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  • Italian
    25/06/14

    Con una velocità mai vista prima per gli standard dei tribunali greci, è stato fissato d’urgenza per oggi 5 giugno il processo per stabilire un’amministrazione temporanea della Vio.Me. S.A. La liquidatrice della filiale fallita Filkeram, A. Semertzìdou, con una richiesta al Giudice di Pace di Salonicco chiede in sostanza che venga restituita la fabbrica all’amministrazione precedente. Con questa proposta vergognosa chiede al Tribunale di nominare nell’amministrazione temporanea Christina Filippou, condannata in primo grado con due sentenze alla detenzione per debiti verso i lavoratori.

    Chiede cioè che l’amministrazione venga attribuita a colei che ha abbandonato l’impresa dopo averla affondata nei debiti e aver lasciato i lavoratori con i salari non retribuiti per anni. Come viene riportato spudoratamente nella stessa richiesta, il loro obiettivo è quello di portare l’impresa alla bancarotta, quindi anche i lavoratori al licenziamento senza alcun compenso. È ovvio che non hanno alcuna preoccupazione per i lavoratori della Vio.Me, né della Filkeram, ma pensano spudoratamente al proprio portafoglio e basta. Il loro obiettivo è quello di trovare dei modi indiretti per evitare i debiti verso i lavoratori, verso l’IKA, lo stato e le parti terze. Se l’amministrazione precedente ritornasse alla guida dell’impresa, il suo primo obiettivo sarebbe quello di cacciare via gli operari che stano lottando e sgomberare la fabbrica.

    Ancora una volta, vediamo come gli ufficiali dello stato agiscono a favore degli interessi dei datori del lavoro e cercano di colpire la lotta piena di speranza della Vio.Me. Ma hanno fatto i conti senza di noi. La lotta esemplare dei lavoratori della Vio.Me, che ha commosso tanti e ha trovato il sostegno di migliaia di persone in Grecia ma anche all’estero, vincerà! ll progetto dell’autogestione della produzione e della democrazia diretta di base è l’unica strada per scacciare l’autoritarismo dei datori di lavoro e dei giudici. È l’unico modo per riprendere la nostra vita nelle nostre mani.

    CI TROVERANNO CONTRO DI LORO

    GIÚ LE MANI DALLA LOTTA DEI LAVORATORI DELLA VIO.ME

    CHE VENGA RIGETTATA LA RICHIESTA SCANDALOSA

    Fonte: biom-metals

    Traduzione di AteneCalling.org

    Era
    Ναι
    Ναι
    No
    off
    Όχι
  • Italian
    25/06/14

    La Grecia delle lotte contro l'austerità compie ancora un piccolo, grande, passo avanti. Con un comunicato pubblicato l'8 febbraio 2013, gli operai della fabbrica Vio.Me annunciano l'inizio dell'autogestione della produzione. Avevo incontrato alcuni operai della fabbrica questa estate ad Atene durante una delle numerose iniziative di discussione pubblica dedicate alla lotta della Vio.Me.

    Nel maggio 2011, la Philkeram-Johnson, azienda leader della ceramica, decide di chiudere lo stabilimento Viomihaniki Metalleytiki di Salonicco, lasciando senza salario più di ottanta operai. Inizieranno giornate di lotta e di sciopero per i dipendenti costretti a sopravvivere con poco più di trecento euro al mese del sussidio sociale. Durante le assemblee operaie, organizzate per fare il punto della situazione, i lavoratori si rendono conto di essere ormai prossimi alla fine del vicolo cieco, in cui la crisi li aveva trascinati, e decidono con il consenso del 98% dell'assemblea di organizzarsi per autogestire la fabbrica. “Vogliamo essere conosciuti e riconosciuti dalla società. Vogliamo che più cittadini possibili siano al corrente degli obiettivi della nostra lotta”, mi avevano detto con una certa preoccupazione gli operai con cui avevo discusso. Il timore era che senza solidarietà diffusa nel territorio dove sorge la fabbrica, e più in generale nella società greca, la lotta per il controllo operaio, e l'autogestione della produzione, non avrebbe vinto. “Lo stato sta cercando con ogni mezzo di sabotare la nostra lotta. E le alte burocrazie sindacali tentano di bloccarci. Hanno paura di perdere il loro potere. D'altronde se autogestiamo la fabbrica non hanno più motivo di esistere!”, e così dalla fabbrica di Salonicco parte il tour di sensibilizzazione in giro per la Grecia, sostenuto soprattutto dai movimenti sociali.

    L'assemblea ad Atene venne organizzata a metà agosto, con la città ancora deserta, sulla terrazza del centro sociale Nosotros che si affaccia su Piazza Exarchia. Ma già alle ore 21 mancavano le sedie libere! Più di un centinaio di solidali avevano sfidato l'afa e le strade roventi della capitale per ascoltare le parole degli operai della Vio.Me: “siamo convinti che per vivere, e vivere bene, abbiamo bisogno solo di noi stessi e di quello che sappiamo fare insieme! Non abbiamo bisogno dei padroni, dello stato, o del capitalismo per produrre! Sappiamo fare tutto senza di loro!”. Gli applausi scroscianti sembravano diradare la tensione accumulata dai giorni successivi alle elezioni di giugno, dove la salita in parlamento di Alba Dorata, le coltellate e il pogrom istituzionale Zeus Xenio contro i migranti avevano occupato con violenza la scena, già resa tetra dagli ennesimi tagli alle pensioni e alla sanità del governo neoeletto. Ricordo il discorso calmo e determinato con cui un operaio della fabbrica illustrò il progetto di autogestione, e ricordo bene anche la forza delle sue parole, quando spiegava che era tempo di andare anche oltre alla forma di lotta dello sciopero sindacale, per passare immediatamente alla realizzazione della solidarietà tramite l'autogestione e la cooperazione. Dopo circa sei mesi quella forza ha raggiunto l'obiettivo. E in fabbrica si festeggiano le prime giornate di produzione completamente autogestita. E' primo piccolo, grande, passo in avanti delle lotte in Grecia.

    L'esperienza di autorganizzazione oltre lo stato e contro la crisi capitalistica in questo caso ha a che fare immediatamente con la produzione. Se fino ad oggi le istituzioni autonome della mutualità e della solidarietà avevano riguardato la distribuzione dei beni di prima necessità e la riproduzione sociale colpita dalla fine del welfare, finalmente la Grecia della dignità e della giustizia sociale sperimenta anche la possibilità del controllo diretto e dell'autogestione dei mezzi di produzione. E' la prima esperienza nel suo genere, ma possiamo credere che in Grecia potrebbe avere degli effetti virali proprio come nel caso degli ambulatori popolari o di altri comitati di lotta. D'altronde nella penisola ellenica chi pensa ancora che pagare la crisi della finanza globale possa preludere ad una crescita dell'economia accompagnata da un nuovo welfare? Dopo questi anni in cui si sta provando il peso sul proprio corpo dei memorandum della Troika, in che cosa si può avere fiducia se non nelle proprie mani unite a delle altre?

    La Vio.Me autogestita risponde chiaramente a questi quesiti ed indica la direzione dell'autogestione e della solidarietà per risolvere il problema. Anche in questo caso dei lavoratori lasciati a campare con le loro famiglie con pochi euro al mese, hanno intrapreso una lotta per fare i propri interessi collettivi, distanti e antagonisti da quelli del padrone e delle elites dell'austerità. Per loro quegli operai, come il resto dei poveri, precari e disoccupati, potrebbero crepare fuori al pronto soccorso di un ospedale perché senza soldi o assicurazione sanitaria, oppure potrebbero far crescere i propri figli malnutriti e senza riscaldamento per l'inverno. A loro non interessa se ormai è comune per una famiglia decidere quali dei quattro membri avranno il privilegio di comprare un'assicurazione sanitaria. No, loro non si preoccupano di ciò, perché si interessano solo dei propri guadagni e del mezzo migliore per aumentarli. Se questo significa anche distruggere vite e condannare a morte tramite disoccupazione e precarietà, è chiaro che fa lo stesso!

    La lotta di Vio.Me spezza per la prima volta, sul terreno della produzione, questa storia che fino ad oggi hanno scritto solo i padroni, e apre alle lotte contro l'austerità in Grecia un nuovo orizzonte del possibile. Finalmente i lavoratori fanno i propri interessi collettivi, e decidono come, cosa, perché, e per chi produrre e cooperare. Certo, alla Vio.Me autogestita sanno bene che la loro esperienza per andare avanti non può restare un caso esemplare, ma ha bisogno che ancora altre attività produttive e servizi sociali vengano riconquistati dagli sfruttati. Hanno bisogno che le variegate forme della produzione operaia conquisti autonomia per realizzare quel nuovo passo avanti per cui alla Vio.Me si lotta con determinazione: “uno sciopero politico generale per estromettere chi distrugge le nostre vite”. Uno sciopero generale che non chiede niente a nessuno, ma afferma l'urgenza di sbarazzarsi di quell'egoismo parassitario di pochi, da sempre nemico della vita e della dignità di molti.

    Su twitter @fulviomassa

    Il comunicato che annuncia l'avvio della produzione alla Vio.Me tradotto dalla redazione di Infoaut:

    La fabbrica Vio.Me. (Industria Mineraria) avvia la produzione sotto il controllo dei lavoratori

    "Siamo coloro che impastano, eppure non abbiamo pane,

    siamo coloro che scavano il carbone, eppure abbiamo freddo.

    Siamo coloro che non hanno nulla, e stiamo venendo a prendere il mondo "

    Tassos Livaditis (poeta greco, 1922-1988)

    NEL CUORE DELLA CRISI, I LAVORATORI DELLA VIO.ME. MIRANO AL CUORE DELLO SFRUTTAMENTO E DELLA PROPRIETA'

    Con la disoccupazione che sale al 30%, i redditi dei lavoratori prossimi a zero, stanchi e delusi di paroloni, promesse ed ulteriori tasse, non pagati dal Maggio 2011 e attualmente in rifiuto di prestare la propria manodopera, con la fabbrica abbandonata dai datori di lavoro, i lavoratori della Vio.Me. per decisione della loro assemblea generale dichiarano la propria determinazione a non cadere preda di una condizione di disoccupazione perpetua, ma all'opposto di lottare per prendere la fabbrica nelle proprie mani e di gestirla essi stessi. Attraverso una proposta formale risalente all'Ottobre 2011 hanno affermato la costituzione di una cooperativa operaia sotto il pieno controllo dei lavoratori, rivendicando il riconoscimento legale sia per la loro stessa cooperativa operaia che per tutte le altre che seguiranno. Allo stesso tempo hanno continuato a rivendicare il denaro necessario per mettere in moto la fabbrica, denaro che in ogni caso appartiene ad essi, in quanto produttori della ricchezza della società. Il piano che era stato redatto incontrò l'indifferenza delle burocrazie statali e sindacali. Ma fu recepito con grande entusiasmo dal mondo dei movimenti sociali i quali, attraverso la creazione dell'Iniziativa Aperta di Solidarietà a Tessalonica ed in seguito con iniziative simili in molte altre città, hanno lottato per gli ultimi 6 mesi per diffondere il messaggio di Vio.Me. attraverso la società.

    Ora è il tempo del controllo dei lavoratori della Vio.Me.!

    I lavoratori non possono più aspettare che lo stato fallito assolva alle sue promesse gratuite di sostegno (anche l'aiuto di emergenza di 1000 euro promesso dal Ministero del Lavoro non è mai stato approvato dal Ministero delle Finanze). E' tempo di vedere la fabbrica Vio.Me. – oltre che ogni altra fabbrica che sta chiudendo, andando in bancarotta o licenziando i propri lavoratori – riaperta dai suoi lavoratori, e non dai suoi vecchi o nuovi padroni. La lotta non dovrebbe essere limitata alla Vio.Me., affinché essa sia vittoriosa dovrebbe essere generalizzata e diffusa a tutte le fabbriche ed attività che stanno chiudendo, perché solo attraverso una rete di fabbriche autogestite la Vio.Me. sarà capace di prosperare ed illuminare la strada verso una diversa organizzazione della produzione e dell'economia, senza sfruttamento, disuguaglianza o gerarchia.

