque mila persone solidali alla loro causa. Persone comuni ma anche persone note per i loro impegni sociali, come Hebe de Bonafini, presidente da Las Madres di Plaza de Mayo, il premio Nobel per la pace Adolfo Perez Esquivel, il regista ex desaparecido Fernando Pino Solanas. Il giorno dopo il giudice accetta l’appello contro lo sgombero presentato dai soci della cooperativa Bauen Ma una soluzione chiara alla situazione ancora non c’è.
I soci hanno lavorato insieme alla deputata nazionale Victoria Donda, sensibile al tema della giustizia sociale forse anche per la sua storia personale (nata da madre desaparecida e adottata appena nata dagli stessi militari aguzzini dei genitori) per una legge di esproprio. Solo così i soci potranno stare tranquilli e continuare il loro lavoro, recuperare definitivamente la loro impresa, la loro identità e la loro dignità. “I governanti devono rendersi conto che l’Argentina è in mano ai suoi lavoratori, e deve cominciare a negoziare con loro, rendendoli partecipi di tutte le decisioni che li riguardano” conclude Suarez.
SULLE IMPRESE RECUPERATE
Le imprese recuperate sono le imprese che affrontarono in maniera alternativa la crisi economica del 2001 in Argentina. Sicuramente una delle più difficili che il paese dovette affrontare, frutto di una svolta estremamente liberista e capitalista iniziata già all’epoca della dittatura ’76-’83 e accentuata durante la presidenza di Carlos Saùl Menem tra la fine degli anni ’80 e tutto il decennio ’90. Uno dei risultati più drammatici fu la chiusura o la svendita di numerose imprese che non riuscivano a reggere la concorrenza internazionale. In risposta alla crisi furono moltissimi i casi di autogestione organizzata dagli stessi lavoratori, si contano oltre 200 casi di imprese che, ad oggi sono riuscite a superare la crisi e a mantenere le imprese concorrenziali sul mercato (su questo argomento si può vedere il documentario di Naomi Klain “The Take“).
Questo risultato si deve anche all’enorme rete che questi lavoratori hanno creato, esperienze condivise che hanno potuto aiutare altri lavoratori che si trovavano a vivere le stesse situazioni, ma anche grazie alla grande solidarietà dimostrata da molti fronti della società civile che ne hanno appoggiato le lotte. Nei primi tempi il fenomeno ha destato molta curiosità anche a livello internazionale, oggi per lo più sopita forse per paura che l’autogestione venga presa come esempio anche da altri paesi con il grande rischio di mettere in discussione tutto il “sistema” che oggi più che mai mostra la sua debolezza e fragilità. (E.C.)
Pubblicato su Unimondo e sul blog di Elvira Corona il 1° maggio 2009.
Αργεντινή, Bauen, Συνεταιριστικό Κίνημα, Elvira Corona, Αλληλέγγυα Οικονομία, Εργατική Αυτοδιαχείριση, Εργατικός Έλεγχος, 21ος αιώνας – Εργατικός Έλεγχος στη Σύγχρονη Εποχή, Λατινική ΑμερικήTopicΝαιΝαιCurrent DebateΌχι -
Italian24/08/14Fino a poco più di due anni fa, la Allocco era la prima impresa argentina nella produzione di macchine per l’industria dell’olio. La stratosferica impennata della coltivazione di soja non le ha portat
Entrare alla Allocco vuol dire cambiare atmosfera, significa entrare in uno spazio che sembra essersi sospeso nel tempo, in quel 2012 nel quale le macchine hanno funzionato per l’ultima volta. C’è silenzio, un silenzio eccessivo, in questo territorio esteso dominato da titanici dispositivi meccanici di dimensioni sbalorditive. Quanto sarà stata bella la sinfonia della produzione nei momenti di prosperità e nelle ore di lavoro straordinario? In questi momenti di quiete forzata, affondati nel pieno dell’incertezza del destino e del futuro di oltre cento famiglie, gli occhi (dei lavoratori che hanno recuperato la fabbrica, ndt) brillano nel raccontarci le glorie passate, la ragione della storia dei lavoratori che gentilmente hanno aperto le porte al nostro arrivo. L’ambiente è affabile, ricco di curiosità per quello che stiamo progettando di fare e c’è una visibile ansia di raccontare esperienze, una voglia che si sappia cos’è capitato in una delle imprese che creavano macchine per la lavorazione dell’erba cattiva che va tanto di moda, la soja.