    Quando le fabbriche stanno chiudendo una dopo l'altra, il numero dei disoccupati in Grecia si avvicina ai 2 milioni e la vasta maggioranza della popolazione è condannata alla povertà ed alla miseria dalla coalizione di governo del PASOK-ND-DIMAR, che continua le politiche dei governi precedenti, la rivendicazione di gestire la fabbrica sotto il controllo dei lavoratori è l'unica risposta ragionevole al disastro che viviamo ogni giorno, l'unica risposta alla disoccupazione; per questa ragione, la lotta di Vio.Me. è la lotta di tutti.

    Esortiamo tutti i lavoratori, i disoccupati e tutti quelli che sono colpiti dalla crisi ad essere al fianco dei lavoratori della Vio.Me e di sostenere il loro tentativo di mettere in pratica la convinzione che i lavoratori possano farcela senza padroni! Li chiamiamo a partecipare ad una Carovana di Lotta e Solidarietà nazionale che culmini in tre giorni di lotta a Tessalonica. Li esortiamo ad intraprendere la lotta ed organizzare le loro stesse lotte dentro i propri luoghi di lavoro, con procedure di democrazia diretta, senza burocrati. Per partecipare ad uno sciopero politico generale per estromettere coloro che distruggono le nostre vite!

    Mirando a instaurare il controllo dei lavoratori sulle fabbriche e sull'insieme della produzione ed organizzare l'economia e la società che desideriamo, una società senza padroni!

    E' il tempo di Vio.Me.. Mettiamoci al lavoro!

    Spianando la strada per l'autogestione dei lavoratori ovunque!

    Spianando la strada per una società senza padroni!

    Iniziativa Aperta di Solidarietà e Supporto

    alla lotta dei lavoratori Vio.Me.

    http://www.infoaut.org/index.php/blog/conflitti-globali/item/6845-grecia-la-fabbrica-viome-avvia-la-produzione-sotto-controllo-operaio

    11 febbraio 2013

     

    VioMe, dal fallimento all’autogestione

    Antonio Cuesta

    Gara

    Nella convulsa situazione lavorativa greca, la decisione degli operai della VioMe (Viomijanikí Metaleftikí, Industriale Mineraria) di prendere le redini della fabbrica ha galvanizzato molti altri lavoratori che, improvvisamente, cominciano a intravedere quella che potrebbe essere la loro unica possibilità di conservare il posto di lavoro e il loro salario.

    VioMe è una delle mille imprese che ogni settimana chiudono in Grecia dall’inizio della crisi. Solo che nel suo caso i problemi iniziati tre anni fa sono sfociati nell’occupazione della fabbrica e la ripresa della produzione da parte dei suoi dipendenti in un sistema assembleare e autogestito. Situata nella seconda città del Paese, Thessaloniki, e filiale della Philkeram-Johnson (il maggior fabbricante di mattonelle e materiali di ceramica della Grecia), l’impresa si dedicava alla fabbricazione di materiali e prodotti chimici destinati al settore dell’edilizia. Nel 2009 e 2010, VioMe ha ottenuto profitti per un valore di 2,7 milioni di euro, arrivando a vendere i suoi prodotti alle imprese incaricate di costruire tra l’altro l’aeroporto di Dubai. Ma al termine di quell’anno, in concomitanza con l’irruzione della crisi del debito sovrano in Grecia, la gestione dell’attività ha cominciato a far acqua e pochi mesi dopo, nel maggio 2011, l’impresa si dichiarò insolvente.

    A partire da quel momento gli impiegati hanno cercato con tutti i mezzi di mantenere i loro posti di lavoro e di tornare a percepire i salari. La loro proposta di comprare le azioni dell’impresa, specificando chiaramente che non si sarebbero fatti carico dei debiti accumulati dalla precedente amministrazione, fu respinta dai proprietari. Sulla stessa linea, il ministero del Lavoro respinse la richiesta di aiuto finanziario, nonostante che potesse disporre di programmi destinati a disoccupati che cercano di iniziare una propria attività. Non arrivò a concretizzarsi neppure un sostegno di emergenza di 1.000 euro promesso dai responsabili del Lavoro non essendo stato ottenuto il nulla osta di quelli dell’Industria. E allo stesso modo fu giudicata negativamente da parte del governo la richiesta di creare una cornice legale che contemplasse la creazione di cooperative di lavoro con gestione assembleare.

    Arrivati a questo punto, l’organico valutò che l’unica risposta ragionevole alla tragedia della disoccupazione (che in Grecia si avvicina ormai al 30%) è che la fabbrica passasse nelle mani dei lavoratori e si stabilisse un sistema di produzione ugualitario, senza gerarchia né sfruttamento.

    La proposta è stata accolta con indifferenza dallo Stato e con una certa freddezza da parte delle burocrazie sindacali. Solo il movimento sociale ha accolto la notizia con grande entusiasmo, e grazie a un’iniziativa di solidarietà messa in atto all’interno del Paese e all’estero è riuscita a raccogliere, durante gli ultimi mesi, l’appoggi sociale e i fondi necessari per mettere di nuovo in funzione la fattoria. A livello internazionale si sono uniti alla campagna intellettuali del calibro di Naomi Klein, David Harvey, John Holloway, Silvia Federici o Raúl Zibechi. Ma inoltre è stato ricevuto un appoggio economico da organizzazioni popolari e sindacali dell’America Latina e dell’Europa, così come un buon numero di dichiarazioni di sostegno provenienti da collettivi di molti Paesi.

    Un’impresa che inizia ora

    La scorsa settimana, GARA si è recata alla VioMe per conoscere direttamente la situazione della fabbrica e le aspettative dei suoi lavoratori, diventati ora gestori del loro stesso destino. In una fredda e umida mattinata abbiamo visitato impianti che cominciano a svegliarsi dal letargo di mesi.

    Vedere il video: http://www.naiz.info/es/mediateca/video/viome-fabrica-bajo-control-obrero-en-tesalonica

    La prima cosa che ha attirato la nostra attenzione sono stati l’entusiasmo per il progetto e la certezza di essere sulla strada giusta. La crisi nel settore dell’edilizia, che ha sofferto una recessione dell’80% dall’inizio della crisi, non ha frenato l’entusiasmo dei lavoratori nel momento di rimettere in piedi la fabbrica. Anche se i soldi provenienti da donazioni e concerti di sostegno rappresentano il bilancio dei due prossimi mesi, la loro principale priorità è quella di cominciare a vendere ai clienti i prodotti in magazzino, per poter procedere con la nuova produzione.

    Dimitri Nikolaidis, elettricista e responsabile del mantenimento delle macchine, è uno dei 35 operai impegnati nel progetto, dopo che i componenti dei dipartimenti amministrazione e prodotti chimici hanno rifiutato di unirsi all’impresa collettiva. «Siamo rimasti lavoratori e tecnici –ha spiegato Nikolaidis-; se ne sono andati i chimici e stiamo cercando aiuto per queste figure lavorative».

    Tuttavia il principale ostacolo è la prolungata assenza di entrate. La sua ultima busta paga è arrivata nel settembre 2011, da allora –a quanto ha dichiarato- «abbiamo seri problemi di sopravvivenza. Molti sindacati ci aiutano con gli alimenti e per questo restiamo qui, grazie alle donazioni di molte persone restiamo qui lottando con coraggio».

    Durante la nostra conversazione, Nikolaidis ha mostrato la sua fermezza e la convinzione nel successo dell’impresa, sottolineando che, secondo lui, «funzionerà. Inoltre, non abbiamo nulla da perdere, così ci proveremo con le nostre forze. Quando non hai niente che fai? Ti siedi a casa a guardare la televisione aspettando che Dio ti dia qualcosa? A noi ci ha dato questa fabbrica che useremo, lotteremo fino alla fine, dobbiamo provarci».

    Un altro lavoratore della fabbrica, Alekos Sideridis, ci ha spiegato la dura lotta sindacale messa in atto per mesi in cui la precedente direzione della fabbrica ha cominciato a ridurre salari e diritti dei lavoratori.

    «Nel 2010, quando i problemi economici hanno colpito l’impresa, sono iniziati i tagli e noi lavoratori abbiamo cercato di negoziare con la direzione, mentre iniziavamo con gli scioperi, con le fermate della fabbrica, abbiamo bloccato le porte... ma non c’ stata risposta. In aprile 2011 ci hanno diminuito il salario e un mese dopo hanno smesso di pagarci. Abbiamo continuato a recarci al lavoro per poter esigere i nostri stipendi ma senza più produrre. Alla fine la giustizia ha stabilito che non potevamo essere licenziati finché non avessimo ricevuto quello che ci spettava ».

    Durante tutto questo tempo sono emerse varie idee su quello che si poteva fare. Alla fine si scelse di prendere la fabbrica, come pagamento dei debiti, e riprendere la produzione per mantenere il posto di lavoro. 35 lavoratori su 42 hanno sostenuto questa decisione, e a partire da quel  momento si è iniziato a fare turni di vigilanza, 24 ore al giorno, per evitare che smantellassero gli impianti portandosi via le attrezzature o i prodotti immagazzinati.

    Per il momento, non hanno avuto alcun contatto con i precedenti proprietari, «negli ultimi due anni abbiamo solo avuto conversazioni con il Ministero e pare che vogliano fare qualcosa», ma non esiste alcuna proposta formale. Tuttavia la prospettiva di lavorare senza padroni è una delle conseguenze più positive di questa nuova fase. Alla domanda se «stanno meglio senza capi»  arriva un rotondo «sì, sì, è chiaro, non c’è discussione».

    Come il suo compagno, Sideridis mette in rilievo la situazione personale estremamente dura in cui si trovano. «Per le nostre famiglie non c’è altra strada, dobbiamo sopravvivere di questi tempi così  difficili. Sono mesi che non riscuotiamo ma grazie alla solidarietà dalla Grecia e anche da altre parti del mondo siamo ancora vivi. La nostra lotta è quotidiana», ribadisce. Su questo aggiunge che hanno ricevuto la visita di persone provenienti da alcune delle fabbriche occupate in Argentina.

    Sideridis riconosce che la prima idea che gli è passata per la testa quando mesi fa hanno smesso di pagargli lo stipendio è stata violenta. «Credo che tutti noi lavoratori abbiamo avuto lo stesso pensiero, forse per la nostra cultura», ma successivamente e a mente fredda, è riuscito a trovare insieme ai suoi compagni «una strada che è stata la migliore soluzione».

    Da più di due settimane tutti i lavoratori si riuniscono in assemblea nelle prime ore della mattinata per discutere l’ordine del giorno, «ci assegniamo i compiti secondo la specializzazione di ciascuno e in modo che tutti siano nel posto in cui se ne ha bisogno. Poi cominciamo con il controllo dello stock e successivamente vendiamo i prodotti all’asta».

    Non ha dubbi ad esortare i lavoratori di altri Paesi e nazioni a prendere la strada dell’autogestione, poiché «senza lavoro, senza soldi, senza aiuto dello Stato e con le fabbriche chiuse, non c’è altra soluzione che quella di pensare a fare la stessa cosa che abbiamo fatto noi». Oltre le culture e le frontiere «quando non hai niente da perdere, questa è la soluzione», ha sentenziato.

    Prima di terminare la visita, anche altri lavoratori lì presenti hanno insistito sul fatto che «la lotta non deve limitarsi alla VioMe, ma perché sia vincente deve generalizzarsi ed estendersi a tutte le fabbriche ed imprese che stanno chiudendo», perché solo mediante una rete di fabbriche  autogestite sarà possibile prospettare un nuovo tipo di economia.

    Fonte: http://gara.naiz.info/paperezkoa/20130304/390777/fr/VIOME-quiebra--autogestion

    Traduzione per Senzasoste Andrea Grillo, 4 marzo 2013

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    25/06/14
    Anticipazione dal libro collettaneo “Come si esce dalla crisi: per una nuova finanza pubblica e sociale” Edizioni Alegre
    Nuova finanza pubblica e sociale: il lavoro, snodo essenziale.

    Gigi Malabarba

    Premessa  

    Affrontare il nodo del lavoro non è impresa semplice. Occorrerebbe innanzi tutto analizzare i profondi mutamenti nella composizione (e scomposizione) di classe avvenuti in oltre 30 anni di dominazione liberista e le sconfitte in successione subite dai lavoratori e dalle lavoratrici. L’epopea di quelle politiche che cambiò il mondo sotto i colpi di bastone di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher fu aperta In Italia simbolicamente, ma neanche troppo, con il braccio di ferro ingaggiato e vinto dalla Fiat nell’autunno del 1980, prima ancora che il presidente americano stroncasse brutalmente la lotta dei controllori di volo (1981) e la Lady di ferro piegasse nel giro di un anno l’eroica resistenza dei minatori britannici (1984-85).

    E la ragione risiede nel rapporto di forza ancora troppo favorevole, secondo il capitale, a quella classe operaia uscita vincente dall’autunno caldo del ’69 e che aveva plasmato con la sua influenza sull’insieme della società il decennio successivo. E che quindi andava rimessa in riga a partire dal suo bastione più importante.

    Mantengo la convinzione che, nonostante le modifiche nell’organizzazione del lavoro e della produzione passato dal sistema taylorista-fordista a quello toyotista in tutte le sue varianti e sfumature, gli scontri decisivi persi dai lavoratori dell’industria da quell’epoca in poi avrebbero potuto avere esiti diversi e persino opposti se le direzioni del movimento operaio e sindacale non fossero state complici delle politiche liberiste. Ne fanno fede decine di situazioni in cui un deciso contrasto delle politiche aziendali ha consentito di resistere per molti anni, mentre altrove in presenza di forze sindacali asservite si è arrivati  a chiudere le fabbriche senza un’ora di sciopero! Basterebbe tener presente un semplice fatto: il sistema della produzione flessibile, detto just in time, è di gran lunga più fragile e vulnerabile di quello fordista, richiedendo l’integrazione esplicita dei lavoratori e delle loro organizzazioni per il funzionamento del processo produttivo (e quindi assolutamente più facile da inceppare!) Non a caso dagli accordi concertativi del 1993 si può parlare più concretamente di avvenuta corporativizzazione del sistema contrattuale.

    Alla lunga però il quadro di relazioni in fabbrica e nell’insieme del mondo del lavoro viene sconvolto e vien meno anche la memoria storica delle lotte, trasmessa in precedenza per decenni alle nuove leve. Il punto di non ritorno è stato superato da tempo e gli arretramenti sono galoppanti su tutti i fronti: salari, occupazione, condizioni di lavoro, diritti.

    La ricostruzione di una resistenza e di una nuova progettualità delle lotte del lavoro richiede a mio parere una rinnovata analisi che ragioni sulla messa in connessione di una pluralità di percorsi politico-sociali di un nuovo proletariato, più esteso di quello industriale un tempo trainante, anche se ancora inconsapevole delle proprie potenzialità. Che dovrà trovare le sue strade, le sue connessioni sociali e i suoi tempi per affermarsi.

    Nelle pagine che seguono, si vuole offrire alla riflessione un punto di vista sulle questioni del lavoro strettamente legato all’aspetto occupazionale, seguendo il filo conduttore dell’esperienza delle lotte di resistenza nell’industria milanese e della Maflow di Trezzano sul Naviglio in particolare, oggi RiMaflow, fabbrica occupata, recuperata e autogestita.

     

    1. La guerra del capitale contro il lavoro.

    “Se il paese intercettasse la ripresa, quella stessa accreditata per il 2014 dai maggiori istituti statistici, quanto tempo ci vorrebbe prima di recuperare il terreno perso in questi cinque anni di crisi? Esattamente 13 anni per ritornare al livello del Pil del 2007, 63 anni per quello dell’occupazione, ‘mai’ per recuperare il livello dei salari reali”.

    Se questa è la prospettiva disegnata dall’Ufficio economico della Cgil nel giugno del 2013, dove peraltro anche il ‘piano per il lavoro’ indicato per l’uscita dalla crisi dal maggiore sindacato italiano è tutto interno alle compatibilità del sistema e quindi del tutto inefficace, ci vorrebbero almeno due generazioni per tornare ai livelli di impiego pre-crisi. Ossia – sarà bene ricordarlo – quando il tasso di disoccupazione era vicino al 10 per cento, l’80 per cento delle nuove assunzioni era già con contratti precari, il 20 per cento della popolazione attiva era composto da working poors (lavoratori con salari al di sotto della soglia di povertà); e stante questo scenario tutti saranno con redditi inferiori ad allora. Naturalmente sempre che la ‘ripresa’ ci sia…

    Se poi si vuole individuare seriamente la tendenza occupazionale, è il dato relativo ai giovani senza lavoro, generalizzato in particolare in tutto il Sud Europa, su cui porre attenzione: questo si aggira di fatto ormai attorno al 50 per cento, pur trascurando quel che le statistiche nascondono, come gli orari ridotti da part time forzoso o il considerare occupato chi svolge attività solo per qualche ora la settimana o qualche mese l’anno.

    Aggiungo poi di passata che il ‘rischio di disordini sociali’ in Europa derivante da questi dati e misurato dall’OIL, l’Organizzazione internazionale del lavoro, ha un tasso di crescita doppio di quello dei paesi del Nord Africa e mediorientali. E che qualcuno si stia preparando all’evenienza nell’ottica della difesa degli interessi della classe dominante non dovrebbe più di tanto stupire…

    Le politiche di austerità imposte in tutta Europa, infatti, non producono risultati, perdono consenso sociale e provocano anche indignazione. Tuttavia sono perseguite ossessivamente. I governi inoltre continuano a favorire le imprese che cancellano posti di lavoro in nome di redditività finanziarie a breve termine, che alimentano la concorrenza tra i lavoratori e tra i territori, che degradano le condizioni delle prestazioni e dei salari, deregolamentando le tutele giuridiche del lavoro, smantellando il sistema di welfare, e così via.

    E la ragione è che – in un’ottica liberista e di tutela dei margini di profitto  – l’Europa deve azzerare le conquiste operaie di oltre mezzo secolo per competere su scala mondiale, disarticolando quel che resta del movimento operaio per impedirgli di organizzare una resistenza efficace. Distruggere il sistema di solidarietà e produrre isolamento e rassegnazione ha quindi uno scopo: la crisi sistemica del capitale non consente di scendere a compromessi e ciò mette a dura prova tutte le strategie di alternativa economica e sociale.

    2. Andare oltre la resistenza

    Quello che per oltre un secolo è stato quel complesso di forze sociali, politiche e istituzionali che abbiamo chiamato movimento operaio non ha retto all’offensiva liberista e tra le lavoratrici e i lavoratori lasciati soli è dilagata la concorrenza al ribasso. I tentativi di rifondazione delle organizzazioni della classe, anche per i mutamenti radicali che ne hanno sconvolto la composizione, hanno ottenuto risultati parziali e insufficienti per bloccare l’attacco disgregatore e oggi siamo nel pieno della sconfitta.

    Occorre imboccare nuove strade di organizzazione e di lotta, dentro una ricerca di strumenti più adeguati ed efficaci di fronte alla frantumazione del lavoro. Nelle fabbriche minacciate di chiusura, ad esempio, troppo poche esperienze innovative si sono finora prodotte, col risultato – nel migliore dei casi –  di sviluppare lotte per ottenere al più proroghe degli ammortizzatori sociali. In pochissimi casi è stato posto il problema della proprietà e in nessuno è stato possibile realizzare forme di autogestione con un minimo di prospettiva. Tentare di migliorare la resistenza attraverso gli attuali strumenti sindacali non concertativi e con la costituzione di reti intersindacali conflittuali e anche forme di autoconvocazione è fondamentale, ma non basta.

    Occorre un progetto di costruzione da zero innanzi tutto di un vero e proprio movimento per il lavoro e il reddito per milioni di giovani, in gran parte diplomati/e e laureati/e, esclusi/e dal lavoro ed estranei/e agli strumenti tradizionali di organizzazione del proletariato: questo è il compito principale. Si tratta di un nodo generazionale, in questo caso in senso strettamente anagrafico.

    Questo significa individuare forme di aggregazione e di lotta specifiche, autonome e indipendenti e obiettivi programmatici adeguati alla condizione: si tratta di un nuovo proletariato intellettuale, potenzialmente ribelle a cui dedicare il massimo dell’attenzione. Segni premonitori che ne sottolineano l’esigenza sono assai visibili ormai da parecchi anni in Italia come nel mondo, dalle manifestazioni del cosiddetto movimento dei movimenti alle lotte studentesche dell’Onda, dalle rivoluzioni in Nord Africa ai movimenti degli indignati e di Occupy.

     Ma ragionando sulle altre situazioni del mondo del lavoro, esiste una via solidale per uscire dalla crisi? Accanto a tutte le modalità di resistenza e – dove se ne danno le condizioni – di possibile controffensiva (come le accennate occupazioni fino alla rimessa in funzione della produzione in forma autogestita, ed altre simili in vista di una situazione economico-sociale “all’Argentina” in arrivo…), a mio avviso vale la pena di sperimentare, in un contesto di disgregazione e di coscienza di classe assai limitato, altre modalità di socializzazione e di mutuo soccorso tra lavoratori e lavoratrici.

    La chiusura delle fabbriche e la contestuale riduzione dei posti di lavoro in tutti i settori pubblici e privati, che si accompagna non a una riduzione ma ad un allungamento degli orari di lavoro e all’intensificazione dello sfruttamento, impongono la necessità di organizzare la lotta per il lavoro e il reddito attraverso istanze che si contrappongano all’ordine capitalistico attuale, pur partendo magari da organismi storicamente in sé tutt’altro che incompatibili.

    Il movimento delle società operaie di mutuo soccorso e cooperativo, ad esempio, a seconda delle fasi storiche ha rappresentato sia uno strumento funzionale all’organizzazione del movimento operaio, sia ha alimentato illusorie trasformazioni riformiste della società, sia – in tempi più recenti – è diventato strumento di autosfruttamento, di partecipazione alla distruzione del welfare e di divisione dei lavoratori.

    3. L’esperienza della RiMaflow: è possibile produrre senza padrone? 

    Dopo tre anni di resistenza anche la Maflow di Trezzano sul Naviglio è stata definitivamente chiusa, non essendosi date le condizioni soggettive e anche oggettive per un’occupazione della fabbrica durante la vertenza, che consentisse la sua rimessa in funzione in forma autogestita (sostanziale inesistenza di capitale fisso di un minimo di valore, ecc.).

    Abbiamo pensato che il periodo di cassa integrazione/mobilità possa essere utilizzato – insieme alle mobilitazioni sindacali più tradizionali (presidi, scioperi,…) – per tentare di riaggregare una parte dei lavoratori e delle lavoratrici, oggi dispersi in attività di ricerca di lavoretti integrativi degli ammortizzatori, ma con quasi nulle possibilità di ricollocazione (e quando questo avviene è a condizioni fortemente peggiorative).

    Dal 1° marzo 2013 ci siamo costituiti in cooperativa autogestita, RiMaflow, per organizzare la produzione e abbiamo costituito nel contempo l’associazione Occupy Maflow come strumento di gestione politica di tutto il sito – legittimamente, anche se illegalmente, occupato – con il concorso di Rivolta il debito*.