Che succede quando, dopo tanti anni di “stabilità”, si verifica una rottura? Qualcosa cambia in modo profondo e repentino. Quando ciò che è stabile si destabilizza, e si guarda indietro, la calma di tanti anni, col senno di poi, si trasforma in passività. E adesso? Il caos. Il rimanere orfani. Soli. Quando il presente non si può predire, è difficile vedere il futuro. Appaiono tanti percorsi possibili ma senza la speranza e l’organizzazione, quei percorsi si riducono al nulla, ad avveniristici prigionieri di un inatteso panico. Il futuro si presenta come l’im-possibile, I lavoratori di Allocco lo hanno vissuto sulla pelle. Il senso d’impotenza e la paura li hanno spinti, dopo molte discussioni, sul miglior cammino possibile, quello della riflessione. E adesso che facciamo? Ci organizziamo per non crepare.
Pensarsi come soggetti, e non più come semplici oggetti della produzione, comporta il riconoscere il potere di trasformazione che tutti abbiamo. Alla Allocco hanno dovuto vivere un conflitto che li ha costretti a rendersi conto del loro ruolo dentro uno spazio produttivo e sociale nel quale le relazioni di gerarchia segnavano una differenza. In questo modo nasce la coscienza di sapersi operai di fronte a un sistema capitalista fondato sullo sfruttamento dei lavoratori. Cambiare la relazione con il proprio lavoro, la relazione con l’impresa e quelle tra gli stessi lavoratori. Tutto questo processo, come tanti altri, si basa sul movimento, sulla riflessione e l’azione, sull’organizzazione e gli incontri che vanno al di là di un mate bevuto insieme o di una cordiale chiacchierata Serve un vero incontro tra soggetti che potenzia le loro caratteristiche e li trasforma in coloro che fanno la propria storia. Investigare, consigliarsi, discutere in assemblea, ascoltarsi e tradurre in parole tutto un processo che quando incomincia poi è difficile da frenare. Non c’è ritorno. Non ci sono più catene invisibili o ignoranza di fronte alla diseguale relazione tra occupato e datore di lavoro. A volte, il cane non vuole cambiare padrone ma liberarsi della corda che lo lega. Il divenire fatto esperienza.
Nella tranquillità, rimangono le assenze e si sente l’incertezza degli operai. Uno può quasi vedere, nelle ombre e in controluce, la vita che questo luogo aveva quando le preoccupazioni erano altre, giorno dopo giorno c’era una sicurezza e il vocabolario per definire il destino dell’impresa non comprendeva nemmeno l’ombra di parole come debito, svuotamento, sussidi o fare in cooperativa. I padroni cambiano, i tempi anche. Qualcosa resta, tuttavia. Il potenziale produttivo di questi lavoratori, che sanno, possono e vogliono continuare, in questo luogo, non solo fabbricando quello che producono ma costruendo le loro vite intorno a questa impresa.
L’esperienza è in cammino, l’orizzonte è ancora troppo dilatato. Tuttavia in ogni fabbrica nella quale gli operai cambiano il loro modo di pensare, in ogni assemblea dove comprendono le regole del gioco e, al di là dello schema di lavoro, in ogni lotta per la dignità dei lavoratori, si va facendo più solido e meno utopico quel lontano orizzonte.
Trovate le molte altre belle foto del reportage di Fernando Der Meguerditchian, Lu Harreguy e Juliana Faggi nel sito della Brújula: http://brujulacomunicacion.com.
La Brújula è una bella e interessante cooperativa di comunicazione composta da Lavoratori e studenti della comunicazione, giornalisti, fotografi, disegnatori e da molti altri che sentono la necessità impellente di raccontare, analizzare e comunicare in una qualunque forma ma da una prospettiva critica. La coopartiva sorge soprattutto come una necessità di risolvere in modo collettivo le necessità singole di creare spazi e mezzi per comunicare.
Originariamente pubblicato da brujulacomunicacion.com: Hecho en Allocco, 07 Abril 2014.
Tradotto per Comune-info da m.c., 29 luglio 2014.
Εργατικός Έλεγχος τον 19ο αιώνα και πρωτύτερα, Αργεντινή, Fernando Der Meguerditchian, Juliana Faggi, Lu Harreguy, Κοινωνικοί Αγώνες, Αλληλέγγυα Οικονομία, Εργατική Αυτοδιαχείριση, Εργατικός Έλεγχος, Εργατικά Συμβούλια, Λατινική ΑμερικήTopicΝαιΝαιNoΌχι