    L’idea di costituzione di una cooperativa tra lavoratori e lavoratrici nasce dall’esigenza di solidarietà e di azione collettiva di fronte all’incertezza più assoluta. Si tratta di mettere insieme le competenze esistenti e di associarne delle altre per definire un progetto che abbia la possibilità di ottenere commesse pubbliche o private.

    L’idea si articola su più piani: a) solidarietà, uguaglianza e autorganizzazione tra tutti gli associati; b) conflittualità nei confronti di controparti pubbliche e private; c) inserimento e promozione di lotte generali per il lavoro, il reddito, i diritti.

    Può essere verificata la possibilità, in determinate circostanze, di effettuare lavori e servizi di pubblica utilità (ad esempio produzioni ecologiche) in relazione con i beneficiari, per rivendicarne il pagamento da parte delle amministrazioni. Si tratterebbe in questo caso del recupero di iniziative che negli anni ’50 del Novecento hanno portato all’occupazione delle terre e agli scioperi alla rovescia.

    Le difficoltà e le contraddizioni sono moltissime. Meglio tentare di agire mentre ancora si beneficia degli ammortizzatori (anche attraverso interruzioni parziali degli stessi, allungandone la durata).

    D’altra parte alla lunga non si può neppure resistere senza tentare di rompere in qualche punto con la condizione di accumulo di sconfitte, anche dopo aver prodotto anni di lotte parziali. Il punto non è scoprire le cooperative come alternativa alla produzione capitalistica, ma come utilizzare gli strumenti esistenti per resistere e rilanciare il conflitto di classe da parte di chi non si può permettere di non dare risposte concrete e praticabili nell’immediato. O anche la politica di classe si misura con questo o non solo non si rafforzerà, ma sarà percepita come inutile dagli stessi militanti delle organizzazioni classiste.

    In sostanza: quando il capitale decreta che un’azienda non è più utile (all’accrescimento del suo profitto), questa azienda può essere recuperata con altre finalità, a cominciare da quella di consentire un reddito dignitoso a chi la rimette in funzione?

    4. I dibattiti storici sull’Autogestione operaia

    Un’attualizzazione della  riflessione critica marxista tradizionale sul mondo cooperativo è necessaria. Alcuni concetti di fondo mantengono un fondamento indubbio, altri devono essere riconsiderati alla luce delle novità della situazione.

    Nell’economia capitalistica è lo scambio a dominare sulla produzione e il sistema cooperativistico che si costituisce al suo interno non fa che accrescere lo sfruttamento, o per meglio dire l’autosfruttamento dei lavoratori, a causa dei meccanismi di concorrenza (Rosa Luxemburg, ‘Riforma sociale o Rivoluzione?’, 1899).

    La polemica contro le illusioni del teorico della socialdemocrazia tedesca, Eduard Bernstein, che pensava ad un’estensione progressiva del sistema cooperativistico capace di sostituire gradualmente il sistema capitalistico, è continuata nel secolo scorso sia in occasione delle crisi rivoluzionarie (Lenin: validità delle forme di lavoro cooperativo autogestito solo successivamente al rovesciamento del capitalismo), sia rispetto alle teorizzazioni di Rodolfo Morandi sui consigli di gestione nell’immediato secondo dopoguerra, sia in occasione dei dibattiti post-68 quando già il movimento cooperativo in Europa aveva radicalmente mutato funzione, diventando spesso un puntello del sistema di sfruttamento (Ernest Mandel: impossibile democrazia economica senza rovesciamento dello stato borghese, mentre l’autogestione può acquisire importanza solo in fase di crisi rivoluzionaria; centralità del controllo operaio).*

    Analogamente la critica marxista è stata rivolta nei confronti delle tesi di origine anarchica, che pretenderebbero di realizzare aree di lavoro liberate senza l’abbattimento del sistema capitalistico, anche se esperienze di autogestione conflittuale di matrice libertaria hanno suscitato – a ragione – considerazione e interesse certamente almeno come specifiche forma di lotta (ad esempio le esperienze di autogestione durante la guerra civile spagnola degli anni ’30).

    Le esperienze di statalizzazione delle società post-rivoluzionarie del ‘900, dopo la sterilizzazione dei soviet, rivelano in ogni caso i punti deboli sulla questione di tutti i processi di transizione nei paesi del cosiddetto socialismo reale. Se il modello burocratico autoritario instaurato in Urss e nei paesi satelliti è fallito rovinosamente, anche le varianti come quella avviata in Jugoslavia proprio a partire dall’autogestione delle fabbriche ma cancellando la pianificazione economica sono state destinate anch’esse all’insuccesso (restano non a caso interessanti le proposte del gruppo dissidente Praxis sulla ‘pianificazione autogestionaria’).

    Più recentemente nelle riflessioni di area marxista, in presenza di una disgregazione del mondo del lavoro a causa della crisi e dell’offensiva neoliberista, è stata rivalutata l’ipotesi di autogestione operaia anche al di fuori dei periodi di rottura rivoluzionaria, proprio perché questa si propone innanzi tutto di frenare la dispersione dei lavoratori e la disoccupazione di massa.

    Le fabricas recuperadas argentine, in particolare dalla crisi del 2001 in avanti, e numerose esperienze in Brasile, Venezuela, Nicaragua e in altri paesi latinoamericani sembrerebbero anche dimostrare le potenzialità dell’autogestione in determinate circostanze in direzione di un’alternativa anticapitalistica di sistema.

    Da un certo angolo di visuale, le relazioni autogestionarie si collocano a un livello più avanzato rispetto a quelle costruite in Urss con la statizzazione burocratica, alludendo più facilmente all’idea dei lavoratori-produttori liberamente associati di Marx e alle prime esperienze concrete realizzate durante la Comune di Parigi nel 1871.

     * “La lotta per il controllo operaio ha precisamente la funzione di portare le masse – attraverso la loro diretta esperienza e partendo dalle loro preoccupazioni immediate – ad apprendere la necessità di cacciare il capitalismo dalla fabbrica e la classe capitalistica dal potere. Sostituendo a questa logica ‘pedagogica’ quella per l’autogestione, si impedisce alle grandi masse di fare questa esperienza, le si incoraggia in pratica a limitarsi alle rivendicazioni immediate, col rischio di provocare alcune esperienze isolate di autogestione di fabbriche d’avanguardia, condannate però ad una rapida degenerazione, permanendo il contesto capitalistico”. ‘Controllo operaio, consigli operai, autogestione’ 1970).

     

     

    5. L’importanza del ‘fattore economico’ a partire da un’esperienza concreta

    Il fattore economico, ossia la necessità di produzione di un reddito, è indispensabile  per riaggregare particolarità di classe disperse a causa delle politiche liberiste e dall’aggravarsi della crisi. Oggi non c’è alcuna possibilità di riunire su una battaglia per il lavoro e il reddito i disoccupati, i lavoratori espulsi dalle aziende, i precari, gli studenti se non c’è almeno un tentativo di ottenere un reddito. Neppure la militanza è nella condizione di continuare le battaglie esclusivamente politiche (anche a partire da obiettivi molto positivi, quali un reddito incondizionato per tutti/e i senza lavoro, la riduzione generalizzata dell’orario a parità di salario, l’esproprio delle imprese che licenziano,…) proposte da partiti, sindacati, associazioni varie se tutti sono costretti a impiegare il loro tempo per garantirsi una sopravvivenza: bisogna provare a intervenire su quel versante.

    Le iniziative autogestite sono molteplici, quelle già in corso, e altre sicuramente potranno svilupparsi in settori diversissimi. Bisogna considerare/convogliare le sperimentazioni più interessanti e suscettibili di inserirsi in una dinamica anticapitalistica dentro il percorso di un movimento politico-sociale per il lavoro e il reddito.

    Il ragionamento empirico che ha portato alla costituzione della realtà autogestita della RiMaflow partiva dal presupposto che, in assenza di ipotesi di resistenza collettiva una volta conclusa la vertenza sindacale, la maggiore concorrenza al ribasso si era già instaurata immediatamente, dato che si fondava sulla disponibilità del singolo lavoratore atomizzato, indifeso e ricattato ad accettare qualsiasi condizione pur di lavorare. Come già era noto avvenire quasi sempre per il lavoro migrante.

    Quindi siamo partiti da uno stato di necessità: uscire da quella condizione in cui si era cacciati costruendo un primo livello di mutuo soccorso e di solidarietà. E poiché era la fabbrica il luogo che consentiva di avere un lavoro e un reddito si sono studiate le possibilità di riappropriazione della fabbrica e di riavvio della produzione, quindi – per riprendere uno slogan efficace del Movimento dei Sem Terra brasiliano, non a caso fatto proprio dal movimento autogestionario argentino – “occupare – resistere – produrre”.

    A inizio anno abbiamo cominciato l’assedio della ex Maflow e l’abbiamo poi occupata, abbiamo resistito e, pur in presenza di uno svuotamento di quasi tutti i macchinari, abbiamo iniziato qualche forma di produzione, riconvertendo l’attività da automotive in direzione del riuso e del riciclo di rifiuti elettrici ed elettronici (Raee) e della distribuzione (e domani lavorazione) dei prodotti del Parco agricolo Sud Milano, nella logica del consumo critico e della filiera corta a chilometro zero. Ossia in direzione ecologista, trasformando un luogo tradizionalmente inquinante come la fabbrica, anche una fabbrica dismessa, in un luogo recuperato e aperto alle necessità del territorio: che è e sarà la risorsa fondamentale per procurarsi il lavoro e il reddito nel giro dei due anni di vigenza degli ammortizzatori sociali.

    L’altro effetto della crisi da considerare è che la pressione della proprietà degli immobili per tornarne in possesso – che ovviamente esiste e con cui dobbiamo fare i conti – può essere oggi meno aggressiva che in passato, in una zona industriale periferica non certo in un centro storico, anche per la difficoltà di un suo riutilizzo redditizio, nel nostro caso da parte di un immobiliarista in leasing con Unicredit.

     

     

    6. Come affrontare i limiti e i rischi del percorso: l’Autogestione conflittuale

    Avviare un percorso che allude a un modello di alternativa di società in un contesto di sconfitta del vecchio movimento operaio può sembrare paradossale, ma fino a un certo punto. In Argentina, di fronte alla chiusura di una fabbrica si è affermata l’idea che questa possa essere recuperata. La durata nel tempo del fenomeno dimostra che questa pratica è diventata parte delle vertenze collettive e contribuisce a modificare i rapporti di forza a favore dei lavoratori e delle lavoratrici. Senza poi escludere l’importanza pedagogica per chi lavora, che si sottrae al comando padronale, prende nelle sue mani il controllo del processo produttivo, partecipa in prima persona alle decisioni e impara a ‘fare politica’. O, meglio, ricostruisce la buona politica tout court.

    Ma, imparando dalle lezioni della storia e coscienti che è chi controlla i meccanismi del mercato che detta legge e che sono questi meccanismi che vanno contrastati e sostituiti con altri, nell’interesse – potremmo dire oggi – del 99 per cento e non dell’1 per cento della società, decisivo è mantenere la barra della direzione di marcia.

    E’ essenziale che le forme di autogestione cooperativa siano strettamente collocate nel quadro di una dinamica conflittuale, in sintonia con l’insieme delle lotte sociali, a partire dalle lotte del lavoro unitamente ai militanti sindacali combattivi: non si può isolare questa lotta, non possiamo smettere di pensare di essere parte di un fronte più complessivo di classe. Come potremmo strappare da soli una legge che consenta sul serio di espropriare le aree occupate per un loro utilizzo sociale? In una parola, come possiamo costruire i rapporti di forza sociali e politici per contrastare la dittatura del capitale e strappare qualche risultato?

    Solo in questa forma le cooperative autogestite e le sfere economiche fondate sulla solidarietà possono giocare un ruolo di coesione dei lavoratori e di prefigurazione della fine dello sfruttamento del lavoro da parte del capitale, evidenziando le contraddizioni del sistema, soprattutto in un periodo di profonda crisi strutturale come l’attuale. Si tratta cioè di dar vita a forme di contropotere e di controsocietà.

    La conferma della crisi dei progetti storici della sinistra è dimostrata, esemplare ancora una volta il caso argentino, dalla totale assenza dei partiti, dei sindacati (almeno dei loro gruppi dirigenti) e dell’intellighentzia del paese all’origine del movimento delle fabbriche recuperate. Anzi, in alcuni casi qualche forza politica della sinistra radicale ha avversato il progetto perché in contrasto con i propri schemi. Prima, quindi, si è data la lotta operaia e solo poi si sono affacciate altre forze, anche assolutamente indispensabili come quelle legate all’università.

    La barra della direzione politica deve allora essere autoprodotta dalle lavoratrici e dai lavoratori stessi, senza delega ad apparati esterni. La funzione della Lega delle Cooperative, erede principale del Mutuo soccorso dell’800, evidenzia fin troppo bene perché questa dimensione non può esserle affidata e perché questa direzione deve essere ricostruita in proprio! In una fabbrica metalmeccanica recuperata di Buenos Aires, l’Impa, è stata persino aperta un’università popolare per l’educazione non capitalista di una nuova generazione…

     

    7. I rapporti con le istituzioni: siamo in credito  

    Se partiti e sindacati si rivelano inadeguati, le istituzioni, fautrici o succubi del modello neoliberale che impone le misure di austerità responsabili del massacro sociale, non operano certamente a nostro favore per propria volontà. Chi spera in questo senso di poter avere un aiuto per avviare un percorso di autogestione semplicemente sbaglia: si potrebbe già fare un elenco dei delusi. L’azione va rovesciata: prima si costruisce l’iniziativa, si occupa, e poi si entra in relazione con istituzioni che hanno fallito più o meno coscientemente sul piano delle politiche per il lavoro e della tutela del reddito e verso le quali ci si deve rapportare come chi ‘è in credito’, esattamente come nei confronti del padrone che ti ha cacciato e di cui vuoi riappropriarti dei mezzi di produzione come ‘risarcimento sociale’. 

    Anche per avviare un’attività economica, se il principio fosse quello di un’astratta legalità per ottenere le autorizzazioni quell’attività non partirebbe mai. Vanno esercitate delle forzature e trovate delle strade che consentano di aggirare gli ostacoli, tenendo fermi dei parametri che devono esserci da guida a prescindere dalla legge che non possiamo applicare. La sicurezza e la salute sul luogo di lavoro, ad esempio, va tutelata anche oltre quel che prevede la legge 626, perché siamo più interessati di una qualunque direzione aziendale a difendere un nostro diritto, anche se non disponiamo di autorizzazioni formali.

    In Argentina sono state le lotte con scontri anche duri con l’apparato repressivo tutto a difesa della ‘proprietà’ a ottenere le prime sentenze positive sull’assegnazione delle fabbriche ai lavoratori e alle lavoratrici. Solo in un secondo tempo le istituzioni locali e il governo nazionale hanno cominciato a considerare le fabbriche recuperate persino come un’opportunità di esternalizzazione delle loro politiche per l’impiego. Prima sono state ottenute leggi sull’esproprio a livello provinciale e poi anche nazionale con conferimento delle imprese ai lavoratori sotto forma di comodato d’uso (in molti casi il non pagamento degli indennizzi da parte dell’amministrazione pubblica ha provocato però la riespropriazione dei lavoratori); in seguito c’è stato l’intervento sul diritto fallimentare per consentire una sorta di diritto di prelazione per i collettivi di lavoratori licenziati.

    Come si può vedere, molte sono le contraddizioni e i risultati anche parziali non sono mai acquisiti definitivamente in una società capitalistica; l’unica cosa certa è che sono frutto di lotte e non delle idee illuminate di qualcuno.

    L’utilizzo quindi delle forme giuridiche disponibili di tipo associativo e cooperativistico deve essere visto in modo dinamico in una pressione permanente sul livello istituzionale per consentire innanzi tutto l’agibilità del luogo recuperato, dove il rapporto con il territorio e la sua popolazione acquisisce un’importanza fondamentale.

     

    8. Ipotesi a confronto: una strada per evitare le contrapposizioni

    Il messaggio deve essere chiaro, come già all’epoca del movimento dei disoccupati francesi degli anni ‘90 che avevano coniato un felice slogan: ‘Il lavoro è un diritto, un reddito ci è dovuto!”. ‘La fabbrica è nostra, riprendiamocela’, possiamo dire oggi; ‘Se il padrone se ne vuole andare, che se ne vada, ma lasci qui stabilimento e macchinari come risarcimento sociale’. Il recupero dell’impresa da parte dei lavoratori può essere una soluzione efficace e durevole per combattere la disoccupazione di massa e produrre un reddito, questo è il punto.

    Ora, le vertenze sindacali che si pongono l’obiettivo di salvaguardare i posti di lavoro con presidi e occupazioni anche in attesa che si presenti un nuovo acquirente continuano ad avere un senso, puntando alla riassunzione di tutti i licenziati e alla tutela delle condizioni contrattuali e di lavoro. Ma se queste condizioni fossero improbabili o non si dessero, è importante intervenire prima dell’esaurimento degli ammortizzatori. Un’ipotesi è quella dell’esperienza della RiMaflow, attraverso l’occupazione della fabbrica e la costituzione di una cooperativa autogestita. Un’altra, più classica, è quella della nazionalizzazione – sarebbe meglio dire pubblicizzazione o socializzazione, per evitare di riproporre modelli in cui una direzione aziendale nominata dal potere politico riproduca le regole del capitale – ossia dell’intervento sul nodo della proprietà.

    In entrambi i casi si tratta di sottrarre la proprietà dei mezzi di produzione al capitale e di assicurare la messa in opera di altri rapporti sociali all’interno dell’impresa. Anzi, la prima forma non esclude la seconda ed è propedeutica all’intervento sulla forma di gestione dell’impresa pubblicizzata da conferire direttamente a chi ci lavora, oltreché ai cittadini e ai poteri pubblici interessati, in forme non dissimili da quanto proposto per i beni comuni dal Forum italiano per l’acqua e dai movimenti che condividono una nuova impostazione di proprietà pubblica (una forma aggiornata dello storico ‘controllo operaio’).

    E’ assai probabile che in aziende di grandi dimensioni o che riguardino interi  rami produttivi come nel settore dell’energia o dei trasporti l’azione più ipotizzabile sia quella dell’esproprio attraverso un intervento pubblico, il cui grado di radicalità dipenderà dal contesto di lotta creato (la non indennizzazione della vecchia proprietà è certamente l’obiettivo pieno, più facilmente ipotizzabile nel quadro di ruberie del padrone, disastri ambientali o danni sociali rilevanti). Mentre più difficile, ma solo la sperimentazione concreta può dire l’ultima parola al riguardo, appare l’esproprio di un’azienda con produzione di scarsa rilevanza sociale.

    Occupy Maflow e RiMaflow hanno assunto in Italia una funzione di apripista attraverso l’esperienza dell’autogestione. Non sono un modello. L’obiettivo politico coincide in questo caso con l’obiettivo economico: se l’esperienza riesce sarà di incentivo per altre che partiranno con migliori condizioni e consapevolezza e produrranno anche con ogni probabilità anche migliori risultati.

    A Trezzano ci stiamo muovendo su due direttrici principali.

    La prima è il lavoro per la riproduzione di esperienze analoghe che, partendo dalla strumentazione sindacale conflittuale nelle fasi di gestione delle vertenze occupazionali, punti a riprendersi i mezzi di produzione; un coordinamento tra le esperienze concrete di fabbriche recuperate sarà poi lo strumento per dar vita a un movimento per il lavoro e per il reddito che si inserisca con una sua specificità nelle lotte più generali dei lavoratori e delle lavoratrici e dei/delle giovani.

    La seconda, per quanto argomentato in precedenza, è quella della rifondazione della buona politica, sperimentando l’elaborazione e la verifica di un orientamento programmatico per un cambiamento radicale della realtà dentro il conflitto sociale, tentando di superare la cesura tra lotta sociale e lotta politica, con un ritorno alle sperimentazioni che hanno caratterizzato la storia del primo movimento operaio.

     

    9.  L’esigenza di una nuova finanza pubblica  

    Le aziende recuperate e autogestite non si configurano come un ‘terzo settore’ distinto dai comparti produttivi tradizionali, ma, a mio avviso, come un percorso di altra economia, sociale e solidale, che prefigura un’alternativa al sistema capitalistico. Senza alcuna illusione, come detto in precedenza, di poter ritagliare spazi di autogestione in costanza del dominio del capitale. Anzi, ci sarà anche da aspettarsi il tentativo da parte dei governi di utilizzare le produzioni autogestite, se queste dovessero attecchire, per spingere i lavoratori in direzione dell’autosfruttamento e della cogestione subalterna delle imprese, come propugnato dalle centrali sindacali più moderate. 

    Noi abbiamo un’altra esigenza, utile anche per resistere a pressioni di varia natura che si eserciteranno: rendere visibili e necessarie le sinergie tra i diversi soggetti sociali che intervengono su progetti di economia alternativa, anche indipendentemente dalle differenti impostazioni socio-economiche di ognuno. E’ la crisi sistemica in cui viviamo che rende necessario evidenziare percorsi che contrastino il refrain che non c’è alcuna alternativa alla globalizzazione capitalistica e alle politiche di austerità in sua difesa e nulla si può fare in sua sostituzione.

    Le fabbriche recuperate possono essere una risposta pragmatica alla distruzione di forze produttive, mantenendo in primo luogo la produzione nei territori. A questo punto emerge il tema del credito, cioè del sostegno finanziario all’autogestione operaia, esattamente come per ogni altra esigenza sociale e produttiva nell’interesse del 99 per cento e non del potere economico e finanziario. Si creano così le condizioni anche per dare gambe sociali più solide allo sviluppo di un vero movimento per una ‘nuova finanza pubblica e sociale’, essenziale per smascherare gli imbrogli sul debito e consentire l’irrompere della società nel sancta santorum del capitale.

    Anche qui un esempio concreto. L’area ex Maflow è di circa 30mila mq, di cui 14mila di capannoni con tetti in amianto: una vera bomba ecologica se lasciata all’abbandono sia per i lavoratori delle fabbriche attive circostanti, sia per i cittadini residenti nelle vicinanze. Ma anche per garantire un futuro alla ripresa produttiva che abbiamo avviato occorre un intervento di bonifica, che noi vorremmo realizzare insieme all’installazione di un impianto fotovoltaico per la produzione di energia pulita su circa la metà delle superfici coperte. Ciò andrebbe anche a vantaggio pubblico sicuro per il territorio, dato l’eccedente energetico prodotto. Noi non abbiamo certo le risorse necessarie per l’investimento, anche se a  lungo termine il saldo sarebbe senz’altro positivo.

    Un prestito a tasso agevolato da parte della Cassa depositi e prestiti (Cdp) ci consentirebbe come RiMaflow di disporre di un contributo decisivo per riportare centinaia di lavoratori all’interno del sito produttivo, data la validità del piano industriale sul riuso e il riciclo del materiale elettrico ed elettronico che abbiamo presentato e delle attività della ‘cittadella dell’altra economia’ che sta crescendo attorno al core-business del Raee.

    La Cdp, privatizzata e oggetto dell’assalto dei governi ad esempio per tutte le operazioni di salvataggio della grande finanza, non funziona più in senso sociale, nonostante sia nata proprio sul risparmio postale di milioni di cittadini: presentare un’istanza di finanziamento agevolato per RiMaflow (e ricevendone presumibilmente un rifiuto) sarebbe un modo efficace per dimostrare perché debba essere ripubblicizzata!

    Oppure, partendo dal presupposto che solo la lotta organizzata per la riappropriazione delle fabbriche creerà le condizioni per ottenere gli espropri, non certo andando da qualche parlamentare a chiedere di presentare una qualche proposta di legge, il Forum per una nuova finanza pubblica e sociale può essere la sede dove tutte le istanze associative che vi convergono fanno propria un’impostazione di autogestione conflittuale funzionale a un progetto di alternativa economica, stante la distanza del mondo politico e sindacale da percorsi fuori dalle logiche del mercato.

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  • Italian
    25/06/14

    Oggi, 29 maggio 2014, si sono presentati presso la fabbrica ri-occupata Officine Zero di via Partini il curatore fallimentare con il suo staff, i rappresentati di Trenitalia e alcuni possibili acquirenti. Si rende così palese l'avvenuta accelerazione del bando di messa in vendita attraverso un'asta delle Officine ex Rsi. Tale processo sta avvenendo:

    - senza tener conto della necessità di ricollocamento degli ex-operai che, dopo due anni di cassa integrazione, si trovano oggi in mobilità, e della loro possibilità di ottenere i crediti che vantano;

    - ostacola apertamente un progetto innovativo di lavoro autogestito, attivo già da un anno e capace di produrre reddito a operai, artigiani, disoccupati e precari;

    - senza il coinvolgimento delle istituzioni, nonostante la volontà espressa dal Comune di Roma e dalla Regione Lazio di sostenere la riconversione produttiva delle Officine.

    Per questi motivi è importante mobilitarsi contro il processo di svendita, che coinvolge l'intera area ma che potrebbe partire proprio da quei macchinari, che in questi mesi sono stati riportati al funzionamento e hanno rappresentato il cuore della riconversione produttiva. Mentre in Italia e in Europa, la disoccupazione giovanile arriva al 40%, assistiamo ad una progressiva e costante chiusura di poli produttivi, alla precarizzazione e dequalificazione del lavoro e allo smantellamento del welfare, crediamo sia dovere di tutti sostenere e tutelare i progetti che tendono ad invertire tale tendenza.

    Invitiamo tutti i movimenti, i lavoratori in mobilitazione, i sindacati conflittuali, i precari e le precarie, i centri sociali, gli studenti, il mondo dell'associazionismo e la società civile a partecipare all'ASSEMBLEA PUBBLICA che si terrà Domenica 1 Giugno presso Officine Zero alle ore 17, in occasione dei festeggiamenti del primo anno di ri-occupazione.

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  • Italian
    25/06/14

    Non ci soffermiamo mai abbastanza sulla congiunzione 'e'. Ci preoccupiamo di pensare la copula, 'è', poi ci chiediamo continuamente 'chi' siamo. Prendendo la parola diciamo sempre 'io' e la cosa ci prende la mano, così tanto che non riusciamo più a sentire il colore delle foglie. L'ossessione per il piacere si accompagna a questa sciagura, il pronome personale. E se la crisi ci mette all'angolo, 'io', ogni tanto, si suicida.

    Il mondo, invece, comincia con 'e'. E si complica, si esprime, lotta. Le Officine Zero, a Roma, sono una risposta alla crisi fondata sul primato della congiunzione 'e': gli operai in cassa integrazione 'e' i precari della comunicazione 'e' i freelance 'e' gli studenti 'e'... Sì, potrebbe esserci ancora altro, e poi altro ancora.

    Cominciamo dall'inizio. Le Officine ex-RSI (manutenzione dei Treni notte, ex Wagon Lits) sono state occupate il 20 febbraio 2012 dagli operai in cassa integrazione con la collaborazione attiva del centro sociale Strike e della rete sociale di Casal Bertone. A due passi dalla Stazione Tiburtina, nuovo snodo dell'alta velocità, le Officine ex-RSI diventano rapidamente un simbolo dei paradossi della crisi. Nel 2008, infatti, erano state acquistate dalla Barletta Srl, non per rilanciare il settore della manutenzione dei Treni, ma per dismettere l'attività produttiva e realizzare una speculazione immobiliare. Rendita immobiliare che sostituisce la produzione. Trentatrè famiglie e una vita di competenze e saperi al macero.

    Dopo un anno e mezzo di occupazione, la lotta è arrivata a un punto di svolta. Già nel settembre del 2012, infatti, prende vita il "laboratorio sulla riconversione", grazie al contributo di architetti, economisti, esperti del settore e attivisti. Per mesi si discute e progetta un'alternativa concreta alla speculazione, per rigenerare la produzione e mettere a frutto i saperi e le competenze degli operai.

    Quando il 3 Maggio la Magistratura decreta il fallimento dell'azienda CSF (ex-RSI), il progetto assume un'inattesa accelerazione e viene presentato alla città. Assemblee pubbliche partecipate da centinaia di persone arricchiscono il "laboratorio sulla riconversione" e nasce la "Pazza idea" delle Officine Zero. Un progetto che prende vita nelle Officine ex-RSI, come parte del sostegno alla vertenza operaia, alternativo alla speculazione, ma integrativo della manutenzione ferroviaria; progetto dove si intrecciano formazione e produzione, autotutela, mutualismo e cooperazione.

    Al "laboratorio sulla riconversione", infatti, si affiancano: un percorso di auto-organizzazione animato da lavoratori precari e autonomi (partite Iva, collaboratori); il progetto di studentato autogestito Mushrooms. L'idea è quella di dare vita ad uno spazio di co-working che sia, nello stesso tempo, Camera del lavoro e del welfare: un luogo dove produrre comunemente, connettendo saperi e competenze; un dispositivo di servizio e di assistenza che sia stimolo e sostegno per vertenze contro la precarietà, per un welfare universale (reddito di base, formazione, sanità, previdenza), contro la disoccupazione. Altrettanto: il co-housing come risposta alla distruzione del welfare studentesco.

    Tra il "laboratorio sulla riconversione" e la ricerca pratica di nuovi strumenti capaci di difendere e organizzare l'inorganizzabile, il lavoro autonomo e precario, nasce un rapporto virtuoso; figure produttive diverse si combinano per resistere alla crisi, per inventare alternative alla catastrofe che ci tocca in sorte. La crisi, in prima battuta, divide: le generazioni, il lavoro cognitivo declassato e gli operai, le partite Iva e i precari, i migranti e i nativi, donne e uomini. Il capitale finanziario prende in ostaggio la società, contemporaneamente la contraddizione capitale/lavoro evapora e il conflitto si disloca in basso, nella competizione selvaggia tra poveri. Rompere questa scena, cominciare a far paura al capitale finanziario, significa riconquistare il primato della congiunzione 'e', costruire la coalizione sociale.

    L'1 e 2 giugno, le Officine Zero si gettano in mare aperto: due giorni per presentare alla città di Roma il progetto, per discutere di riconversione produttiva e conflitti del lavoro precario, welfare universale e co-working. Si dice che Il meraviglioso mago di Oz, in verità, fosse un romanzo polemico nei confronti delle politiche deflattive adottate negli States alla fine dell'Ottocento. L'Europa del 2013 è distrutta dalla deflazione e dalle svalutazioni interne (moneta forte e compressione di redditi e salari). Da Francoforte a Madrid, da Lisbona a Londra, l'1 giugno sarà giornata di lotta contro l'Europa della moneta e del rigore. Le Officine Zero, a Roma, saranno parte di questa lotta, un atto di ostilità contro la solitudine.


    Pubblicato su Huffington Post
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  • Italian
    25/06/14

    Come in una abitazione riarredata bisogna rovistare in soffitta per trovarvi oggetti inutilizzati e mobili che hanno ceduto il passo ai nuovi, così è necessario uscire dalla nuovissima e ultramoderna Stazione Tiburtina, a Roma, per andare alla ricerca di ciò che la «rivoluzione» dell'alta velocità ha consegnato all'archeologia ferroviaria. Basta usare, come bussola, dei vecchi binari arrugginiti che conducono all'interno delle officine in cui, fino a pochi anni fa, si faceva la manutenzione dei treni. Si trovano sul retro della stazione, dove il privatissimo Italo di Luca di Montezemolo sfida in efficienza e tempi di percorrenza i Frecciarossa di Trenitalia. Un paio di vagoni sono ancora sospesi in altrettanti capannoni cui si accede attraverso un binario semovente, i lavori di smontaggio lasciati a metà. Una carrozza merci giace semisventrata in un prato.

    Nell'officina più grande, seguendo la strada tracciata dai binari, la sagoma di un vecchia carrozza dell'Espresso rimane sullo sfondo, impolverata. Sul lato opposto si trovano dei carrelli che appaiono in ottimo stato di conservazione. «Li avevamo preparati per la nuova tratta della metropolitana B di Roma», spiega Enzo de Santis, ormai ex lavoratore della Rsi, un acronimo che sta per Rail Service Italia, l'azienda che in questi padiglioni aggiustava i treni notte. «Stanno qui da tre anni, ma nessuno è mai venuto a ritirarli». Andrebbero esposti in pubblico, a imperitura memoria della disastrosa amministrazione del sindaco Alemanno, simbolo di tutti gli scandali e sperperi di denaro pubblico. Aggirandosi tra i prati e i capannoni, si ha come l'impressione che qui la vita si sia fermata d'improvviso, per qualche misterioso motivo. Come dopo un terremoto o un'eruzione. Ogni cosa è al suo posto, mummificata come in una Pompei del declino ferroviario: i vagoni affrescati dai writer, la falegnameria con tutti gli strumenti di lavoro, la mensa con i frigoriferi e le cucine, la sala riunioni e gli uffici amministrativi dove, racconta chi ha provveduto a ripulirli, «abbiamo trovato le scrivanie piene di documenti, giornali, penne e matite» come se i dipendenti fossero stati costretti a una fuga precipitosa o fossero evaporati da un momento all'altro per effetto di una bomba H che ha lasciato intatti solo gli oggetti.

    È l'altra faccia, la più nascosta, del primo hub dell'alta velocità italiano, inaugurato un anno e mezzo fa in pompa magna, alla presenza di Giorgio Napolitano, e finora mai realmente decollato, nonostante i 330 milioni investiti e la grancassa mediatica sulla riqualificazione che avrebbe investito l'intero quartiere. I 33 operai della ex Rsi - tutti in cassa integrazione, prima ordinaria, poi in deroga, ora straordinaria - non si sono mai arresi alla dismissione. Per un anno e mezzo hanno presidiato il loro ex luogo di lavoro e oggi provano a ripartire. Nel grande inverno dello scontento italiano si intravvedono germogli di speranza, e quello di Officine zero - come si sono ridenominati - appare uno dei più originali. Non si tratta di una "fabbrica recuperata" sul modello argentino - come è il caso della Mancoop di Castelforte, nel Basso Lazio - in cui, fuggiti i "padroni", si prova a conservare la produzione in forma cooperativa e autogestita. Qui non sarebbe possibile, per mancanza del committente: Trenitalia ha soppresso i convogli notturni che per decenni avevano scarrozzato migliaia di emigranti dal sud al nord del nostro Paese. A poco erano servite le proteste, anche le più dure, come quella dei lavoratori milanesi rimasti per mesi sospesi su una torre nella stazione centrale di Milano.

    I lavoratori della ex-Rsi si sono così trovati di fronte a un bivio: arrendersi alla cassa integrazione, che prima o poi sarebbe finita, o reinventarsi. Non si sono accontentati dell'elemosina statale e hanno scelto la seconda strada. Si sono accorti che al di là di un muro, dal lato opposto rispetto alla stazione, una fabbrica anch'essa abbandonata era stata occupata per farne un centro sociale, lo Strike, e che gli occupanti «erano lavoratori come noi, perfino meno garantiti», dice oggi un altro quasi ex operaio, Emiliano Angelella. Il muro, fino a quel momento, era fatto di blocchi di cemento ma anche di pregiudizi: «Molti fra noi dicevano che quelli non facevano niente tutto il giorno, mentre noi invece lavoravamo».

    La Grande Crisi italiana ha contribuito ad abbatterlo e a far nascere la «pazza idea» di recuperare questa Pompei ferroviaria nel cuore di Roma, utilizzando le loro competenze per un lavoro diverso, attento all'ambiente. Ci lavorano dallo scorso settembre, quando hanno capito che il fallimento della Barletta, la società che aveva rilevato la Rsi, chiudeva per sempre le porte a una riapertura. Hanno messo in piedi un «laboratorio sulla riconversione» insieme ad architetti, economisti e altri esperti. E ora finalmente sono pronti a partire. Ieri le Officine Zero - «zero padroni, zero sfruttamento, zero inquinamento», è lo slogan - hanno inaugurato la nuova fabbrica «eco-sociale». Gli ex lavoratori della Rsi lavorano al riuso e riciclo di elettrodomestici, personal computer, mobili e oggetti d'arredamento - tutto ciò di cui la modernità consumista prevede la sostituzione, con un alto costo ecologico. Gli uffici amministrativi, separati tra loro da vetrate come in una moderna redazione giornalistica, sono stati adibiti al coworking : chiunque - professionista, giornalista free lance - abbia bisogno di una scrivania e un collegamento a internet può affittare la postazione per il tempo che crede. La sala riunioni sarà trasformata in una «camera del lavoro autonomo e precario», con sportelli di consulenza per il cosiddetto popolo delle partite Iva e per i lavoratori che sfuggono al sindacato tradizionale.

    Infine, l'abitazione del direttore dell'azienda diventerà una casa dello studente. La mensa farà da mangiare per tutti. L'obiettivo è convincere il curatore fallimentare a consegnare loro l'azienda e le istituzioni - la Regione in primis - a sostenere questa «pazza idea» di «lavorare senza padroni». Sottraendola a una sorte facilmente intuibile per un'area di un quartiere in trasformazione: quella di essere destinata, per quattro soldi, all'ennesima speculazione edilizia.

    Tratto da Dinamo Press e pubblicato in Il Manifesto 2 giugno

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    25/06/14

    Un anno dopo, l'esperimento della Ri-Maflow di Trezzano sul Naviglio continua: la fabbrica occupata e autogestita dagli operai è diventata un centro in cui si svolgono tante attività. Il mercato dell'usato, quello ortofrutticolo, lo smaltimento e la rigenerazione di prodotti tecnologici, concerti e mostre, un bar, una biblioteca e anche un piccolo ostello nel quale vivono cinque immigrati. Cercando di prendere esempio dalle fabbriche argentine come la Zanon. Un reddito vero ancora non ce l'hanno, "ma riusciamo a sopravvivere e a essere padroni del nostro destini", dicono loro. Molta utopia, ma pure senso pratico: "Non è facile gestirci da soli: senza responsabilità e impegno personale non sarebbe mai possibile"

     

    da Repubblica.it

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    25/06/14

    In Francia ci sono due casi di fabbriche recuperate occupate dai lavoratori nel corso della crisi attuale. Una è la fabbrica di gelati Pilpa, che ha appena avviato la produzione di gelati e yogurt biologici come società di proprietà dei lavoratori e gestita da essi dopo una lunga lotta. L’altra è la produttrice di tè Fralib. Entrambe erano state chiuse dalle loro gigantesche proprietarie multinazionali per delocalizzare la produzione.

    La Fralib è un impianto di lavorazione e confezionamento di tè aromatizzati e alla frutta a Gémenos, presso Marsiglia, nella Francia meridionale. L’impianto produceva il tè venduto con il famoso marchio Thè Eléphant, creato 120 vent’anni fa, e il tè Lipton. Nel settembre del 2010 il gigante alimentare transnazionale olandese-britannico Unilever, proprietario della Lipton, ha deciso di chiudere l’impianto in Francia e di trasferire la produzione in Polonio. I lavoratori hanno reagito immediatamente occupando la fabbrica e avviando una campagna di boicottaggio contro la Unilever.

    Il sindacato Confédération Générale du Travail (CGT), già vicino al Partito Comunista, appoggia i lavoratori della Fralib. “La lotta alla Fralib è iniziata il 28 settembre 2010. Nel 2010 avevamo 182 lavoratori. Oggi siamo in 76 e continuiamo a lottare”, commenta Gérard Cazorla, meccanico e segretario sindacale alla Fralib.

    I dipendenti vogliono riavviare la produzione nella fabbrica sotto il controllo dei lavoratori e conservare il marchio Thé Eléphant, reclamandolo come patrimonio culturale regionale. Vogliono passare alla produzione di tè biologico d’erbe, principalmente tè di tiglio, contando sulla produzione regionale. Come nella maggior parte degli altri casi, la lotta autogestita dei lavoratori della Fralib ha tre pilastri: il progetto produttivo; le proteste pubbliche e la costruzione di una campagna di solidarietà; la lotta legale contro l’Unilever.

    “Abbiamo una produzione militante per rendere nota la nostra lotta e per appoggiare la campagna di solidarietà. Abbiamo attraversato un lungo periodo senza reddito e dovevamo sopravvivere. Quella che ci ha consentito di tirare avanti per tutto quel tempo è stata la solidarietà. Penso sia importante rendere nota la nostra lotta in Francia, in Europa e nel mondo, e la nostra produzione ci aiuta. Mentre la nostra produzione precedente era – diciamo – tè industriale, oggi produciamo tè biologico di tiglio. In tal modo abbiamo mostrato che i nostri macchinari sono in funzione e che sappiamo come far andare avanti questa fabbrica. Ciò è importante perché la gente possa vedere che la Fralib è in grado di lavorare senza padroni e senza l’Unilever”.

    Il 31 gennaio e il 1 febbraio 2014 la Fralib ha ospitato il primo Incontro Europeo dell’”Economia dei Lavoratori”. All’incontro hanno partecipato più di 200 ricercatori, sostenitori e lavoratori di cinque fabbriche europee sotto controllo operaio, ispirati e direttamente collegati all’”Economia dei Lavoratori”, che ha luogo ogni due anni e che ha avuto il suo terzo congresso in Brasile nel 2013.

    A Marsiglia hanno partecipato anche ricercatori dall’Argentina, Messico e Brasile, così come un lavoratore della fabbrica tessile argentina Pigüé. Per festeggiare l’incontro e con simpatia per il movimento argentino delle fabbriche recuperate, i lavoratori della Fralib hanno prodotto scatole per il tè di mate argentino. Questo non è l’unico collegamento dei lavoratori della Fralib con l’America Latina. Le occupazioni di fabbriche in Argentina, così dicono, sono state la fonte d’ispirazione. In una canzone e un video prodotti dai lavoratori per sostenere la loro lotta, i lavoratori si autodefiniscono i “Fralibos”.

    I lavoratori della Fralib sono decisi a continuare la loro lotta per una fabbrica controllata dai lavoratori. Possono contare sulla solidarietà di molti movimenti e lavoratori cui si sono rivolti negli scorsi anni di campagna. I lavoratori hanno ottenuto che le procedure di chiusura e i piani sociali siano stati più volte revocati per ordinanza giudiziaria. La Fralib è stata chiusa ufficialmente nel settembre del 2012. A marzo 2013 l’Unilever ha smesso di pagare i salari, nonostante una sentenza che stabiliva che l’Unilever dovesse continuare a pagarli.

    A settembre 2013 la Comunità Urbana di Marseille Provence Mètropol ha acquistato il terreno su cui è costruita la fabbrica per 5,3 milioni di euro e ha pagato un euro simbolico per i macchinari, al fine di sostenere gli sforzi dei lavoratori. I lavoratori sanno che questo non è sufficiente per riavviare la produzione e proseguono la loro lotta, come spiega Cazorla:

    “A gennaio 2014 il piano sociale dell’Unilever è stato revocato per la terza volta dal tribunale. Oggi stiamo discutendo con gli amministratori dell’Unilever mentre costruiamo il nostro progetto. Abbiamo bisogno dei diritti sul marchio, di capitale per acquistare materia prima e della capacità di vendere i nostri prodotti, altrimenti non saremo in grado di pagare i 76 lavoratori. Vogliamo quei soldi dall’Unilever come risarcimento per averci licenziato”.

    *Dario Azzellini è un giornalista, documentarista e docente di scienze politiche presso l’Università Johannes Kepler di Linz, Austria. E’ co-curatore, insieme con Immanuel Ness, di ‘Ours to Master and to Own: Workers’ Control from the Commune to the Present’ [Nostro da controllare e possedere: controllo operaio dalla Comune al presente] (2011, Haymarket Books) e coautore, con Marina Sitrin, di ‘They Can’t Represent US! Reinventing Democracy from Greece to Occupy’[Non possono rappresentarci! Reinventare la democrazia dalla Grecia a Occupy] (2014, Verso Books).

    da znetitaly.altervista.org

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    25/06/14

    L'autogestione operaia è un sogno un po' pazzo nel campo dell'industria, che si credeva sostanzialmente legato al produttivismo. Sull'onda della crisi, la vecchia idea, abbandonata dal movimento operaio nel corso del XX secolo, riviene piano piano alla luce. Ha preso forma a 25 chilometri da Marsiglia, nell'enorme fabbrica della Francaise d'alimentation et de boisson (Fralib). I dipendenti di questa fabbrica di infusi, la cui attività è stata delocalizzata nel 2010 in Polonia dal proprietario Unilever, sono sul punto di riprendere la produzione per proprio conto.

    Con il sottofondo leggero delle macchine lasciate in stand-by, i “Fralib” hanno accolto lo scorso week-end lavoratori d'Europa e d'America latina, precursori, anche loro in forme differenti, di una riappropriazione del lavoro.

    Le cooperative diventano un'alternativa

    In Italia, Spagna o Grecia, dove la disoccupazione è alle stelle, il modello cooperativo diventa un'alternativa alla crisi. In Francia “abbiamo constatato una svolta nelle lotte dei lavoratori nel 2010, con la lotta dei dipendenti di Sea France e Fralib. Non erano, infatti, soltanto concentrati sulla conquista dell'indennità di licenziamento ma puntavano a mantenere il lavoro sotto forma di cooperative” osserva Benoît Borrits, dell’associazioneAutogestion, che ha organizzato il primo forum “L'economia dei lavoratori”.

    All'inizio, c'è una lotta. I dipendenti di Fralib hanno sottratto i locali e le macchine al gigante Unilever, che alla fine le ha cedute per 1 euro alla comunità urbana di Marsiglia.

    Dopo c'è un progetto. Per riprendere un'attività industriale con un management orizzontale e svincolarsi dalla rete di distribuzione e di approvvigionamento tradizionale, le fabbriche autogestite sono obbligate e inventarsi nuovi mercati. Filiera corta e sviluppo durevole diventano così il loro possibile baricentro.

    “Tutto ciò obbliga a inventarsi ogni giorno il cambiamento” sostiene Luca Federici che partecipa al progetto Rimaflow, insediato nei 30.000 mq della vecchia fabbrica di componentistica per automobili, occupata da febbraio 2013 a Milano. Senza macchine, una parte dei 350 lavoratori licenziati è dovuta partire da zero per creare un'attività. Hanno cominciato mettendo in piedi delle piccole attività nella speranza di economizzare abbastanza per rimettere a posto i locali e rilanciare una produzione industriale. Un “mercato delle pulci”, il riciclaggio di apparecchi elettronici, una piccola produzione di...Limoncello. Aspettando un domani migliore si pagano circa 300 euro al mese.

    “Un nuovo movimento politico e sociale sta per nascere”

    Per riuscire, la maggioranza delle cooperative ha due sfide principali da affrontare. L'esempio italiano di Officine Zero, nata sulle ceneri della Compagnia dei vagoni letto a Roma, mostra l'importanza di reti di solidarietà per ricreare il mercato perduto con il blocco dell'attività. La cooperativa poggia sulla rete sociale del quartiere per allestire uno spazio di “coworking”, con una mensa e uno studio di assistenza giuridica. Senza aiuti da parte delle istituzioni locali.

    “In un sistema capitalista, le cooperative non possono funzionare se non con una presa di coscienza dei consumatori-cittadini” osserva Rachid Ait-Ouakli, operaio dell'ex fabbrica di gelati Pilpa, a Carcassonne. Dopo un anno di lotta e due piani sociali, portati in tribunale, la fabbrica potrebbe ripartire in cooperativa con un progetto rispettoso dell'ambiente, la Fabbrica del Sud. Hanno ottenuto un contributo di 815.000 euro per il progetto di cooperativa.

    Ed ecco il secondo aspetto cruciale: i finanziamenti. “Molti lavori necessitano di almeno 100 mila euro di investimenti per essere salvati”, nota Michel Famy, direttore dell'unione regionale di Scops Paca. Gli strumenti della finanza solidale devono dunque consolidarsi con l'aiuto delle istituzioni pubbliche.

    Molti paesi dell'America latina hanno mostrato l'esempio, come il Venezuela: ci sono infatti leggi che permettono l'esproprio di strumenti di produzione sotto-utilizzati e i capitali pubblici sono mobilitati per lanciare o ri-lanciare delle attività in cooperativa. Il cui numero è passato da 800 all'inizio degli anni 2000 fino ai 70.000 di oggi.

    “In Brasile e in America latina, il movimento cooperativo prende slancio, compreso nell'ambito operaio, perché è un mezzo di sopravvivenza per gente che altrimenti viene esclusa dall'economia di mercato”, aggiunge Carlos Schmidt, ricercatore all'universita di Rio Grande do Sul, nel sud del Brasile.

    In Europa, i militanti del “controllo operaio” vogliono credere anch'essi a un vento nuovo. “Le iniziative fioriscono, portate avanti da movimenti politici molto diversi e malgrado il disinteresse di partiti e sindacati per la questione dell'autonomia operaia” assicura il responsabile del sito di informazione dedicato all'autogestione workercontrol.net (di cui nascerà a breve la versione italiana, ndt) alla tribuna del forum “l'Economia dei lavoratori”. “Crediamo che alla luce di quanto sta accadendo in America Latina, dove il movimento si è stabilizzato” ritiene Benoît Borrits. Un nuovo movimento politico e sociale “sta per nascere”.

    traduzione a cura di CommuniaNet

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    25/06/14

    Delle molte cose uscite dall’incontro “L’economia dei lavoratori” svoltosi tra venerdì 31 gennaio e sabato 1 febbraio all’interno dei capannoni della Fralib, fabbrica recuperata a Gémon presso Marsiglia, si deve partire dall’energia positiva che si è percepita per tutta la due giorni. Energia data dalla consapevolezza di essere sulla strada giusta per rispondere alla crisi.
    Quello di Gémon è stato il primo appuntamento europeo di una serie di incontri che dal 2007 si tengono in America latina, sotto il nome di “L’economia dei lavoratori”, con l’intenzione di fornire luoghi ad imprese recuperate, movimenti, associazioni, attivisti ed accademici per discutere di autogestione, scambiarsi esperienze e pianificare percorsi comuni.
    Il primo incontro europeo è stato organizzato e reso possibile grazie al lavoro di diverse realtà. In primis è doveroso menzionare i lavoratori e le lavoratrici della Fralib. Bravissimi nel trasformare la loro fabbrica in un luogo accogliente e funzionale all’iniziativa. La Fralib è una fabbrica di confezionamento per infusi e tè recuperata dai/dalle lavoratori/rici a seguito della delocalizzazione della produzione in Belgio e Polonia da parte di Unilever. Ruolo centrale per la riuscita dell’iniziativa lo hanno poi avuto il comitato organizzativo che prepara gli incontri internazionali e il programma Facoltà aperta dell’università di Buenos Aires, coordinato da Andrès Ruggeri: programma di studio sul fenomeno delle imprese recuperate, concretizzatosi anche con l’apertura di dipartimenti universitari all’interno di alcune imprese autogestite. E il cui impegno nell’organizzazione diviene ancor più meritevole se si considera che il programma è attualmente minacciato dai tagli all’università previsti dal governo di Cristina de Kirchner.
    Altrettanto importante è stato il lavoro dell’Association por l’autogestion francese e dell’ICEA (Instituto de Ciencias Económicas y de la Autogestión) spagnolo. Istituti che svolgono attività di studio sull’autogestione operaia e sociale.
    Varie realtà europee e sudamericane hanno partecipato all’incontro: la fabbrica di gelati recuperata Pilpa di Carcassone, le Officine Zero di Roma e la Rimaflow di Trezzano sul Naviglio, due esperienze assai diverse per storia e composizione, ma con un comune orientamento ecologista e autogestionario. Quindi la Vio.Me, fabbrica recuperata di Salonicco, in Grecia, che produce detersivi ecologici: attualmente l’esperienza di recupero autogestito più avanzata in Europa. E altre esperienze di autogestione da Serbia, Messico e Brasile. 
    Dalla prima giornata dedicata alla presentazione delle realtà, allo scambio di esperienze e all’analisi della crisi e delle possibili risposte che potessero venire dalle realtà autogestite, è emersa una corrispondenza di pratiche e problematiche tra tutte le esperienze. Di cui forse il dato più significativo è l’analogia tra la situazione argentina a cavallo tra gli anni 90 e 2000, che ha portato alla nascita del movimento delle imprese recuperate, e l’attuale situazione europea.
    Nella seconda giornata si sono tenute sessioni più programmatiche ed operative. Il networkWorkerscontrol.net ha presentato il suo progetto per la costruzione di una rete di web-site d’informazione e ricerca per contribuire a diffondere le conoscenze sull’autogestione ed il controllo operaio. Presente con proprie sezioni già in vari paesi europei e latinoamericani, con l’incontro di Marsiglia si allargherà alla Francia e nell’Est europeo, con una disponibilità delle realtà italiane presenti a verificare a breve una possibilità di inserimento anche del nostro paese.
    La Fralib ha richiesto come supporto alla sua lotta di allargare la campagna di boicottaggio contro il gigante Unilever. Richiesta subito accolta da Rimaflow intenzionata a creare legami con altre fabbriche Unilever presenti nell’hinterland milanese che hanno chiuso o che stanno ridimensionando l’organico lavorativo.
    La proposta di diverse realtà di utilizzare l’incontro anche per iniziare a creare relazioni di scambio tra le produzioni autogestite non è stata tuttavia possibile; attualmente in Europa le imprese recuperate sono ancora in una fase embrionale e nessuna, fatto salvo per qualche piccola produzione “militante” per l’autofinanziamento, vedi il Rimoncello di Rimaflow o le tisane al tiglio di Fralib, è ancora riuscita ad attivare una produzione. Solo Vio.Me ha una linea di produzione attiva, ma non le è possibile esportare i propri prodotti a causa della situazione di illegalità a cui è costretta. Proprio per questa ragione si è deciso di mettere in agenda l’organizzazione di una giornata internazionale di solidarietà per la legalizzazione di Vio.Me. Giornata che potrebbe anche essere allargata alla richiesta di legalizzazione di tutte le imprese recuperate.
    La due giorni ha avuto il merito di fornire un quadro della situazione europea dei movimenti per l’autogestione, quadro che verrà ulteriormente precisato grazie alla creazione di una rete di ricerca, organizzata per la mappatura delle imprese recuperate ed autogestite in Europa.
    L’entusiasmo che ha accompagnato tutta la durata dei lavori lascia ben sperare per il moltiplicarsi delle esperienze di autogestione.

     

    A seguire il testo dell’intervento che i lavoratori e le lavoratrici Rimaflow hanno portato come contributo all’incontro:

    Nel dicembre 2012 la Maflow, ditta che lavorava nel campo automotive, ha chiuso i battenti. Vittima delle speculazioni finanziarie del capitale. A partire dal febbraio 2013 l’occupazione della fabbrica e l'avvio del progetto autogestito RiMaflow materializzano l’insieme delle lotte a difesa del lavoro e del reddito iniziate nel 2009 dai lavoratori e delle lavoratici della Maflow.
    A fine 2012 c’erano 30 mila metri quadrati di spazi vuoti, oggi più di cento lavoratori/trici lavorano dentro agli spazi Rimaflow svolgendo diverse attività.
    Riappropriandoci del nostro lavoro stiamo attuando una riconversione ecologica della fabbrica. Stiamo costruendo una linea di produzione per la gestione delle apparecchiature elettriche ed elettroniche obsolete. Ad oggi abbiamo istaurato attraverso il nostro GAS Fuorimercato un positivo rapporto con i produttori locali fornendo loro una logistica per la distribuzione dei prodotti biologici e autofinanziandoci con piccole produzioni agro-alimentari come la Ripassata (passata di pomodoro) ed il Rimoncello (un gustoso limoncello).
    Abbiamo avviato un Mercatino dell'usato, e stiamo organizzando una piccola attività di ciclofficina e varie attività artigianali per creare opportunità di lavoro anche per altri disoccupati.
    Come autofinanziamento organizziamo inoltre spettacoli ed attività culturali (musica, teatro, corsi, ecc) con l'apertura di un bar e una piccola attività di ristorazione per chi frequenta le attività che si svolgono in fabbrica.
    Il progetto Ri-Maflow rappresenta il tentativo di rispondere alle due problematiche del nostro tempo: la crisi economico-finanziaria e quella ambientale. Crediamo che attraverso esperienze autogestite dai lavoratori/trici si possano creare le alternative a queste due crisi.
    L’alternativa è possibile e sostenibile. Si può lavorare senza padroni.
    Certo ci sono molte difficoltà.
    In Europa ci troviamo di fronte a governi ostili che non vedono di buon occhio esperienze di democratizzazione dell’attività lavorativa. E che attraverso la burocrazia e la tecnocrazia possono facilmente bloccare le produzioni autogestite. C’è un mercato che influenza le modalità di produzione e con il quale ci si deve relazionare per l’acquisto delle materie prime e per la vendita delle produzioni. C’è la necessità di trovare i capitali per gli investimenti necessari a creare o ad ammodernare la filiera produttiva.
    Tout court c’è una società capitalista fuori dalla fabbrica e non si può uscire da questa condizione. Tuttavia c’è la possibilità di una produzione “fuori mercato” anche in Europa. La crisi ci mette a disposizione questa opportunità. Fornendoci l’occasione per la moltiplicazione delle esperienze autogestite.
    Crediamo che anche in Europa si possano creare le condizioni per la creazione di esperienze simili ai movimenti sudamericani. Reti composte da imprese recuperate, università, sindacati e realtà di movimento capaci d’entrare nelle contraddizioni del capitale e produrre conflitto.
    La riuscita dei progetti di autogestione dipendono dalla capacità di sviluppare forze che portino in primo piano le esigenze del lavoro, di una nuova concezione economica, di una nuova società. Per arrivare a una nuova legislazione che sostenga le lavoratrici/ori e le dinamiche di riappropriazione sociale. Per attaccare il ricatto del debito e delle politiche di austerity: rivendicando una nuova finanza pubblica e il diritto al credito per il welfare e per le economie dei lavoratori.
    Reti capaci altresì di solidarietà materiale per veicolare le produzioni autogestite in canali commerciali “fuori mercato” ed intensificare gli interscambi tra le diverse realtà.
    Dal nostro punto di vista per la sua riuscita il progetto Rimaflow non deve fermare la sua azione ai confini della fabbrica. Ma aprire le porte al tessuto sociale e produrre conflitto politico. Per questo parliamo di autogestione conflittuale. L'obiettivo è quello di realizzare una "cittadella dell'altra economia". Dove attività produttive ed attività sociali si incontrano per resistere alla crisi e promuovere iniziative in rottura con il modello economico liberista.

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